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Riflessioni sulla meditazione di Fabrice Midal
Ci torturiamo al fine di aderire a standard, imperativi, modelli che non ci appartengono. Ci torturiamo perché vogliamo “fare meglio” e riteniamo di non “far bene” mai. Ci torturiamo perché siamo convinti che gli altri, invece, sappiano “far bene”. E spesso lo facciamo senza che ce ne sia la necessità…
Siamo presi in un attivismo frenetico che ci rende completamente ciechi. Travolti dall’urgenza di “fare”, non ci accorgiamo che in realtà non “facciamo” nulla: ci affanniamo e dimentichiamo l’essenziale. Dimentichiamo di osare.
Lasciatevi in pace!
L’esperienza mi ha insegnato che non c’è altro modo per riscoprire in noi possibilità che avevamo completamente dimenticato. Fermatevi! È l’unico modo di agire. Liberatevi dei protocolli, delle procedure, delle pseudo-emergenze che non lo sono! Solo così sentirete rinascere in voi l’entusiasmo e la voglia di andare oltre.
Devo meditare?
È una domanda che mi capita di pormi quando vedo la valanga di libri e sento i tanti discorsi che ci invitano a praticare la meditazione, ci insegnano le tecniche per farlo e ce ne snocciolano i benefici.
Devo meditare? No, non in queste condizioni. Quando non ho voglia di meditare, non mi sforzo, mi limito a fare altre cose: non è né un bene né un male, e non è un dramma.
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Pratico la meditazione da oltre venticinque anni, la insegno da quasi quindici, ma non ho né una tecnica da trasmettere né promesse da sbandierare. Peraltro, quando ho iniziato a insegnare, in molti mi hanno predetto un fallimento. Cosa potevo comunicare dal momento che iniziavo spiegando che la meditazione non rende più produttivi, né più efficienti, che non fa mettere giudizio e che, fondamentalmente, nel senso comune, non serve a niente? Ed è proprio perché ci libera dalla schiavitù di questa dittatura dell’utilità e del rendimento proprie del nostro tempo che essa rappresenta un’opportunità.
Nel corso degli anni, ho visto l’ossessione per la prestazione diventare un veleno. Il rendimento e l’utilità sono diventate le parole chiave del nostro mondo… anche in fatto di meditazione. Ho assistito al proliferare di manuali ed esercizi, addirittura qualcuno la consiglia quasi con una precisa “posologia” adatta a garantire risultati dopo dieci o venti sessioni.
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Ho visto persone che approcciavano la disciplina prima titubanti, poi deluse: il loro “apprendimento” era fallito, non li aveva trasformati e neanche il loro stress era diminuito. Senza dubbio, mi dicevano, non si erano concentrate abbastanza, non erano riuscite a liberarsi dei loro pensieri, si erano lasciate distrarre, si erano sedute male, oppure poteva essere che quella tecnica prodigiosa, ma anche molto difficile, non facesse per loro. In realtà, avevano approcciato la disciplina come un esame: più si è tesi, più ci si concentra sull’obbligo di riuscire, più si rischia di avere un nodo in gola e le mani sudate, di provare paura e nessun piacere.
Questo tipo di meditazione, o ciò che chiamano tale, non mi appartiene. La meditazione, per come la intendo io, non è una tecnica, non è un esercizio, non ha nulla di misterioso: si tratta di uno stile di vita. L’arte di lasciarsi in pace. Non prescrivo nulla, non fornisco suggerimenti, non garantisco nulla e non assegno punteggi. Non suggerisco di osservare i propri pensieri mentre scorrono senza soffermarsi su di essi, come nuvole che alla fine si disperdono: questa tecnica non parte da una cattiva premessa, ma quando si pratica diventa rapidamente noiosa e si finisce per scoraggiarsi. E quando si è scoraggiati, si smette di essere vivi. Io però non ho alcuna voglia di torturarmi con il pretesto della meditazione. Preferisco puntare sull’intelligenza e l’umanità di ciascuno.
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In sostanza, si medita solo quando si cessa di provare a meditare. Se ci liberiamo dell’imperativo di dover riuscire in qualcosa, di dover realizzare qualcosa, di dover raggiungere un obiettivo. Quindi, di aver paura del fallimento. Certo, a volte mi capita di essere teso, e in quelle occasioni obbligarmi a rilassarmi è il modo migliore per stressarmi ancora di più. Di torturarmi. Non aspetto neanche che mi venga ordinato: so torturarmi benissimo da solo. Come chiunque, ho la tendenza a voler “far bene”. Talmente bene che mi ritrovo in uno stato di tensione estrema. Mi pongo delle sfide e mi prende il panico di non riuscire a esserne all’altezza. Eppure, so per esperienza che quando mi rendo conto di essere teso e non faccio nulla per superare questo stato d’animo, lasciando in pace la mia tensione, il più delle volte finisco curiosamente per rilassarmi molto in fretta. È questo gesto, al tempo stesso così semplice e così complicato, il fatto di osare passività, l’audacia di lasciarsi in pace, che io definisco meditazione.
