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Notizie scoop, scoperte storiche (o bufale?) tratte dal libro "101 Stronzate A Cui Abbiamo Creduto Tutti Almeno Una Volta di Severino Colombo"
D’Annunzio e le costole del piacere
Che cosa lega Gabriele D’Annunzio e Marilyn Manson?
Poeta passionale uno, cantante maledetto l’altro, in apparenza non molto se non l’ego smisurato e il gusto di far parlare di sé. Nel bene e nel male. Una radiografia toracica rivelerebbe, invece, che entrambi hanno in comune qualcosa di mancante, due costole. Almeno così racconta la leggenda. Il Vate – è cosa di cui sono a conoscenza tutti gli studenti anche se non sta scritto in nessun manuale – se le fece asportare per poter… trarre più piacere da se stesso. Si tratta della pratica cosiddetta dell’autofellatio ( selfsucking), una forma di masturbazione dove il pene viene stimolato attraverso la propria bocca e di cui si trovano testimonianze già negli antichi egizi. Il vero problema, nel caso uno volesse provare, sta nell’arrivarci! Preclusa alla maggior parte degli uomini, tale pratica presuppone una notevole flessibilità della spina dorsale (tradotto: oltre a non riuscire nell’intento potreste procurarvi un’ernia del disco!) Non bastasse, pare faccia comodo anche una buona dotazione di base. L’equivalente femminile si chiama autocunnilingus ed è facile intuire che richieda doti da vere contorsioniste. D’Annunzio vantava fama di grande seduttore, secondo la leggenda ebbe circa quattromila amanti (compresa la pittrice lesbica Romaine Goddard Brooks, che per lui fece un’eccezione). Non abbastanza, evidentemente, per soddisfarlo: così si sarebbe fatto asportare le costole più vicine al bacino per fare da sé. Nessun biografo, però, è disposto a sostenere che l’abbiano fatto davvero. Così come nessun medico garantisce che l’operazione sia sufficiente a far guadagnare i preziosi centimetri mancanti. Al Vittoriale, la cittadella che D’Annunzio si fece costruire sul lago di Garda, tempio di imprese e memorie personali delle due costole non c’è traccia. Ci sono, in compenso, altre bizzarrie come un camicione con il buco sul davanti – proprio lì – che un D’Annunzio ormai avanti negli anni usava per non mostrare il corpo (flaccido) all’amante di turno, o i fazzoletti, rigorosamente di seta, che usava per detergere il membro al termine dell’atto sessuale. Lo stesso desiderio di autosoddisfazione avrebbe spinto all’asportazione delle costole Brian Hugh Warner, in arte il rocker satanico Marilyn Manson. Voci non confermate attribuivano qualche anno prima anche alla popstar Prince e a Tom Cruise una identica operazione (mentre al femminile il bersaglio è stata Cher). La cosa vera è che, per ora, la specialità dell’autofellatio non è così diffusa e praticata, visto che non è ancora stata inserita nel campionato mondiale di masturbazione (www.masturbatea-thon.com, vietato ai minori) che si tiene in America dal 2000: le categorie riconosciute sono durata, numero di orgasmi e gittata dell’eiaculazione. Per la cronaca nel 2010 ha trionfato il giapponese Masanobu Sato, stabilendo un nuovo record di resistenza: 9 ore e 58 minuti!
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John Titor, l’uomo che viene dal futuro
Altro che DeLorean, l’auto di Ritorno al futuro. Se, prima o poi, avete intenzione di fare davvero un viaggio nel tempo procuratevi una Chevrolet Corvette del ’66. Parola di John Titor, che di professione fa il crononauta. Nel bagagliaio della Chevrolet pare, infatti, si riesca a sistemare comodamente la C204, la macchina per il teletrasporto creata dalla General Electric. La stronzata su Titor, l’uomo che viene da futuro, è nata su Internet il 2 novembre 2000. Il primo messaggio di presentazione, firmato Timetravel_0, è essenziale: «Salve, sono un viaggiatore nel tempo. Provengo dall’anno 2036, sto tornando a casa dopo aver recuperato un computer IBM 5100 dall’anno 1975». È apparso su www.timetravelinstitute.com, che suona come il sito di un ente di ricerca ma è invece un forum di appassionati di viaggi nel tempo. Certo non basta affermare di essere un viaggiatore nel tempo per esserlo davvero, così nei successivi post, proseguiti per oltre un anno e poi raccolti in un libro ( John Titor. A Time Traveler’s Tale, disponibile su Amazon.com) dice qualcosa in più. Nelle discussioni in Rete, il crononauta ha raccontato dettagli, testimonianze personali e prove che hanno appassionato gli internauti e attirato l’attenzione dei media sulla reale possibilità dell’impresa. Titor chiarisce innanzitutto gli obiettivi della sua missione nel passato: recuperare un modello funzionante di IBM 5100, primo personal computer commercializzato dalla “Big Blue”, che sarà fondamentale nel futuro – dice lui – per scongiurare un tilt informatico. Racconta, poi, di aver voluto fare una sosta nell’anno 2000 per incontrare la sua famiglia (compreso se stesso all’età di due anni!). E annuncia alcuni avvenimenti che sarebbero accaduti da lì al 2036, ovvero nel nostro presente, azzeccandone alcuni (la guerra in Iraq) e mancandone clamorosamente altri (il crollo delle torri gemelle). E annunciando nel futuro prossimo lo scoppio della terza guerra mondiale (c’è tempo, ma se intanto volete segnarlo in agenda sarà il 12 marzo 2015). Impossibile chiedere personalmente a Titor ulteriori informazioni perché, pare, sia ripartito per il 2036, lasciandoci per ricordo un sito (www.johntitor.com). Dopo la sua partenza è nata una fondazione, la John Titor Foundation, che fa capo all’avvocato Lawrence Haber, non del tutto estraneo all’operazione dal momento che detiene i diritti d’autore sulla storia o sul merchandising. Sulla vera identità di Titor ci sono solo ipotesi: tra i sospettati c’è John Rick Haber, ingegnere informatico e fratello di Lawrence, ma anche tale Samson Rodriguez, che si è autodenunciato come autore della bugia. Il sogno di diventare crononauti non si è spento con la partenza di Titor il 24 marzo del 2001. Quattro mesi dopo, il 25 luglio del 2010, il «Corriere della Sera» titolava in prima pagina: Possibile viaggiare nel tempo. A sostenerlo è lo scienziato Seth Lloyd del MIT di Boston che ha dimostrato – a livello teorico – la possibilità del teletrasportarsi nel passato grazie alla fisica quantistica
