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Introduzione
Questo libro è una raccolta di eventi memorabili della mia esistenza. Li ho riuniti seguendo le indicazioni di don Juan Matus, uno sciamano indiano Yaqui originario del Messico, un maestro che per tredici anni ha cercato di rendermi accessibile l’universo conoscitivo degli sciamani che vivevano nell'antico Messico. Egli mi suggerì di procedere a tale raccolta come se si fosse trattato di un’idea del tutto casuale, qualcosa che gli era venuto in mente all’improvviso. Il suo stile di insegnamento era proprio questo: don Juan celava l’importanza delle sue manovre dietro un aspetto più terreno, e nascondeva l’importanza del suo obiettivo, presentandola come qualcosa di simile alle faccende della vita quotidiana.
Con il passare del tempo don Juan mi rivelò che gli sciamani dell'antico Messico avevano concepito questa raccolta di fatti memorabili come una sorta di accorgimento bona fide per scuotere le tracce di energia che esistono all’interno del sé. Essi ritenevano che tale energia avesse origine nel corpo e venisse poi spostata, allontanata e spinta fuori dal suo campo d’azione dalle circostanze della vita quotidiana. In questo senso, per don Juan e per gli sciamani del suo lignaggio, la raccolta di eventi memorabili era un mezzo per reimpiegare la loro energia inutilizzata.
Il requisito fondamentale per questa raccolta era il gesto sincero e totale di riunire l’insieme globale delle proprie emozioni e realizzazioni, senza risparmiarsi nulla. Secondo don Juan, gli sciamani del suo lignaggio erano convinti che tale raccolta fosse lo strumento della sistemazione emozionale ed energetica necessaria per avventurarsi nell’ignoto, avendo a disposizione la saggezza della percezione nell’ignoto.
Don Juan definiva l’obiettivo finale della conoscenza sciamanica che egli possedeva come la preparazione necessaria per affrontare il viaggio definitivo, quello cioè che ogni essere umano deve intraprendere al termine della propria esistenza. Mi spiegò che grazie alla loro disciplina e alla risolutezza che li animava, gli sciamani erano in grado di mantenere la loro consapevolezza e il loro scopo anche dopo la morte. Per tutti loro, quello stato vago e idealistico che l’uomo moderno definisce «vita dopo la morte» era una regione reale caratterizzata da affari pratici di tipo diverso da quelli della vita quotidiana ma dotati di una praticità funzionale simile. Don Juan era certo che raccogliere gli eventi memorabili dell’esistenza rappresentasse per gli sciamani la preparazione al loro ingresso in quella regione reale che essi chiamavano il lato attivo dell’infinito.
Un pomeriggio, don Juan e io stavamo parlando sotto la sua ramada, un riparo fatto di bastoni sottili e bambù, simile a un porticato in grado di proteggere almeno in parte dal sole ma del tutto inutile per la pioggia. Alcune casse piccole e resistenti servivano da panchine; i segni dei marchi a fuoco, ormai svaniti, sembravano semplici ornamenti più che segni di identificazione. Io ero seduto su una di quelle, con la schiena appoggiata al lato anteriore della casa; don Juan era su un’altra, appoggiato a uno dei pali che sostenevano la ramada. Essendo arrivato pochi minuti prima in auto, dopo aver guidato per l’intera giornata con il caldo e l'umidità, mi sentivo nervoso, irrequieto e madido di sudore.
Non appena mi sedetti comodamente sulla cassa, don Juan si mise a parlare e, con un ampio sorriso, commentò che di solito le persone sovrappeso non sanno come combattere il grasso. Il sorriso che gli aleggiava sulle labbra mi fece capire che non stava affatto scherzando: in una maniera diretta e al tempo stesso velata mi stava facendo notare che ero sovrappeso.
Ero così nervoso che scivolai dalla mia cassa e andai a sbattere contro il muro sottile della casa, scuotendola fin nelle fondamenta. Don Juan mi rivolse uno sguardo interrogativo e invece di chiedermi se stavo bene, mi tranquillizzò dicendo che non gli avevo rotto la casa dilungandosi a spiegarmi che quella era solo un rifugio temporaneo e che in realtà lui viveva da un’altra parte. Gli chiesi dove abitava e lui si limitò a fissarmi. Pur senza essere ostile, il suo sguardo voleva essere un fermo deterrente nei confronti delle domande improprie. Non capivo cosa volesse da me e stavo per ripetergli il mio quesito, ma lui mi bloccò.
