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Nel 1963 il monaco buddhista vietnamita Thich Quang Duc si diresse verso il centro di una piazza, si sedette nella posizione del loto, chiuse gli occhi e iniziò a meditare. Un altro monaco si avvicinò, prese una tanica con venti litri di benzina, si diresse verso Thich Quang Duc e gliela versò addosso, ricoprendolo da capo a piedi. La gente si tappò la bocca. Alcuni si coprirono il viso per proteggere gli occhi dalle esalazioni. Sul trafficato incrocio cittadino calò un silenzio irreale.
Il monaco recitò una breve preghiera, allungò un braccio, prese adagio un fiammifero e, sempre con occhi chiusi e nella posizione del loto, lo sfregò sull’asfalto e si diede fuoco.
Le fiamme lo avvolsero all’istante. Il monaco si trasformò in una torcia umana. La veste si disintegrò. La pelle gli si carbonizzò. L’aria si riempì di un tanfo pestilenziale, un misto di carne bruciata, fumo e benzina. Dalla folla partirono urla e lamenti. Molte persone caddero in ginocchio o ebbero un mancamento. Erano quasi tutti imbambolati, sconvolti e pietrificati dall’accaduto. Eppure, mentre bruciava, Quang Duc rimase perfettamente immobile. Non fece una piega, non mosse un muscolo. L'istinto di sopravvivenza avrebbe dovuto prendere il sopravvento e spingere il corpo almeno a compiere qualche movimento scomposto o qualche gemito di dolore. Ma nulla. Il corpo del monaco non si scompose.
Gli altri strillavano, piangevano, si disperavano. Lui, al contrario, rimase calmo e silenzioso. La sua mente aveva preso il sopravvento sul corpo. Era entrato in un profondo stato meditativo: l'attenzione era stata ritirata completamente e venne riassorbita. Nel frattempo le fiamme divoravano l'involucro fisico.
Quell'uomo si era bruciato vivo senza muovere un cazzo di dito.
Non un fremito. Non un urlo. Non un sussulto, una smorfia, non un occhio aperto per dare un ultimo sguardo al mondo che aveva deciso di lasciare.
In quel gesto c’era purezza, o come direbbe Castaneda, c'era un intento inflessibile. È l’esempio lampante di come la mente sia in grado di dominare la materia, come la forza di volontà sia in grado di dominare gli impulsi.
Ma il suo sacrificio non fu invano.
Innanzitutto, dopo quel sacrificio, migliaia di persone si riversarono in strada in aperta rivolta all'amministrazione del loro dittatore. I comandanti del suo esercito iniziarono a disubbidirgli. I suoi consiglieri a ribellarsi. Alla fine, anche gli Stati Uniti furono costretti a ritirare il loro appoggio. L'episodio del monaco in fiamme fu la goccia che fece traboccare il vaso. Qualche mese dopo, il dittatore e i membri della sua famiglia furono assassinati.
L’immolazione di Quang Duc divenne presto virale e scatenò nella gente qualcosa di viscerale e universale, che travalica la politica e la religione. Toccò una componente fondamentale della nostra esistenza: la capacità di sopportare un dolore indicibile.
Dentro ognuno di noi c'è un misterioso nucleo, lo stesso nucleo imperturbabile che permise al monaco di sedersi con calma e di dare fuoco al suo corpo. Naturalmente non occorre spingersi a tanto, ma quella dimostrazione dovrebbe spingerci a rivalutare il nostro potenziale, la nostra forza, il potere dello Spirito.
Tutti noi possiamo attingere a quella calma e a quella forza interiore. Dobbiamo solo riconnetterci, risintonizzarci con il nostro nucleo. Per quanto orribile, in qualche modo il gesto di Thich Quang Duc era - è, e sarà - un'ispirazione. Per alcuni di voi può essere un motivo in più per avvicinarvi alla meditazione. Se già meditate è l'occasione per spingervi ancora più dentro, più in profondità. Per altri è un'occasione per ritrovare il coraggio di perseguire il proprio scopo con più determinazione . Per altri ancora quell'episodio può rappresentare uno stimolo per far fronte alle pressioni esterne e allo stress quotidiano. Le pressioni del mondo esterno, rispetto a quello che ha dovuto affrontare quel tizio, non sono nulla.
Raggiungete anche voi quel nucleo imperturbabile e rimanete centrati lì dentro.
P.S.
A proposito di intento inflessibile e del monaco che si dà fuoco e rimane seduto sul cuscino: al giorno d’oggi la maggioranza degli occidentali considera la meditazione una tecnica di rilassamento. Ti infili dei pantaloncini da yoga e ti siedi in una stanza disseminata di cuscini per dieci minuti, chiudi gli occhi e ascolti al cellulare una voce suadente ripeterti che stai bene, va tutto bene, andrà tutto alla grande, basta che segui il tuo cuore e bla bla bla.
In realtà la meditazione buddhista è un esercizio intensissimo, non basta un’applicazione mondaiola per eliminare lo stress. Una meditazione rigorosa prevede che ci si sieda in silenzio e ci si osservi senza pietà. Ogni pensiero, ogni giudizio, ogni inclinazione, ogni minimo nervosismo, ogni briciolo di emozione e congettura infinitesimale che ti passa per la testa viene metaforicamente agguantato, accettato e poi rilasciato nel vuoto. E il brutto è che il processo non finisce mai. Le persone si lamentano sempre di non saper meditare “bene”. Non c’è nulla da fare bene. È proprio questo il punto. Si tratta di un processo in continuo divenire, una micro-trasformazione dopo l'altra. Se uno medita a lungo, riaffiorano un sacco di robe assurde: strane fantasie e rimpianti per cose accadute decenni prima, strani impulsi sessuali e una noia mortale, e spesso una sensazione schiacciante di solitudine e isolamento. E anche queste emozioni devono essere semplicemente osservate, accettate e poi rilasciate nella vacuità.
Meditare è dare fuoco al proprio ego. Solo allora si potrà raggiungere la padronanza interiore del monaco Thich Quang Duc: la sua fermezza, la sua serenità, la sua infinita pace.
(ZeRo)
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