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Il segreto di Lady Diana
Autista ubriaco sbanda in curva e finisce contro il pilastro di una galleria: oltre al guidatore, Henri Paul, perdono la vita le due persone che viaggiano sul sedile posteriore. Il tragico incidente, avvenuto il 31 agosto 1997 all’imbocco del Tunnel dell’Alma a Parigi, sarebbe stato archiviato così – e questa è la versione ufficiale al termine delle due indagini giudiziarie aperte – se i passeggeri della Mercedes S 280 non fossero stati Lady Diana Spencer e Dodi Al-Fayed. Una morte accidentale (i due erano in fuga dai soliti paparazzi) è inaccettabile per un personaggio tanto popolare e discusso come Lady D. Così, dopo neppure un anno dall’incidente, cominciano a circolare le voci di un complotto, anzi di più complotti. Una tesi – sostenuta da Mohamed Al-Fayed, padre di Dodi, imprenditore tra i più ricchi del pianeta (suo l’Hôtel Ritz di Parigi e suoi, allora, i magazzini Harrods di Londra) – vuole che siano coinvolti i servizi segreti militari britannici, MI6, che avrebbero agito, secondo le rivelazioni di un ex agente, accecando l’autista con un raggio laser. Alle morti di Diana e Dodi sarebbero inoltre collegati altri misteri: la scomparsa di persone informate sui fatti e di un’auto, una FIAT Uno, che fu coinvolta nell’urto ma il cui guidatore non si fermò a prestare soccorso e non fu mai ritrovata. Una seconda idea di complotto chiama in causa direttamente la famiglia reale, in particolare il principe Filippo, duca di Edimburgo, affiancato dai servizi segreti deviati. In questo caso ci sarebbe anche un movente: Lady D. era incinta e presto l’erede al trono d’Inghilterra avrebbe avuto uno “scomodo” fratellastro di sangue arabo. Proprio il giorno della morte Dodi le avrebbe comprato un anello di fidanzamento che però non fece in tempo a darle. Queste fantasiose teorie erano, però, destinate a subire un duro colpo nel 2006 quando il settimanale spagnolo «Interviù» (ripreso in Italia da «Chi») annunciò una verità shock. Appena prima dello schianto la principessa Diana stava facendo sesso con il fidanzato sul sedile posteriore. Fu questo a distrarre l’autista che, già con i riflessi annebbiati dall’alcol, stava con gli occhi incollati allo specchietto retrovisore per non perdersi lo spettacolo. Parola di Jean-Michel Caradec’h, fotografo francese entrato in possesso di un dossier riservato della polizia. Quattromila pagine – da cui ha tratto un libro, Diana, l’enquête criminelle – con immagini mai viste e testimonianze non divulgate, tra cui quella del paparazzo Romuald Rat, primo ad arrivare sul luogo dell’incidente. Il fotografo avrebbe dichiarato di aver visto Dodi AlFayed «scomposto sul sedile e con il sesso in bella vista». Tutto chiaro allora, nessun complotto ma solo… effusioni fatali. C’è da fidarsi? Fate voi. Solo qualche settimana prima il tabloid inglese «The Mirror» aveva immortalato, dopo lunghi pedinamenti, il primo bacio tra Lady D. e Dodi, durante una crociera: Labbra bollenti, il titolo dello scoop. Peccato fosse una bugia, un fotoritocco… al bacio
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Le balle di Berlusconi Balle e potere.
Quando si ha la fortuna di avere leader politici inclini allo scherzo e alla boutade, rappresentanti delle istituzioni che amano le battute forti e le frasi a effetto, che sconfinano nella gaffe, veri cultori della barzelletta… allora anche le bufale – mezze o intere – finiscono per avere la loro parte di gloria. Silvio Berlusconi, ad esempio, è uno che le bufale le crea, le alimenta e, talvolta, le subisce. Tra quelle create, figurano bufale elettorali (il milione di posti di lavoro promesso nel 1994), estetiche (la bandana lanciata nell’estate del 2004 come moda vacanziera che serviva a coprire un trapianto di capelli), di compleanno (quello dei diciotto anni di Noemi Letizia; ancora ci si chiede se il leader del PDL ci fosse davvero a Casoria), rituali (il “bunga bunga”, spacciato per una movimentata pratica tradizionale africana di fertilità e di scambio, che avviene tra uomini e donne a distanza ravvicinata). E via dicendo, spaziando tra magistratura, sesso, famiglia e avversari politici… Tra le bufale alimentate da Berlusconi, eccone una poco nota e piuttosto raffinata. È quella che riguarda la pubblicazione di un libro: Il Principe di Niccolò Machiavelli annotato da Napoleone Buonaparte. Si tratta di un falso documento scritto nel 1816 dal monarchico Aimé Guillon de Monteléon per dare sostanza al suo antibonapartismo. Il libro, “riscoperto” centosettant’anni dopo, è stato pubblicato in edizione limitata dalla Silvio Berlusconi Editore, come regalo agli «amici più cari» per le festività di fine 1992. L’introduzione è dello stesso leader, da sempre cultore del mito napoleonico, che definisce i consigli e i commenti «geniali». Le strategie politiche e d’immagine suggerite dallo pseudogenerale a margine del testo di Machiavelli, pur non autentico, conservano però, osserva l’editore e imprenditore, una «singolare validità anche ai nostri giorni». Infine, tra le bufale subite da Berlusconi, c’è quella che riguarda l’aggressione del 13 dicembre 2009. Al termine di un comizio in piazza del Duomo, a Milano, il leader politico è stato colpito da una statuetta souvenir lanciata da distanza ravvicinata da uno squilibrato, riportando ferite al volto, la frattura del setto nasale e la rottura di due denti. Poche giorni dopo, in rete girava un video-bufala – caricato su YouTube, linkato da Corriere.it e visto da 30.000 utenti – che sosteneva e “dimostrava” come l’aggressione fosse una montatura. Le immagini prese da RAINews24 erano montate, analizzate e commentate per sottolineare presunte incongruenze, ventilare misteri e alimentare dubbi sullo svolgimento dei fatti. Insomma, dietro ci sarebbe stato un piano machiavellico. Resta, ancora, un dubbio: è una barzelletta o è vero che un artista, Gianni Motti, ha comprato il grasso tolto a Berlusconi dopo un intervento di liposuzione per farne un’opera d’arte – il sapone Mani pulite – venduta a un collezionista per 18.000 dollari?