«Da queste parti non si fanno domande del genere» dichiarò in tono deciso. «Puoi chiedere qualunque cosa in merito alle procedure e alle idee. Quando sarò pronto a dirti dove vivo, se mai lo sarò, te lo dirò senza che tu debba chiedermelo.»
Mi sentii respinto e avvampai, offeso. La risata di don Juan ingrandì all’infinito la mia sofferenza: oltre ad avermi rifiutato, mi aveva insultato e deriso.
«Per il momento abito qui perché questo è un centro magico» riprese, incurante del mio disappunto. «In realtà, ci abito per causa tua.»
Quella dichiarazione mi disarmò; non riuscivo a crederci. Pensai che il mio interlocutore volesse semplicemente placare la mia irritazione.
«Abiti davvero qui a causa mia?» Chiesi alla fine, incapace di trattenere la curiosità.
«Sì» mi rispose in tono pacato. «Devo educarti. Tu sei come me. Ti ripeterò quello che ti ho già detto: la ricerca di ogni nagual in ciascuna generazione di stregoni consiste nel trovare un uomo o una donna che, al pari di lui, mostri una doppia struttura energetica; io ho visto in te questa caratteristica, alla stazione degli autobus di Nogales. Quando vedo la tua energia, vedo due sfere di luminosità sovrapposte una sopra l’altra, e questo aspetto ci lega insieme. Io non posso respingerti così come tu non puoi allontanarmi.»
Le sue parole scatenarono in me una forte e strana agitazione: un attimo prima ero furioso, adesso volevo piangere.
Don Juan continuò, spiegando che aveva intenzione di iniziarmi a quella che gli stregoni chiamano la vita dei guerrieri, sostenuto dalla forza della zona in cui viveva, che era il fulcro di potenti emozioni e reazioni. Persone inclini alla guerra vi avevano vissuto per migliaia di anni, impregnando la terra del loro coinvolgimento nei confronti della guerra.
All’epoca viveva nello stato di Sonora, nel Messico del nord, circa centocinquanta chilometri più a sud della città di Guaymas. Andavo sempre a trovarlo nella speranza di proseguire il mio lavoro direttamente sul campo.
«Devo entrare in guerra?» gli chiesi, sinceramente preoccupato, quando mi annunciò che un giorno o l’altro avrei avuto bisogno del coinvolgimento nei confronti della guerra. Avevo già imparato a prendere sul serio qualunque cosa mi dicesse.
«Puoi scommetterei» mi rispose sorridendo. «Non appena avrai assorbito tutto ciò che c’è da assorbire in questa zona, io mi trasferirò.»
Non avevo alcun motivo per dubitare delle sue parole, ma al tempo stesso non riuscivo a immaginare che potesse andarsene da qualche altra parte. Egli era parte integrante di ogni cosa che lo circondava. La sua abitazione, tuttavia, sembrava un riparo temporaneo: era la tipica baracca degli agricoltori Yaqui, fatta di canniccio ricoperto di argilla e fango, con il tetto piatto rivestito di paglia. Una stanza serviva per mangiare e dormire, l’altra era una cucina priva di tetto.
«E molto difficile avere a che fare con le persone sovrappeso» esclamò a un tratto.
Sembrava una frase del tutto estranea al resto della conversazione, ma in realtà non lo era: don Juan era semplicemente tornato all’argomento di cui stava parlando prima che io lo interrompessi scivolando contro la parete della sua casa.
«Un attimo fa hai colpito la mai dimora come un proiettile da demolizione» osservò, scuotendo lentamente il capo. «Che impatto... degno di un grassone!»
Ebbi la spiacevole impressione che stesse parlando di me come se non si facesse più illusioni e mi affrettai ad assumere un atteggiamento difensivo. Lui ascoltò con una smorfia le mie affannate spiegazioni sul fatto che il mio .reso era del tutto normale per la mia struttura ossea.
«E vero» concesse in tono divertito. «Le tue ossa sono molto grandi, potresti andartene in giro con altri quindici chili addosso e nessuno ci farebbe caso. Io non me ne accorgerei.»
Dal suo sorriso beffardo si capiva che mi giudicava decisamente grasso. Mi chiese della mia salute in generale e io continuai a parlare, cercando disperatamente di evitare qualunque ulteriore commento sul mio peso. Fu lui a cambiare discorso.
«Che c’è di nuovo a proposito delle tue eccentricità e aberrazioni?» mi chiese con espressione impenetrabile.