Mi ricordo i miei nonni che trascorrevano molto tempo in silenzio a osservare il fuoco scoppiettante nel camino. Comunisti, si erano allontanati dalla religione e dalla spiritualità. Erano tutt’altro che mistici e non avevano mai sentito parlare di meditazione, ma le loro serate davanti al fuoco, per quanto mi riguarda, erano la cosa più vicina alla meditazione.
Per loro era una forma di purificazione della mente. Un atto naturale, banale, ma indispensabile. Naturale e banale quanto camminare, muoversi, stancarsi e praticare ciò che oggi definiamo sport e a cui, ormai, ci sottoponiamo seguendo regole ben precise, ricorrendo ad attrezzi, istruzioni e dispositivi per misurare le nostre prestazioni – e confrontarle con quelle degli altri. I nostri bisnonni non avevano di certo bisogno di correre per tenersi in forma.
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Un uomo molto affabile mi ha accolto all’ingresso e, con poche parole, mi ha introdotto alla meditazione: mi bastava, disse, sedermi bene sul cuscino ed essere presente, attento a ciò che succedeva. Mettere da parte le mie conoscenze e competenze, non sforzarmi di capire, perché non c’era niente da capire. Non ci potevo credere: davvero non dovevo fare niente di complicato.
Su quel cuscino, ho finalmente capito cosa fosse il sollievo, il reale. Non potete immaginare lo shock! Ero un pessimo studente, le mie pagelle in passato erano sempre state una lunga sfilza di “potrebbe fare di più”, “da punire severamente”, “sempre sulla luna”.
Lì, invece, per la prima volta non avevo niente in cui dover riuscire: mi bastava essere presente alla situazione, tornare ad avvertire la mia presenza corporea, il mio respiro, le mie sensazioni, le mie percezioni, ciò che mi circondava.
Mi rimaneva difficile da credere. In alcuni momenti mi sono preoccupato di essere giudicato, anche se nessuno era lì per giudicarmi, e allora mi sono sentito deluso, perso. Riuscivo a malapena a respirare, tanto mi concentravo nello sforzo di “far bene”. Ancora non sapevo che non c’è nulla da fare. Mi sarebbe piaciuto che qualcuno mi dicesse: «Lasciati in pace», ma non rientrava nel vocabolario dell’epoca.
Mio malgrado, tornavo a mettere in atto i soliti meccanismi che si utilizzano nella vita di tutti i giorni per portare a termine un compito, “facevo attenzione”. Attenzione a non commettere errori, a sedermi bene, a respirare bene. Poi, a un tratto, tutto è andato al suo posto: ho perso il senso della meditazione.
Ci sono voluti tempo, tentativi ed errori per ammettere, infine, che meditare è lasciarsi in pace.
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E che lasciarsi in pace, questa regola d’oro della meditazione, dovrebbe essere il leitmotiv di tutta la nostra esistenza. Siamo sempre spinti a “fare”: cucinare, lavorare, amare, guardare un film, rispondere al telefono. Anche quando diciamo «non faccio niente», in realtà facciamo un sacco di cose: zapping tra i canali in TV, parliamo con noi stessi, passiamo da un’attività e da un pensiero all’altro in maniera discontinua, temendo i momenti di silenzio. La nostra attenzione è frammentaria e abbiamo davvero l’impressione di “infischiarcene”, di perdere tempo inutilmente, di non realizzare niente di essenziale o importante.
Meditare, in fondo, è semplicemente essere. Il fatto di fermarsi, di concedersi una pausa, di smettere di correre per rimanere presenti a se stessi, per ancorarsi al proprio corpo. Si tratta di una scuola di vita. Essere non comporta alcuna conoscenza particolare.
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Meditare è restare un principiante. Aperto e curioso. Non facciamo nulla, eppure accadono un sacco di cose.
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Siete sopraffatti dai pensieri? E sia. Io non m’impongo di creare il vuoto nella mia testa: sono certo che otterrei il risultato opposto e finirei con un flusso incontrollabile di pensieri. Cerco piuttosto di entrare in connessione con ciò che sta accadendo, di prendere questi pensieri come vengono. Non li analizzo, non voglio dichiarargli guerra, né costringerli ad andarsene. Mi predispongo a considerare tutti i miei pensieri, le mie percezioni, tra cui quelle sensoriali, come parte della meditazione. In sostanza, non ho intenzione di fare nulla. Solo essere.
Meditare non equivale a distaccarsi o disincarnarsi ma, al contrario, aprirsi al mondo attraverso i sensi, e quindi attraverso il corpo. È sentire il suolo sotto i piedi, le mani sulle cosce, i vestiti sulla pelle. È sentire un’auto che frena, un passante che parla, senza cercare di capire, senza giudicare, senza dargli una definizione. Prenderne atto, tutto qui: sento, vedo, ho fame, sono connesso, e ben presto il suono cresce, diventa infinito, diventa poesia…
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La meditazione è come la respirazione senza regole né sanzioni. Ed è in questo che risiede il suo potere di guarigione. Respirare è risincronizzarsi con la vita. Meditare è lasciarsi in pace e autorizzarsi
(Brano dal libro "Sono tutte stronzate! Il metodo francese per superare i sensi di colpa: non serve essere perfetti")
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