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I mangiatori di bambini
A Taiwan si mangiano i bambini. Non di nascosto, ma al ristorante, dove si ordinano dal menu o si comprano nei negozi fatti a pezzi e impacchettati. Incredibile! Ma ancora più incredibile è che i taiwanesi non sono neppure comunisti. Fossero stati russi o cinesi sarebbe stata la variante di una leggenda nota. Ma i taiwanesi nel novero dei mangiabambini sono una new entry. Tranquilli, è una bugia. L’appello-denuncia, che ha cominciato a circolare nel 2001 – in alcune versioni si attribuiva la barbara usanza ai thailandesi – è falso, anche se può contare, rispetto alle voci del passato, sulla prova fotografica. Immagini shock che mostrano una ragazza davanti a uno scaffale di vasetti con la scritta “cibo umano”; un cuoco intento a fare letteralmente a fettine un cervello; un signore che addenta il corpicino di un bimbo come fosse un pollo. Non credeteci! Nei vasetti potrebbe esserci qualunque cosa; il cervello è troppo grande per essere di un bambino; il corpo al forno è quello di un’anatra con una testa di bambola. Si tratta di una messa in scena, anzi di una mostra: Eating People dell’artista cinese Zhu Yu. E per essere una rappresentazione di arte concettuale è fin troppo esplicita, greve e di dubbio gusto. Del resto, per rimanere sullo stesso macabro tema, anche l’ironia caustica di Jonathan Swift, l’autore dei Viaggi di Gulliver, fu mal sopportata dai contemporanei quando, nel 1729, nel pamphlet Una modesta proposta lanciò, con un paradosso satirico, l’idea di una dieta a base di poppanti, che avrebbe permesso di trasformare un problema sociale (l’alto numero di figli nelle famiglie cattoliche irlandesi) in un beneficio per la famiglia stessa e l’intera comunità: «Un infante sano e ben allattato all’età di un anno è il cibo più delizioso, sano e nutriente che si possa trovare, sia in umido, sia arrosto, al forno, o lessato; ed io non dubito che possa fare lo stesso ottimo servizio in fricassea o al ragù». Il testo vale la pena leggerlo per intero su www.filosofico.net. Una precisazione meritano anche le leggende secondo le quali russi e cinesi mangiano i bambini. Nel primo caso episodi di cannibalismo e necrofagia, anche infantili, sono documentati intorno agli anni Venti del Novecento non per scelta del regime comunista ma per colpa di una terribile carestia che colpì il Paese. In Cina è vero che la placenta era considerata una panacea nella medicina tradizionale e lo è tutt’oggi: lo «Shanghai Daily» (ripreso dal sito www.tg1.rai.it) riferisce di un’inchiesta aperta nell’agosto del 2010 per un traffico di placente che uscivano sottobanco dall’ospedale di Tongxu, nella contea di Kaifeng, e attraverso intermediari finivano in ristoranti e negozi; due persone sarebbero state fermate ma l’ospedale nega. La leggenda continua
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Il mistero dei cerchi nel grano
Chi non ha mai sentito parlare dei crop circles, i “misteriosi” cerchi nel grano? Sono composizioni di figure geometriche, pittogrammi detti “agroglifi” ottenuti piegando le spighe in un certo modo. Appaiono da un giorno all’altro – anzi perlopiù da una notte all’altra – nei campi di cereali; le loro dimensioni possono variare da poche decine di metri ad alcune centinaia. La comparsa del fenomeno risale agli anni Settanta. Se la patria è la Gran Bretagna, da allora le apparizioni si sono moltiplicate ovunque. Oggi è difficile tenere un conto esatto, visto anche l’andamento stagionale del fenomeno. Nel mondo se ne stimano circa diecimila. In Italia avvengono soprattutto al Nord, l’ultima apparizione (per ora) risale a fine settembre 2010 a Cavazzale, nel Vicentino. Una spiegazione scientifica c’è: «I cerchi sono esclusivamente opera umana», scrive Massimo Polidoro del CICAP, Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale (www.cicap.org), vera autorità in materia. E c’è pure la dimostrazione pratica di come realizzare bufale agresti. I primi furono due sessantenni inglesi che, nel 1991, si autodenunciarono come autori dei cerchi apparsi alla fine degli anni Settanta a Cheesefoot Head, nell’Hampshire, dalle parti di Winchester, l’antica capitale sassone. I due artistiburloni dissero di aver copiato l’idea da creazioni simili viste durante un viaggio in Australia, mostrarono l’attrezzatura usata (tavole e corde), svelarono la tecnica e ripeterono l’esperimento davanti ai giornalisti. Ma ormai la moda dei cerchi nel grano, grazie a solerti emulatori, aveva preso piede e non solo in Gran Bretagna. Fatta questa doverosa premessa sarebbe davvero un peccato però non passare in rassegna le ipotesi – fantasiose, azzardate, assurde – che da decenni girano attorno ai cerchi misteriosi. A farla da padroni sono gli UFO. Gli autori dei crop circles, che non a caso si vedono meglio dall’alto, sono gli extraterrestri, che stanno cercando di comunicare con noi; per realizzarli ricorrerebbero a sofisticate tecnologie, come sfere di luce o perfino non meglio precisati “vortici di plasma”. Secondo altri, invece, rimane valida la spiegazione aliena, ma i segni sul terreno sarebbero semplicemente quelli dell’atterraggio delle astronavi. Un’altra spiegazione, che arriva sempre dallo spazio, vuole che siano opera di raggi “sparati” da satelliti artificiali nel corso di esperimenti segreti. Poteva poi mancare lo zampino del diavolo? L’idea della manifestazione diabolica è supportata da un documento, una stampa del 1678 intitolata Il diavolo mietitore: racconta la leggenda di un signorotto che rifiutò di accordare a un bracciante il giusto compenso per mietere il grano e si sentì rispondere: «Che lo mieta il diavolo, allora!», e così avvenne. Se le spiegazioni “naturali” che fanno riferimento all’azione di venti non sono compatibili con la complessità degli agroglifi, affascinante è la teoria della cimatica, secondo cui i cerchi sono l’effetto di una «risonanza morfologica» ovvero i disegni sarebbero rappresentazioni di frequenze sonore. Molto New Age l’idea che gli elaborati pittogrammi siano la manifestazione dello spirito stesso della Terra: il pianeta vuole comunicarci un messaggio, attraverso una sorta di channeling che parla agli strati più profondi della nostra coscienza. Infine, ci sono i creatori dichiarati di cerchi nel grano, come gli inglesi di www.circlemaker.org e gli olandesi di www.xldsign.com, artisti che “sul campo” si sono misurati con la realizzazione di figure sempre più complesse. Come ci riescano resta comunque un mistero
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Da Johnny Depp a Lino Banfi: la finta morte corre sul web
Si vive e si muore una volta sola. Oppure no. Le stronzate delle false morti di personaggi noti impongono di introdurre accanto al manicheo dead or alive una terza possibilità, le deaths on the web, decessi temporanei che durano il tempo di una verifica e di una smentita e sono seguiti da istantanee risurrezioni. È accaduto, nel 2008, a Miley Cyrus, la star di Hannah Montana: un video su YouTube ne annunciava la morte dopo essere stata investita da un’auto e ricoverata in condizioni disperate al Pacific Alliance Medical Center di Los Angeles. Una bufala, opera di un pirata, non della strada ma della rete. Prima di lei era “deceduto”, anche lui in un incidente d’auto, l’attore Bill Cosby, il papà della serie TV I Robinson: in questo caso la notizia non era solo falsa ma rappresentava un’esca con cui truffatori ottenevano dati e numeri di carte di credito. Altre non morti eccellenti sono state quelle di Isabelle Adjani (che nel 1987 è dovuta andare alla TV pubblica francese per dire che era tra noi e stava benone), Natalie Portman, Will Smith, Tom Cruise (nel 2008, mentre girava una scena di arrampicata in Nuova Zelanda), Sean Connery, Diego Armando Maradona, Paul Gascoigne, Fidel Castro e Johnny Depp (nel gennaio 2010, vicino a Bordeaux, con tanto di prova fotografica dell’auto distrutta). Lino Banfi ha scoperto di essere spirato all’età di settantatré anni, nel gennaio del 2010: in linea con la simpatia del popolare personaggio la smentita, arrivata poche ore dopo sulla pagina dei fan su Facebook: «Raghezzi, qualcuno ha scritto ieri notte su Internet che sono morto, mentre sono vivo e vegeto e mi gratto». L’ha presa con ironia anche Gianluca Grignani che, dato per trapassato nel 2003, girava poi con una T-shirt con scritto «Sono vivo». Morti-lampo anche per Vasco Rossi, Monica Vitti, Giorgio Armani, Max Pezzali e Bruno Pizzul. Se siete convinti che annunciare la scomparsa di qualcuno gli allunghi la vita siete pronti per il www.fantamorto.com, sito dove ogni anno ognuno può proporre i propri candidati all’aldilà. Strappa, infine, un sorriso l’annuncio della morte di Marge Simpson, moglie di Homer; la fine avrebbe dovuto avvenire nel 2008, nel corso della ventesima serie del cartoon; era una balla, Margie gode di ottima salute. Vale per tutti il commento dello scrittore Mark Twain, quando lesse sul «New York Times» il proprio necrologio: «La notizia è alquanto esagerata»
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Bufalieri di professione
Quelli che… fanno i medici ma non sono dottori.