Come un idiota gli risposi che stavano bene. «Eccentricità e aberrazioni» erano il modo in cui etichettava i miei interessi di collezionista. In quel periodo ero tornato a dedicarmi con zelo rinnovato a un’attività che avevo sempre apprezzato: collezionare tutto quello che si poteva collezionare. Raccoglievo quindi giornali, francobolli, dischi e oggetti della Seconda guerra mondiale, per esempio pugnali, elmetti, bandiere...
«L’unica cosa che posso dirti sulle mie aberrazioni è che sto cercando di vendere le mie collezioni» gli risposi con il tono di un martire costretto a compiere chissà quale gesto orrendo.
«Essere un collezionista non è una brutta idea» mi consolò, come se ci credesse davvero. «Il problema non è l’abitudine in sé, quanto gli oggetti stessi che raccogli: tu conservi robaccia da nulla, cose prive di valore che ti tengono prigioniero così come fa il tuo cane. Non puoi mollare tutto e andartene se devi prenderti cura di un animale o preoccuparti della sorte a cui vanno incontro le tue raccolte se tu non sei nei paraggi.»
«Credimi, don Juan, sto seriamente cercando degli acquirenti» cercai di difendermi.
«No, no, non devi pensare che ti sto accusando» ribattè lui. «A dire il vero, io apprezzo il tuo spirito da collezionista, è solo che non mi piacciono le tue collezioni, tutto qui. Mi piacerebbe far lavorare il tuo occhio da collezionista e vorrei proporti una raccolta valida.»
Don Juan fece una lunga pausa. Sembrava che stesse cercando le parole giuste, o forse era solo un’esitazione studiata, fatta proprio al momento giusto. Mi rivolse uno sguardo profondo e penetrante.
«Ogni guerriero ha il dovere di raccogliere un album speciale, un album che rivela la sua personalità e testimonia le circostanze della sua vita.»
«Per quale motivo la chiami collezione o album?» gli domandai incuriosito.
«Perché è entrambe le cose, ma soprattutto perché è un album di immagini messe insieme dai ricordi, ricavate cioè dal ricordo di avvenimenti memorabili.»
«Questi eventi memorabili lo sono per qualche ragione specifica?» gli domandai.
«Lo sono perché rivestono un significato particolare nell’esistenza di un individuo. Ti propongo di mettere insieme questo album inserendovi il resoconto completo dei vari avvenimenti che hanno avuto per te un profondo significato.»
«Ma tutti gli eventi lo hanno avuto!» dichiarai con foga, rendendomi conto da solo di quanto apparivo tronfio.
«Non proprio» mi corresse sorridendo, immensamente divertito dalle mie reazioni. «Non tutti i fatti della vita hanno avuto per te un significato profondo. Però ce ne sono alcuni che ritengo ti abbiano cambiato, illuminando il tuo sentiero: si tratta in genere di questioni impersonali e al tempo stesso estremamente personali.»
«Don Juan, non vorrei darti l’impressione che sto facendo il difficile, ma ti assicuro che tutto ciò che mi è accaduto risponde a tali requisiti» proseguii, consapevole di mentire.
Subito dopo aver fatto questa dichiarazione avrei voluto scusarmi, ma don Juan non mi prestò la minima attenzione: era come se non avessi aperto bocca.
«Non devi pensare a questo album in modo banale o come se fosse un futile rifacimento delle esperienze della tua vita» mi avvisò.
Inspirai a fondo, chiusi gli occhi e cercai di placare la mente. Stavo confabulando freneticamente con me stesso in merito al mio problema insolubile: ero certo che visitare don Juan non mi piacesse affatto. In sua presenza mi sentivo minacciato, perché era solito aggredirmi verbalmente e non mi permetteva di mostrare in alcun modo il mio valore. Detestavo perdere la faccia ogni volta che aprivo la bocca e non sopportavo di apparire uno stupido.
Dentro di me c’era però un’altra voce, che proveniva da un luogo più profondo e remoto, quasi impercettibile.
Nel bel mezzo del fuoco di fila del dialogo consapevole sentii me stesso dire che era ormai troppo tardi per fare marcia indietro. In realtà quella che percepivo non era la mia voce e non si trattava nemmeno dei miei pensieri: era una voce sconosciuta che mi avvisava di essermi ormai addentrato troppo a fondo nel mondo di don Juan e mi spiegava che avevo bisogno di lui più che dell’aria.