Quelli che… si spacciano per dentisti senza i titoli.
Quelli che… sono diventati avvocati senza neppure iscriversi all’università.
Quelli che… guidano gli aerei senza essere piloti.
Insomma, parliamo dei bugiardi di professione (e pure di quelli andati in pensione). I contaballe con molto pelo sullo stomaco da inventarsi un curriculum-bufala e mettere pure la targa sulla porta dello studio. Una balla occasionale buttata lì per far scena, trasformata in stronzata seriale, in un lavoro. Con quello che – una volta scoperti – ne consegue: si va dall’esercizio abusivo della professione alla truffa. Comunque sia, è sempre materia da codice penale. Troppo ricco e vario – e in costante aggiornamento – il catalogo per esaurirlo qui. Possiamo, però, fornire quattro campioni rappresentativi. 1) La legge è uguale per tutti, anche per Giuditta Russo che, fino al 2009, ha fatto credere a tutti, parenti compresi, di essere un avvocato (e pure bravo!) senza aver mai dato un esame. In dieci anni di attività il falso legale napoletano (tranquilli, nessun regionalismo, qualche anno prima era accaduto a un falso “collega” di Varese) ha aperto due studi in Campania e in Emilia, e vinto duecentocinquanta cause, prima di essere condannata a cinque anni. Ma il suo difensore, vero, ha subito presentato ricorso. 2) Thomas Salme aveva accumulato qualcosa come diecimila ore di volo, dodici anni di decolli e atterraggi senza incidenti, quattro anni da secondo pilota e tre da capitano. Mica male per uno che di mestiere fa il fotografo! Salme, che ha lavorato tra il 1997 e il 2006 per AirOne, non aveva mai ottenuto il brevetto per condurre aerei passeggeri. La formazione se l’era fatta da solo di notte sui simulatori di volo della compagnia scandinava SAS e il posto l’aveva ottenuto con una bugia, contraffacendo la licenza svedese. Visto che ormai aveva fatto carriera quando venne scoperto, oltre a duemila euro di multa e alla sospensione del brevetto per un anno gli fu data la possibilità di diventare un vero pilota. Ha rifiutato preferendo dedicarsi finalmente alla fotografia. 3) In campo sanitario è da record la balla di un ricercatore ligure durata ben venticinque anni. Approfittando di un’omonimia, si è attribuito una laurea in medicina pura vendo dato solo un pugno di esami; il finto medico, ormai sessantenne, è stato scoperto per caso dai NAS nel 2008 durante un controllo a campione. 4) Medico lo era davvero, invece, e pure docente alla facoltà di Medicina dell’università di Padova. Quella che mancava al cinquantaseienne professore padovano era la specializzazione in Ginecologia. Eppure, nel 2003, riceveva come ginecologo in uno studio privato, arrivando a molestare le pazienti con un innovativo “metodo americano” basato su una stimolazione previsita. Scoperto è stato indagato per violenza sessuale con abuso di poteri e violazioni dei doveri di una pubblica funzione. 5) Nel novero del falsi professionisti merita un posto anche il console onorario della Mongolia in Italia, assunto (poi sospeso) all’università di Macerata: il posto l’aveva ottenuto per aver insegnato all’università Zokhiomj di Ulaanbaatar, come provavano documenti controfirmati e timbrati dal console di Mongolia, ovvero lui stesso. L’università Zokhiomj non esiste, almeno in Mongolia. 6) Infine, la storia vera di un catanese di quarantatré anni, scoperta all’inizio del 2010, ricorda una leggenda metropolitana: la minestra fatta per sbaglio con le ceneri della nonna conservate in un barattolo di zuppa Campbell. Per sei mesi l’uomo ha tenuto la nonna, morta, nel congelatore di casa. Solo che, nel freezer, non c’era caduta per sbaglio ma ce l’aveva messa il nipote per continuare a prendere la pensione
PID, ecco la vera fine di Paul McCartney
Non sono solo gli appassionati di musica a dover ringraziare Paul McCartney. Pure i cacciatori di bufale hanno ottimi motivi per essergli eternamente grati perché senza di lui non esisterebbe il PID, teoria nata nel 1969 e divenuta, negli anni, una leggenda metropolitana tra le più note, diffuse e consolidate nel mondo del rock. Cosa sostiene? Basta sciogliere l’acronimo – PID – per scoprirlo: Paul Is Dead, ovvero Paul è morto. In sintesi: l’ex bassista dei Fab Four sarebbe morto in un incidente stradale; il manager, d’accordo con la band, avrebbe deciso di tenere la notizia segreta e al posto di McCartney sarebbe stato ingaggiato un sosia… A dare sostanza alla leggenda sono i dettagli. Come l’esatta collocazione temporale: il fatto sarebbe accaduto il 9 novembre 1966. O come i particolari sull’incidente: sull’auto, una Aston Martin, c’era anche una ragazza, una certa Rita, che stava scappando di casa e che Paul aveva raccolto mentre faceva l’autostop. Non guastano precisazioni da Grand Guignol: nell’impatto Paul oltre la vita perse anche la testa, nel senso che fu decapitato. E neppure elementi di verosimiglianza: il sosia che prese il suo posto ha un nome e un cognome, è William Campbell, ex poliziotto, che per risultare più credibile si è sottoposto a interventi di chirurgia plastica. Al colpo geniale di rimpiazzare Paul con un sosia, va aggiunta la fortuna di averne trovato uno tanto bravo (e pure mancino) da non far rimpiangere l’originale: uno capace cioè di comporre canzoni come Hey Jude, Helter Skelter e Let It Be, tutte scritte nel dopo PID e pure di meritarsi un posto nel Guinness dei Primati come Re del Pop grazie a sessanta dischi d’Oro e cento milioni di singoli venduti! La parte più appassionante della teoria PID sono poi i riscontri. Generazioni di beatlesiani hanno passato al setaccio l’opera omnia dei ragazzi di Liverpool trovando una mole incredibile di riscontri (non senza qualche forzatura e incongruenza) a favore dell’ipotesi del sosia perfetto. “Prove” che ricorrono nei testi delle canzoni ( Eleonor Rigby, Billy Shears, Lovely Rita, Abbey Road). Che emergono dall’ascolto di tracce fantasma o da brani al contrario ( I’m the Walrus, Glass Onion). O che sono da ricercare (con lenti d’ingrandimento e specchi) su libretti ( White Album) e copertine dei dischi. Ad esempio su quella di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, dove compaiono un modellino di Aston Martin, un guanto da automobilista sporco di sangue, una composizione floreale a forma di basso (dello stesso tipo usato da Paul) e ancora, con uno specchio rivolto verso l’alto – messo a metà della scritta Lonely Hearts – si ottengono le frasi “1 One 1” (ovvero tre come i membri superstiti) e “He die”, con esplicito riferimento a Paul, c’è addirittura una freccia che lo indica! In conclusione, se è difficile immaginare il pop senza i Beatles, lo è altrettanto pensare ai Beatles senza McCartney. E, dopo quarant’anni, perfino immaginare McCartney senza il suo doppio