«Puoi dire quello che vuoi, ma se tu non fossi così centrato nell’ego, non saresti così distrutto» sembrava sussurrarmi.
«Questa è la voce dell’altra tua mente» dichiarò in quel preciso istante don Juan, come se mi avesse letto nel pensiero.
Sussultai e la mia paura era così intensa che mi ritrovai con gli occhi colmi di lacrime. Gli confessai la vera causa della mia confusione.
«Il tuo conflitto è del tutto naturale» mi rassicurò. «Credimi, io non lo esaspero affatto, non sono certo il tipo... Potrei raccontarti molte storie su quello che mi faceva sempre il mio maestro, il nagual Julian. Lo detestavo con tutte le mie forze. Sai, ero molto giovane, e vedevo che le donne lo adoravano, si donavano a lui con estrema facilità; io mi limitavo a salutarle e loro mi aggredivano, feroci come leonesse. Mi odiavano in maniera viscerale, così come adoravano lui. Come credi che mi sentissi?»
«In che modo sei riuscito a risolvere questo conflitto?» gli chiesi, con qualcosa di più di un semplice interesse.
«Non ho mai risolto un bel nulla. Questo conflitto, o in qualunque altro modo lo vuoi chiamare, era il risultato della battaglia fra le mie due menti. Ogni essere umano possiede due mentì: una è completamente nostra ed è simile a una voce debole che ci porta sempre ordine, direzione e uno scopo preciso; l’altra è invece una installazione estranea che ci porta conflitti, arroganza dubbi e disperazione».
La fissazione sulle mie concatenazioni mentali era così intensa che mi ero perso tutto quello che don Juan aveva detto: anche se ricordavo con estrema chiarezza ognuna delle sue parole, esse mi parevano prive di significato. Esprimendosi in tono pacato e fissandomi negli occhi, don Juan mi ripeté ciò che aveva appena detto, ma anche in questo caso non riuscii a capirlo, incapace di focalizzare la mia attenzione sulle sue parole.
«Per qualche strano motivo, non riesco a concentrarmi su quello che mi stai dicendo» gli confessai.
«Capisco perfettamente perché non ci riesci e un giorno lo capirai anche tu, nell’attimo stesso in cui risolverai il conflitto in merito al fatto che io ti piaccia o meno; quel giorno smetterai di essere l’io-io centro del mondo» mi disse, sorridendo beato.
«Nel frattempo, mettiamo da parte l’argomento delle nostre due menti e torniamo a parlare di come preparare il tuo album di eventi memorabili. Devi sapere che un album del genere è un esercizio di disciplina e imparzialità: consideralo un atto di guerra».
La sua affermazione, che il mio conflitto sul fatto che lui mi piacesse o meno, sarebbe scomparso non appena avessi abbandonato il mio egocentrismo, mi sembrò del tutto inaccettabile. Anzi, mi rese ancora più frustrato e colmo di rabbia. Non appena lo sentii parlare dell’album come atto di guerra, lo aggredii con tutto il veleno che avevo accumulato.
«È già difficile capire il concetto di una raccolta di fatti e, come se non bastasse, lo chiami album e dici che è un atto di guerra... per me è troppo! Le metafore eccessivamente oscure perdono il loro significato.»
«Che strano, per me è esattamente il contrario!» ribattè lui in tono pacato. «Ritengo molto significativo il fatto che un album sia un atto di guerra e vorrei che il mio non fosse nient’altro che un atto di guerra.»
Avrei voluto continuare a perorare la mia causa, spiegandogli che capivo quel concetto, ma ero contrario al modo strano in cui me lo stava descrivendo. All’epoca ritenevo di essere un difensore della chiarezza e del funzionalismo nell’uso del linguaggio.
Don Juan non fece alcun commento sul mio umore ostile e si limitò a scuotere il capo, come se fosse pienamente d’accordo con me. Dovevo essermi ritrovato privo di energia, o forse ne ricevetti una dose massiccia, perché all’improvviso, senza il minimo sforzo mi resi conto della futilità delle mie esternazioni e sprofondai nell’imbarazzo più totale.
«Per quale motivo mi comporto così!» domandai a don Juan in tono sincero. In quel momento ero a dir poco confuso e talmente sbalordito dalla mia scoperta che scoppiai in lacrime.
«Non preoccuparti per i dettagli più stupidi» si affrettò a rassicurarmi. «Ognuno di noi, maschio e femmina, è fatto così.»