Le famose piramidi invisibili della Bosnia
Macché piramidi d’Egitto! Deve esserselo detto anche l’Indiana Jones dei Balcani, Semir Osmanagic. La conclusione a cui giunse, guardando le colline dalla forma vagamente piramidale di Visoko, cittadina non distante da Sarajevo, sorprese tutti: «Piramidi sì, ma della Bosnia». Era il 2005 quando Osmanagic annunciò al mondo la sua scoperta. Le piramidi – le prime in Europa – erano rimaste invisibili perché, dopo la glaciazione avvenuta 12.000 anni fa, erano state ricoperte da strati di terra e vegetazione. Erano sfuggite chissà come, per secoli, agli abitanti della zona e pure agli archeologi, che avevano studiato quell’area e avevano recuperato “solo” reperti di epoca neolitica. Osmanagic, invece, individuò non una ma cinque piramidi (poi scese a quattro, poi a tre). Tra queste anche un manufatto gigantesco, ribattezzato “piramide del Sole”: un edificio senza rivali al mondo per dimensioni che con i suoi 190 metri di altezza guardava dall’alto la piramide di Cheope (che non arriva a 150). Fatte a gradoni, le piramidi, a suo dire ben visibili anche dalle immagini satellitari, avevano una preciso orientamento rispetto ai punti cardinali e una pendenza di 45°. Con la supervisione del museo di Visoko e con il beneplacito delle autorità locali, che intravedevano uno futuro turistico per l’area, iniziarono gli scavi guidati da Osmanagic, che a tempo record aveva pubblicato il libro The Bosnian Pyramid of the Sun. Discovery of the first European pyramids. A quel punto la comunità scientifica cominciò a interessarsi alla scoperta e l’UNESCO mandò una spedizione per capirne di più. E qui cominciarono i guai. Classe 1960, bosniaco emigrato in America, con alle spalle studi di economia, Osmanagic aveva aperto a Houston un’azienda di materiali edili, ma il suo pallino era l’archeologia. La sua teoria – che le piramidi della Bosnia avessero a che fare con gli Illiri, possibili costruttori, e pure con la civiltà di Atlantide, con i Maya e con un popolo arrivato dallo spazio – non contribuì a dargli credibilità a livello internazionale. A mancare erano, a detta degli studiosi, sempre i riscontri scientifici. Quelli che fanno la differenza tra archeologia e fanta-archeologia. Risultò così che i gradoni della piramide del Sole erano stati realizzati durante gli scavi; che le lastre di pietra e le misteriose sfere ritrovate si spiegassero come formazioni geologiche o come manufatti di epoca medievale; e i cunicoli-gallerie che portavano dentro e fuori dalle piramidi fossero legati al recente passato di sito minierario dell’area. Alla prova dei fatti quelle di Visoko sono soltanto colline a forma di piramidi che oggi fanno parte del parco archeologico della Bosnian Pyramid of the Sun Foundation (www.piramidasunca.ba). L’istituzione, presieduta da Osmanagic, raccoglie fondi, organizza tour e propone anche campagne di scavi. Per «essere creatori» della Storia, suggerisce il fantarcheologo. E su questo non si può dargli torto
Orson Welles e l’invasione dei marziani
«Signore e signori, vogliate scusarci per l’interruzione del nostro programma di musica da ballo». Inizia così la più celebre beffa del secolo scorso, l’invasione aliena raccontata in diretta radiofonica alle ore 20:00 del 30 agosto 1938. Al microfono c’è un attore ventitreenne che al termine del programma esce dagli studi della CBS ed entra in una sala teatrale per le prove di uno spettacolo, inconsapevole (pare) di essersi meritato un biglietto di sola andata per Hollywood (la RKO lo assolderà per tre film), di essersi guadagnato un posto d’onore nella nascente storia dei mezzi di comunicazione di massa e soprattutto di aver sconvolto la vita di migliaia di persone del Paese. L’attore era Orson Welles. Il presunto attacco marziano era uno sceneggiato, tratto dal romanzo La guerra dei mondi di H.G. Wells, trasmesso nel programma Mercury Theatre on the Air (l’audio originale è su www.mercurytheatre.info, mentre all’evento è dedicato il sito www.war-oftheworlds.co.uk). Il colpo di genio di Welles fu di ricavarne un adattamento che richiamasse in maniera verosimile la cronaca. L’idea è quella di un tranquillo programma musicale durante il quale irrompe la notizia di qualcosa di strano che sta accadendo su Marte. Alla prima interruzione delle trasmissioni ne seguono altre che danno conto con ansia crescente dell’avvicinarsi alla Terra «a grande velocità» di una non meglio identificata massa di idrogeno. Fino all’annuncio di un oggetto fiammeggiante entrato nell’atmosfera e precipitato su un terreno agricolo di una fattoria nei pressi di Grovers Mill, in New Jersey. Con la concitazione di chi assiste a un fatto senza precedenti il cronista mandato sul posto prova a raccontare ciò che vede. Primo shock: quello che sembrava essere solo un meteorite si rivela qualcos’altro. «Un momento! Sta accadendo qualcosa! Signori e signore, è terrificante! L’estremità dell’oggetto comincia a muoversi!». Tutt’attorno voci e urla concorrono a rendere la finzione più vera del vero. Secondo shock: la Terra è attaccata dai marziani. La reazione di chi ascolta la cronaca della distruzione di New York è di panico: linee telefoniche intasate, la gente esce dalle case e invade le strade in cerca di una via di fuga o di un luogo sicuro; gesti di disperazione ed episodi di violenza. Tutto accaduto veramente. Vale la pena sottolineare che durante la diretta radiofonica viene ripetuto ben quattro volte che ciò che si sta trasmettendo non è una cronaca vera ma un racconto inventato. Talvolta si finisce per ascoltare e credere solo quello che si vuole, e nel 1938 l’America – con le tensioni di una guerra che stava per esplodere e il sogno delle nuove frontiere dello spazio – era “pronta” per subire – e respingere – un’invasione marziana
La leggenda dei messaggi nascosti nei dischi
Alzi la mano chi ha pensato che quella dei dischi incisi al contrario fosse una bufala. Questa tecnica esiste eccome, si chiama backmasking (o backward masking). La bugia è un’altra: sta nel credere chi si tratti di messaggi subliminali, cioè di informazioni che il cervello assimila a livello inconscio ascoltando la canzone. Il primo ad accorgersi che un disco riprodotto al contrario su un fonografo poteva dare suoni del tutto diversi dall’originale fu Thomas Edison già alla fine del Ottocento. La tecnica fu poi utilizzata da maghi e illusionisti per gli effetti speciali. Negli anni Cinquanta del Novecento, con i registratori a nastro, la possibilità di incidere al contrario fu sfruttata dalle avanguardie musicali, come le sperimentazioni di “Musica concreta”. I Beatles nel pop furono tra i primi a utilizzare sia suoni di canzoni riprodotte al contrario (nell’album Revolver del ’66) sia veri messaggi (nel singolo Rain). Ma il meglio – o il peggio, secondo i punti di vista – doveva arrivare con il rock: negli anni Settanta in America gruppi di cristiani fondamentalisti cominciarono a “sentire”, ascoltando canzoni al contrario, messaggi occulti che inneggiavano all’uso di droghe e a Satana. Così una strofa di Stairway to Heaven dei Led Zeppelin rivelerebbe la frase «Ecco il mio dolce Satana»; “dietro” il ritornello di Another One Bites The Dust dei Queen l’inno alla droga: «Cominciate a fumare marijuana». Intanto alcuni artisti cominciarono davvero a giocare con il backmasking nascondendo frasi enigmatiche. Come i Pink Floyd in Empty Spaces – «Niente di meglio: congratulazioni! Hai appena scoperto il messaggio segreto…» – i Black Sabbath e gli Slayers, band trash metal, che inserirono apposta riferimenti all’immaginario satanico per non deludere i propri fan. E, ancora, gli AC/DC, i Judas Priest (che nel 1980 hanno dovuto difendersi in tribunale dall’accusa di aver spinto un ragazzo al suicidio), gli Eagles, i Rolling Stones fino a Britney Spears e a Eminen. Molti si ritrovarono nella lista dei “cattivi” per colpa della pareidolia, un effetto psicologico che porta ad associare o attribuire a un suono un significato. Per intenderci è un po’ come quando si ripetono in loop tre vocaboli comuni quali oca, gatto, letto e chi ascolta ha l’impressione uditiva che si stia dicendo qualcosa di scurrile. E tra gli italiani? Zucchero, Vasco Rossi, Litfiba, Battiato e molti altri (forse troppi per essere vero). Un elenco, in costante aggiornamento, lo trovate nell’archivio multimediale del Centro culturale San Giorgio (www.ccsg.it) che ne ha fatto una crociata tanto da fornire per ciascun brano la prova audio. La tecnica del backmasking può essere, infine, usata anche per fini estetici, per riversare un parte del brano o l’intera traccia strumentale. L’hanno fatto, in maniera geniale, Elio e le Storie Tese nel brano Ignudi fra i nudisti, la cui melodia è quella di Suspicious Minds di Elvis Presley al contrario. E se capovolgete il brano trovate una cover dello stesso brano
. Osama bin Laden è già morto (due volte)
Osama bin Laden… • è un agente della CIA; • è un tifoso di calcio; • è stato catturato dagli americani; • beve e scherza con gli amici intorno a un falò; • è morto (almeno due volte); • non esiste; • predice il futuro. Se c’è uno che le bufale le attira come mosche è proprio lui, il cattivo per eccellenza del ventunesimo secolo. A “rivelare” che il capo di Al-Qaeda è un agente CIA è stato il líder máximo Fidel Castro sulla base di documenti riservati dell’intelligence americana pubblicati su Wikileaks nell’estate del 2010. Più o meno nello stesso periodo si è scoperto che Osama era pure un appassionato (speriamo non fanatico!) di calcio («Newsweek», luglio 2010). Della morte – la prima – di bin Laden parlò alla BBC, nel 2007, la statista scomparsa Benazir Bhutto. La seconda, nel 2009, è una boutade, poi smentita, del presidente pakistano Asif Ali Zardari. Bin Laden che beve e scherza con gli amici davanti a un falò (mancano solo la chitarra e le canzoni di Lucio Battisti) si vedeva in un video che due agenti della CIA hanno rivelato al «Washington Post» (maggio 2010) essere un falso. Come, del resto, pare siamo molti di quelli che circolano su di lui. In questo caso, però, c’è la certezza: è stato girato da membri stessi dei servizi segreti travestiti da arabi. La notizia della cattura del terrorista è stata data nel 2004 dalla radio di Stato dell’Iran, con la precisazione che il leader di Al-Qaeda fosse già da tempo nelle mani degli americani. Dopo l’attentato alle torri gemelle del 2001, rivendicato da Al-Qaeda, tra le mille bufale che cominciarono a circolare via posta elettronica c’era anche quella dei venti dollari di Bin Laden: nella banconota è contenuta non solo la profezia del crollo ma pure la firma del responsabile, Osama stesso. Beati coloro che credono alla bufale per fede. Gli altri saranno, invece, costretti dalla curiosità a cercare i venti dollari per fare la prova. Già che ci siete procuratevi anche un manuale di origami, vi farà comodo. Per “vedere” le torri gemelle in fiamme occorre piegare a metà per il lato lungo la banconota poi piegarla di nuovo, stavolta per il lato corto, e aprire gli angoli; per una visione del Pentagono avvolto dal fumo, ripetere l’operazione rivoltando la banconota. Trovare la firma nascosta è più complesso: si devono piegare i venti dollari lasciando scoperte alcune lettere della scritta “The United States of America” grazie alla quali comporrete la scritta SAMA, per la O dovrete, invece, accontentarvi dello zero nell’angolo in alto a sinistra
21/12/2012: appuntamento con la fine del mondo
Ecco un ottimo motivo per non prendere impegni per il 21 dicembre 2012: c’è la fine del mondo! Tutti avvisati e guai a lamentarsi che cade di venerdì e ci si gioca il week end. Certo fosse stato un lunedì sarebbe stato meglio, tutti d’accordo. Ma pazienza, sarà per la prossima volta. Anzi no, perché pare che lo spettacolo sarà unico, senza repliche. La fine inizia alle 23:11 (se dite 11.11 PM fa più effetto): in quel preciso istante il sole sarà in linea con il centro della Via Lattea, un allineamento galattico che non si ripeteva da 26.000 anni. Ancora non è chiaro quanto durerà l’evento, né se è previsto un dress code, un abito particolare per l’occasione. Per prepararsi meglio conviene, comunque, prendere l’intera giornata di ferie, tanto poi non vi serviranno più. Anche sul programma dell’ End of the World Party ci sono voci discordanti: • chi parla di spettacolari tempeste solari; • chi di una fatale inversione dei poli magnetici (come accadde 780.000 anni fa) con interruzione per 72 ore della rotazione terrestre; • chi di un conflitto nucleare; • chi di un’epidemia d’influenza; • chi di