«Vorresti dire che per natura siamo tutti meschini e contraddittori? »
«Al contrario: le nostre meschinità e le nostre contraddizioni sono il risultato di un conflitto trascendentale che affligge tutti noi, ma di cui solo gli sciamani sono dolorosamente e disperatamente consapevoli: si tratta del conflitto delle nostre due menti.»
Don Juan mi lanciò un’occhiata di sbieco con i suoi occhi simili al carbone più nero.
«Mi hai già parlato delle due menti, ma il mio cervello non riesce a registrare le tue parole. Perché»?
«Lo scoprirai al momento giusto» mi rispose. «Per ora è sufficiente che io ti ripeta ciò che ti ho già detto in merito alle due menti: una è la nostra vera mente, il prodotto delle nostre esperienze di vita, quella che parla di rado perché è stata sconfitta e relegata nell’oscurità. L’altra, quella che usiamo ogni giorno per qualunque attività quotidiana, è un'installazione estranea.»
«Il nocciolo della questione è che il concetto di mente come installazione estranea è così bizzarro che la mia stessa mente si rifiuta di prenderlo sul serio» gli confidai, certo di aver fatto una vera e propria scoperta.
Don Juan non fece commenti e riprese la sua spiegazione come se io non avessi nemmeno aperto bocca.
«Per risolvere il conflitto delle due menti occorre avere l’intenzione di farlo. Gli sciamani evocano l’intento pronunciando a voce alta e chiara la parola intento: è una forza che esiste nell’universo, e quando gli sciamani la evocano si presenta a loro e predispone il sentiero per la realizzazione. Questo significa che gli sciamani riescono sempre a fare quello che vogliono.»
«Vorresti dire che gli sciamani ottengono sempre quello che desiderano, anche se si tratta di qualcosa di meschino, triviale e arbitrario?» gli chiesi.
«Nient’affatto! L’intento può essere evocato per qualunque motivo, ma gli sciamani hanno imparato a loro spese che si presenta a loro solo per qualcosa che è astratto. È la loro valvola di sicurezza, senza la quale sarebbero insopportabili. Nel tuo caso, evocare l’intento per risolvere il conflitto delle tue due menti o sentire la voce della tua vera mente non è una questione meschina, triviale o arbitraria: al contrario, è astratta ed eterea, e riveste per te un’importanza fondamentale.»
Dopo una breve pausa, don Juan riprese a parlare dell’album.
«Essendo un atto di guerra, il mio album ha richiesto una selezione più che attenta. Adesso è una raccolta precisa dei momenti indimenticabili della mia esistenza e di tutto ciò che mi ha portato fino a essi. Al suo interno ho contratto tutti gli eventi che hanno avuto e avranno un significato per me. Ritengo che l’album di un guerriero sia qualcosa di più concreto, talmente mirato da essere distruttivo.»
Non avevo idea di cosa volesse don Juan, eppure lo capivo alla perfezione. Mi suggerì di sedermi da solo e di lasciar fluire liberamente i miei pensieri, i ricordi e le idee. Mi raccomandò di fare uno sforzo affinché la voce del profondo del mio essere si facesse sentire e mi dicesse cosa scegliere, poi mi ordinò di entrare in casa e stendermi sul letto di casse di legno e sacchi di juta, che fungevano da materasso. Il corpo mi doleva, e quel giaciglio si rivelò molto confortevole.
Seguii il suo suggerimento e cominciai a pensare al mio passato, cercando gli avvenimenti che avevano lasciato un segno. Mi resi subito conto che l’affermazione che tutti gli eventi della mia vita avevano avuto un profondo significato era un'assurdità. Mentre mi costringevo a ricordare, scoprii che non sapevo nemmeno da che parte cominciare. La mia mente filtrava un’infinità di pensieri e ricordi non legati fra loro. Non riuscivo a capire se avessero o meno un significato per me. In realtà avevo l’impressione che niente avesse il benché minimo significato; mi sembrava di aver vissuto come un cadavere dotato della capacità di camminare e parlare, senza provare mai nulla. Incapace di concentrarmi per cercare di raggiungere il mio obiettivo, dopo un vano tentativo rinunciai e mi addormentai.
«Ci sei riuscito?» mi chiese don Juan quando mi svegliai, ore dopo.
Invece di sentirmi bene dopo aver dormito e riposato, ero ancora di malumore e aggressivo.
«No, non ci sono riuscito» ringhiai.
«Hai sentito quella voce proveniente dal profondo del tuo essere?»
«Credo di sì» mentii.
«E che cosa ti ha detto?» mi domandò, ansioso.
«Non ricordo» borbottai.
«Sei tornato nella tua mente quotidiana», mi spiegò, battendomi con forza sulla schiena. «La tua mente quotidiana ha ripreso il sopravvento. Cerchiamo di rilassarla parlando della tua collezione di eventi memorabili: devo avvisarti che la scelta di quelli da inserire nel tuo album non è affatto facile. È per questo motivo che ho detto che si tratta di un atto di guerra: per sapere cosa scegliere devi riesaminare te stesso da cima a fondo per una decina di volte.»
Solo allora, per un breve istante, riuscii a capire che possedevo due menti, ma era un pensiero così vago che lo persi subito. Mi rimase soltanto la sensazione di non essere in grado di soddisfare la richiesta di don Juan.
Invece di accettare con grazia la mia incapacità, le permisi di trasformarsi in una vera e propria minaccia. In quel periodo la mia vita sembrava dominata dal bisogno di mettermi in buona luce ed essere incompetente equivaleva a essere un perdente, cosa per me intollerabile. Dato che non sapevo come rispondere alla sfida lanciata da don Juan feci l’unica cosa che sapevo fare: mi arrabbiai.
«Devo ancora pensarci sopra, devo concedere alla mia mente tutto il tempo necessario per adattarsi all’idea.»
«Certo, certo» si affrettò ad assicurarmi. «Prenditi tutto il tempo necessario, ma fa’ presto.»
In quell’occasione non aggiungemmo altro. Giunto a casa, me ne dimenticai completamente finché un giorno, nel bel mezzo di una conferenza a cui stavo assistendo, l’ordine imperioso di cercare gli eventi memorabili della mia esistenza mi colpì come una scossa, uno spasmo fisico che agitò il mio corpo dalla testa ai piedi.
Mi misi al lavoro con impegno. Mi ci vollero mesi per rivedere le esperienze che ritenevo avessero un notevole significato per me. Esaminando la mia collezione mi resi conto di occuparmi solo delle idee che non avevano alcuna sostanza. I fatti che ricordavo erano solo vaghi punti di riferimento che tornavano alla memoria in maniera astratta. Venni assalito dal terribile sospetto di essere stato allevato in modo da agire senza provare mai nulla.
Uno degli eventi più vaghi che volevo rendere memorabile a tutti i costi era il giorno in cui avevo saputo di essere stato ammesso ai corsi universitari dell’UCLA. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a rammentare cosa avessi fatto in quella giornata, che non era stata speciale e nemmeno interessante. Tuttavia avevo la convinzione che doveva per forza essere stata particolare. Iniziare l’università avrebbe dovuto rendermi felice e orgoglioso di me stesso, ma non fu così.
Un altro esempio della mia raccolta era il giorno in cui per poco non sposai Kay Condor. In realtà quello non era il suo vero nome, lo aveva cambiato perché voleva fare l’attrice. Il suo passaporto per il successo era dato dalla somiglianza con Carole Lombard. Quella giornata mi sembrò memorabile non a causa degli avvenimenti che si verificarono, ma perché lei era bellissima e voleva sposarmi. Il fatto che fosse più alta di me la rendeva ancora più interessante ai miei occhi.
Ero emozionato all’idea di sposare una donna così alta, con una cerimonia in chiesa. Presi a nolo uno smoking grigio con pantaloni piuttosto larghi: non erano scampanati ma semplicemente larghi e il loro aspetto mi dava molto fastidio. Un’altra cosa che mi disturbava immensamente era la lunghezza eccessiva (almeno tre centimetri di troppo) della maniche della camicia rosa che avevo acquistato per l’occasione. Dovetti usare un paio di elastici per tenerle su. A parte questi dettagli, tutto il resto fu perfetto fino al momento in cui gli ospiti e io scoprimmo che Kay Condor si era presa paura e non si sarebbe fatta vedere.
Essendo una signora civile ed educata, mi mandò un biglietto di scuse tramite un corriere in motocicletta: mi scrisse che non credeva nel divorzio e non poteva legarsi per la tutta la vita a qualcuno che non condivideva la sua visione del mondo. Mi ricordò che ogni volta che pronunciavo la parola «Condor» facevo una smorfia, mostrando così una totale mancanza di rispetto nei suoi confronti e mi informò di aver discusso la faccenda con sua madre. Entrambe mi volevano molto bene, ma non al punto da permettermi di entrare a far parte della loro famiglia. Con saggezza e coraggio concluse che entrambi dovevamo rinunciare in tempo a un cattivo affare.