eruzioni e terremoti; • chi di un “frontale” con un fantomatico decimo pianeta, Nirubu o Pianeta X; • chi del fatto che l’intero sistema solare sarà avvolto in una nube spaziale. E chi si aspetta tutte queste cose insieme. Se volete dare un contributo di idee o avete richieste specifiche lasciate un post sul forum di www.2012.org o aprite un blog (tipo www.solleviamoci.wordpress.com o www.profezie2012.myblog.it). Meglio fare le cose in grande, almeno una volta. Inoltre la prima (e unica?) fine del mondo nella storia dell’uomo deve essere strabiliante, sì, ma pure gratuita e uguale per tutti. Mica che poi qualcuno si lamenti di non aver visto bene. La colpa di questa crescente febbre millenarista è di una profezia maya riportata su un’iscrizione. Per il loro calendario (uno dei tre che i maya usavano) il 20 dicembre termina il tredicesimo ciclo del Lungo Computo. In un’ottica apocalittico-new age il passaggio implicherebbe un’evoluzione spirituale e un rinnovamento totale, ovvero la fine del mondo. La profezia troverebbe riscontri trasversali: in Nostradamus, nella Genesi e nell’antico Libro dei Mutamenti cinese. Mancano solo gli scienziati e gli esperti di culture mesoamericane, che si ostinano a ritenerla infondata. La NASA ha già messo le mani avanti definendo il 2012 l’anno delle bufale. Anche perché pare che i Maya abbiano sbagliato i calcoli: la fine del mondo, quella vera, arriverà solo nel 4946
Gli incredibili ingredienti della Red Bu(fa)ll
«Abbasso la Red Bull, c’è lo sperma di toro dentro», oppure «La taurina (nella Red Bull & Co.) non è sperma di toro?». A quale gruppi di Facebook volete iscrivervi? Ci sono entrambi. La leggenda circola per via orale e informatica da un decennio e ha preso il posto di quella, altrettanto popolare negli anni Ottanta, secondo cui le gomme da masticare Big Bubble, famose per i palloni giganteschi che permettono di fare, erano prodotte con grasso di topo. Nel caso, però, dell’energy drink della casa austriaca c’è un fondo di verità: la Red Bull contiene davvero la taurina e tale sostanza è stata trovata nella bile del toro. Bile, non “balle” (di toro). Tutto qui. Nelle FAQ sul sito ufficiale di Red Bull (www.redbull.it) si legge che la taurina presente nella bevanda è «una sostanza sintetica» interamente prodotta in laboratori farmaceutici e senza «componenti animali». Ma questa rassicurazione non basta. Ci sono altri ingredienti che hanno “messo le ali” alle leggende riguardo la presunta pericolosità della Red Bull. Il glacuronattolone, nome perfetto in un fumetto di fantascienza per una malattia contagiosa o per un’arma di distruzione. O, come dice il passaparola, per un allucinogeno inventato dalla CIA ai tempi della guerra del Vietnam. Invece dietro quel nome infelice c’è solo un innocuo carboidrato presente nel nostro corpo e in molti alimenti comuni, dal grano al vino. Anche sulla quantità di caffeina contenuta in una lattina si danno i numeri, attribuendo ai 25 cl di bevanda l’equivalente di 6, 9, 10 o perfino 12 caffè. Qui per sapere la verità viene in aiuto la matematica: dividete il numero che avete sentito dire per se stesso e ottenete la quantità esatta: un caffè. È vero, invece, che Dietrich Mateschitz, direttore marketing di una ditta tedesca di dentifrici, non ha fatto nulla per diventare il miliardario scopritore della bevanda se non sedersi a un bar al Mandarin Hotel di Hong Kong, sorseggiare un tonic drink, e decidere di commercializzarlo in Occidente. La Red Bull è la versione occidentale della Krating Daeng – il nome significa «toro rosso» e il logo sono due tori che combattono – una bevanda energetica thailandese, a base di lipovitano, bevuta da camionisti asiatici che viaggiano di notte per restare svegli
. Ciak si gira! La stronzata degli snuff movie
Quanto può essere lungo il quarto d’ora di celebrità di cui parlava Andy Warhol? Sempre troppo nel caso siate il/la protagonista di uno snuff movie. Qualora non abbiate mai sentito parlare di questo genere cinematografico: le cose fondamentali da sapere, prima di accettare la parte, sono quattro: • può – anzi, deve – essere molto, molto doloroso; • non c’è l’happy end (almeno non per voi); • e non avrete mai – sottolineato mai! – l’occasione di rivedervi; • sono illegali. Snuf , significa spegnersi lentamente, come le candele; movie vuol dire che vi truccano, battono il ciak e inizia la finzione cinematografica. Snuff movie vuol dire che la candela siete voi e che la finzione è realtà. Dolore, violenze, torture, sofferenze e morte: tutto davanti alla cinepresa e senza trucchi né effetti speciali. Tutto vero. Anzi, per fortuna, tutto falso, perché per quanto se ne parli e qualche critico li abbia pure cercati a lungo (la prima ricognizione fu Killing for culture nel 1994), film in cui un attore accetta di soffrire e morire per il semplice (e perverso) piacere di uno spettatore non esistono. È solo un ipotetico caso estremo di film-verità che sconfina nel mito cinematografico. Esiste, invece, e ha pure il suo pubblico il genere snuff, che oscilla tra l’horror-splatter e il pulp-porno. Come la scena finale di Snuf (1976), film che aprì il filone, o i corti giapponesi Guinea Pig. Il tema ricorre, inoltre, in numerosi film d’autore e di cassetta: Snuf killer. La morte in diretta, 8mm. Delitto a luci rosse di Joel Schumacher, Tesis di Alejandro Amenábar, risalendo fino a L’occhio che uccide di Michael Powell del 1960, snuff ante litteram. Parenti stretti degli snuff sono i Mondo Movie, film-collage dal taglio pseudo sociologico ed etnografico – il primo fu l’italiano Mondo Cane del 1962 – che documentano (con uso di effetti speciali) rituali tribali, costumi sociali, aggressioni e uccisioni di animali ed esecuzioni, con un montaggio di scene volutamente shock e di forte impatto. Con i nuovi canali del web la leggenda che esistano e circolino illegalmente veri snuff movie è tornata fuori. Il sito-osservatorio www.snuffmovies.it conferma che di filmati e video con una regia ad hoc, caratterizzati dai contenuti estremi non c’è prova («la maggior parte dei filmati che circolano su Internet è falsa»). Sono, invece, veri e diffusi (tra i giovani) filmati di happy slapping, la pratica giovanile di tirare schiaffi a sconosciuti facendosi riprendere dagli amici con il cellulare per poi scaricare il video on line. Non sono letali come uno snuf movie, ma sono modi idioti per dare alla malcapitata vittima quindici secondi di celebrità.