Ero rimasto completamente stordito. Quando cercavo di riportare alla memoria quella giornata, non riuscivo a ricordare se mi ero sentito terribilmente umiliato per essere rimasto solo davanti a una folla di gente, con il mio smoking grigio con pantaloni enormi preso a nolo, o se invece ero annientato dal fatto che Kay Condor non mi aveva più voluto sposare.
Quei due eventi erano gli unici che riuscivo a isolare con una certa chiarezza. Erano esempi ben miseri, ma, dopo averli riesaminati, riuscii a riformularli come racconti di accettazione filosofica. Consideravo me stesso come una persona che attraversa l’esistenza senza provare veri sentimenti, animato solo da una visione intellettuale delle cose. Prendendo a modello le metafore di don Juan, me ne costruii persino una del tutto personale: ero un essere che conduceva la sua esistenza in maniera precaria rispetto a ciò che avrebbe dovuto essere.
Ero convinto, per esempio, che il giorno in cui mi avevano preso all’UCLA avrebbe dovuto rappresentare una giornata memorabile, e dato che non lo era stata, facevo del mio meglio per attribuirle un senso di importanza che ero ben lungi dal sentire. Una cosa simile accadde il giorno in cui avrei dovuto sposare Kay Condor. Quella che in teoria avrebbe dovuto essere un’esperienza devastante, non lo era stata per nulla.
Quando la richiamai alla mente, mi resi conto che non c’era nulla e cominciai a lavorare con grande impegno per creare ciò che avrei dovuto sentire a livello emotivo.
Non appena arrivai a casa di don Juan, gli presentai i miei due esempi di fatti memorabili.
«Queste sono solo sciocchezze» ribatté. «Non vanno affatto bene, sono storie che si riferiscono solo ed esclusivamente a te come a una persona che pensa, prova emozioni, piange o non sente un bel nulla. Gli eventi memorabili dell’album di uno sciamano sono faccende in grado di sostenere la prova del tempo, perché anche se non hanno nulla a che fare con lui al tempo stesso lo coinvolgono per tutta la sua vita, e forse anche oltre, ma non a livello personale.»
Le sue parole mi lasciarono distrutto e sconfitto. All’epoca credevo davvero che don Juan fosse un vecchio intransigente che si divertiva in modo particolare a farmi sentire stupido. Mi ricordava un artigiano che avevo conosciuto nella fonderia di uno scultore dove lavoravo quando frequentavo la scuola d’arte. Quell’artigiano era solito criticare e trovare difetti in tutto ciò che i suoi apprendisti più esperti facevano, esigendo che correggessero il loro lavoro in base alle sue indicazioni. Gli apprendisti non facevano altro che girarsi e fingere di apporre le modifiche richieste. Ricordo ancora con quanta gioia dichiarava, vedendosi presentare lo stesso identico lavoro: «Adesso ci siamo!».
«Non prendertela» mi consolò don Juan, strappandomi ai miei ricordi. «Ai miei tempi mi trovavo nelle tue stesse condizioni. Per anni non seppi cosa scegliere, convinto di non possedere esperienze tra cui compiere la mia selezione; mi sembrava che non mi fosse mai capitato nulla. Naturalmente, mi era successo tutto, ma nello sforzo di difendere l’idea che avevo di me stesso, non avevo né il tempo né la disposizione giusta per diventare consapevole di qualcos’altro.»
«Potresti dirmi con precisione che cos’hanno di sbagliato le mie storie? So benissimo che sono banali, ma il resto della mia vita è uguale.»
«Ti ripeto che le storie dell’album di un guerriero non sono personali, la storia del giorno in cui ti hanno accettato all’UCLA non è altro che la tua affermazione che tu sei al centro di ogni cosa. 'Tu senti, tu non senti, ti rendi conto, non ti rendi conto... Capisci cosa voglio dire? Tutta la storia sei solo tu!»
«Ma come potrebbe essere altrimenti?»
«Nell’altra storia hai quasi sfiorato ciò che intendo, ma l’hai trasformato ancora in qualcosa di estremamente personale. So benissimo che sei in grado di aggiungere altri dettagli, ma sarebbero solo un’estensione della tua persona, nient’altro.»
«Se devo essere sincero, non riesco proprio a capirti» obiettai. «Ogni storia vista attraverso gli occhi di un testimone dev’essere per forza personale.»