I falsi diari di Hitler e quelli veri di Mussolini
Caro diario… Ma, forse, è più corretto dire diario caro, o ancor meglio carissimo. Visto che è stato pagato, quasi vent’anni fa, dieci milioni di marchi. Ed è pure falso. L’autore presunto è Adolf Hitler, quello vero si chiama Konrad Kujau. I finti diari di Hitler sono il capolavoro di un pittore che viveva di espedienti. Kujau, che già da ragazzo spacciava per veri buoni-pasto taroccati, con il tempo si era specializzato nella falsificazione di cimeli nazisti e memorie del Terzo Reich. Fu autore di copie perfette di quadri del Führer. Ma il colpo da maestro furono i cinquantotto quaderni, che coprivano un arco di tempo dal 1932 al 1945, in cui Hitler riportava riflessioni, pensieri e notazioni personali. Ogni pagina siglata con le sue iniziali. Nell’aprile del 1983 il settimanale tedesco «Stern» annuncia con enfasi lo scoop: la pubblicazione dei diari segreti di Hitler di cui era entrato in possesso grazie al fiuto di un giornalista, Gerd Heidemann, che li aveva a sua volta avuti da un ufficiale della Germania Est (di cui per ragioni di sicurezza non poteva rivelare il nome). I taccuini, si disse, provenivano da alcuni bauli di documenti personali appartenenti a Hitler, recuperati dalla carcassa di un aeroplano precipitato nell’aprile 1945 a Börnersdorf, vicino a Dresda. Proprio questa circostanza, storicamente vera, fece propendere per l’autenticità dei documenti Hugh Trevor-Roper, esperto del Terzo Reich, autore de Gli ultimi giorni di Hitler e, all’epoca, pure direttore della casa editrice del «Times» (che si era assicurata l’esclusiva inglese dei diari). Invece dopo solo due settimane, nel maggio del 1983, lo scoop si dimostrò una clamorosa bufala: le analisi rivelarono che carta e inchiostro erano successivi al periodo in cui il Führer li avrebbe scritti e che i testi erano una miscellanea di brani tratti da discorsi pubblici pure con parecchie inesattezze. Kujau (che è scomparso nel 2000) e Heidemann furono condannati per frode, e lo scandalo fece saltare qualche testa a «Stern». Ex agenti di SS, CIA e KGB si accusarono reciprocamente di essere autori e/o mandanti dell’operazione. Risultato: l’ultimo volume dei diari di Hitler è stato acquistato da un anonimo a un’asta nel 2004 per “soli” 6500 euro. Che come cifra, per un falso certificato, non è, comunque, male. Non si sa, invece, quanto abbia sborsato Marcello Dell’Utri per portarsi a casa, nel 2007, i diari di Mussolini, cinque taccuini manoscritti che vanno dal 1935 al 1939. Pure questi falsi, a quanto pare. Che siano gli stessi diari del Duce che, nel 1980, il «Times» si rifiutò di comprare? Gli stessi che, dieci anni dopo, la casa d’aste Sotheby’s ha certificato come non autentici? Gli stessi che furono rifiutati, in quanto farlocchi, dall’editrice Feltrinelli e dall’«Espresso»? Dell’Utri, che nel frattempo si è assicurato anche l’agenda mussoliniana del 1942, dice soltanto di averli «trovati» dagli eredi di un partigiano che aveva preso parte alla cattura del Duce. Il senatore, neanche a dirlo, è convinto che siano autentici. La casa editrice Bompiani, che nell’autunno del 2010 ha pubblicato il primo diario, su questo “dettaglio” non si pronuncia. Nel frattempo di mezzo ci si è messo anche Rocco della Morte, figlio dell’ex console italiano a Berlino durante il Fascismo, Guglielmo, che è sicuro di essere in possesso dei veri diari di Mussolini. La borsa in cui sono custoditi è, però, chiusa in una cassa di zinco nella villa del padre in Valle Spluga. Guglielmo della Morte, sostiene il figlio, avrebbe ricevuto il “malloppo” direttamente dalle mani di Mussolini, nel 1945. Ma solo dietro la promessa di aspettare ottant’anni prima di aprirla. Scomparso nel 1961, l’ex diplomatico passò le consegne e pure la promessa al figlio che intende mantenerla. Fatti due conti occorre attendere il 2025 per saperne di più.
È vero che i cinesi non muoiono mai?
Nascono, crescono, studiano, lavorano, mettono su famiglia e alla fine muoiono. Come tutti. Sono i cinesi, in Italia. E, per dirla tutta, se capita loro di leggere Gomorra trovano il tempo di arrabbiarsi. Con Roberto Saviano. È il caso dei giovani di Associna (www.associna.com), che riunisce cinesi di seconda generazione: attraverso un comunicato hanno fatto sapere al diretto interessato, giornalista scrittore che da anni vive sotto scorta per le minacce ricevute dalla camorra, di essere stati «molto urtati» (forma garbata per rendere il grado massimo di incazzatura) dal primo capitolo del suo best seller. La “colpa” di Saviano è di aver avvalorato la leggenda dei cinesi che non muoiono: i corpi stipati in container – racconta – ritornano in patria, mentre i documenti d’identità con la complicità della criminalità organizzata cinese passano ad altri connazionali. La bugia dell’immortalità dei cinesi è nata a Parigi alla metà degli anni Ottanta. Nel saggio Asia a Parigi la sinologa Marie Holzman constatava il basso tasso di mortalità della popolazione proveniente dal Paese orientale e buttava lì, con ironia, l’ipotesi del copyright cinese sulla vita eterna (con annesso giro di falsi documenti). Stessi riscontri si sono avuti in Germania, Belgio e Olanda, e sono state tratte le stesse conclusioni – i cinesi non muoiono mai – ma con sempre meno ironia. Le voci degli Highlander dagli occhi a mandorla arrivano negli anni Novanta anche in Italia: a Torino, a Milano e a Roma le autorità fanno verifiche incrociando i dati anagrafici con registri dei decessi. Ciò che emerge è che l’Italia non è molto diversa dalla Francia e dalle altre nazioni che hanno accolto i cinesi. C’è una spiegazione: il tasso di mortalità è basso perché è bassa l’età media della popolazione immigrata. A Parigi, allora, il 71% aveva meno di 35 anni e il 3% arrivava ai 65. A Roma, nel 2005, gli over 55 erano appena il 6%. Confrontando l’evoluzione demografica, tra 1997 e 2001, delle comunità straniere residenti a Milano si scopre infatti che i cinesi muoiono tanto quanto i filippini e gli egiziani. Il dossier della Caritas riferito al 2009 dice che gli stranieri in Italia regolarmente sono il 7,2% della popolazione (circa cinque milioni; compresi i clandestini si sale al 10%); la metà arrivano dall’Est Europa (53,6%), il resto da Africa (22,4%), Asia (15,8%) e Sudamerica (8,1%). Il dato da tener presente è anche in questo caso l’età media degli immigrati: 33 anni. Anche i cinesi muoiono, quindi, ma che fine fanno i corpi? Vengono trasformati in involtini primavera o in sushi, ovviamente! Come scrive con una buona dose di autoironia www.cinaoggi.it. In realtà alcuni tornano, da vivi, in patria; altri, da morti, vengono cremati; altri ancora basta cercarli nei cimiteri. E c’è pure chi, come Wong Hung-Hing, ristoratore cinquantenne di cui scriveva qualche tempo fa «il Giornale», pensa in grande: un mausoleo al Cimitero Maggiore di Milano. La novità è che se oggi la cerimonia funebre viene filmata a beneficio dei parenti lontani, domani potrebbe andare sul web: il governo cinese sta, infatti, promuovendo i funerali on line (www.chinadaily.com.cn)
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