«Sì, certo» ammise sorridendo, deliziato come sempre dalla mia confusione. «In questo caso però non sono adatte all'album di un guerriero, pur essendo indicate per altri scopi. Gli eventi memorabili che stiamo cercando di rintracciare hanno il tocco oscuro dell’impersonale che li permea. Non saprei in che altro modo spiegartelo.»
Convinto di aver avuto un attimo di ispirazione, credetti di aver capito cosa intendeva per «tocco oscuro dell’impersonale»: doveva trattarsi di qualcosa di morboso. Per me era quello il significato dell’oscurità e gli raccontai quindi una storia che risaliva alla mia infanzia.
Uno dei miei cugini più grandi, studente di medicina, lavorava come interno e un giorno mi portò a visitare l’obitorio. Mi assicurò che un giovane come me aveva il dovere di vedere i morti, perché era uno spettacolo educativo che dimostrava la transitorietà della vita. Insistette a lungo per convincermi: più mi ripeteva quanto siamo insignificanti da morti, più mi incuriosivo. Non avevo mai visto un cadavere e la curiosità ebbe il sopravvento, al punto che cedetti e andai con lui.
Mi mostrò vari cadaveri, riuscendo a terrorizzarmi. Non trovai nulla di educativo o illuminante in quei corpi, che erano la cosa più spaventosa che avessi mai visto. Mentre parlava con me, mio cugino continuava a sbirciare l’orologio, come se stesse aspettando qualcuno che doveva arrivare da un momento all’altro. Era chiaro che voleva trattenermi in quel luogo più a lungo di quanto mi avrebbero permesso le mie forze. Dato che avevo molto spirito di competizione, ero convinto che stesse mettendo alla prova la mia resistenza, la mia virilità. Strinsi i denti e decisi di tener duro fino alla fine.
La fine arrivò in una maniera che non mi sarei mai sognato: un cadavere ricoperto da un lenzuolo si alzò con un rantolo dal tavolo di marmo su cui era steso come tutti gli altri, quasi volesse mettersi a sedere. Il verso che gli sfuggì era così orrendo che mi rimase impresso come un marchio infuocato e resterà per sempre nella mia memoria. Mio cugino, medico e scienziato, mi spiegò che era il cadavere di un uomo morto di tubercolosi: i bacilli gli avevano divorato i polmoni, lasciando enormi buchi colmi d’aria. Quando la temperatura dell’aria cambiava, il corpo veniva in pratica costretto a sollevarsi o veniva preso dalle convulsioni.
«Non ci siamo ancora» obiettò don Juan, scuotendo il capo. «È solo una storia sulla tua paura. Io stesso sarei stato terrorizzato. Uno spavento del genere non è però in grado di illuminare il sentiero di nessuno. Sono curioso di sapere che cosa ti è successo.»
«Mi misi a strillare come una banshee. Mio cugino mi accusò di essere un codardo e un vigliacco perché nascosi il viso sul suo petto e gli vomitai addosso.»
Stavo decisamente seguendo il filo conduttore della morbosità nell’ambito della mia esistenza. Saltai fuori con un altro racconto riguardante un ragazzo di sedici anni che avevo conosciuto alle superiori. Afflitto da un grave scompenso ghiandolare, aveva raggiunto un’ altezza da gigante, ma il suo cuore non si era sviluppato alla stessa velocità del resto del corpo, e un giorno morì d’infarto. Spinto da una curiosità morbosa, ero andato a vederlo all’obitorio insieme a un altro amico. L’impresario di pompe funebri, che con ogni probabilità era ancora più morboso di noi due, ci fece entrare dalla porta sul retro e ci mostrò il suo capolavoro: era riuscito a far stare quel gigante alto più di due metri e venti in una bara normale segandogli via le gambe e sistemandole poi come se il morto le stesse impugnando, simili a un paio di trofei.
Il terrore che mi aveva assalito era stato simile a quello provato da bambino all’obitorio. Non si trattava però di una reazione fisica quanto di un impeto di ripugnanza fisiologica.
«Ci sei quasi arrivato, ma è una storia ancora troppo personale. È disgustosa e mi fa venir voglia di vomitare, ma racchiude in sé un grande potenziale» sentenziò don Juan.
Ridemmo insieme dell’orrore che si nasconde nelle situazioni della vita quotidiana. Nel frattempo mi ero completamente perso nei meandri della morbosità e gli raccontai le vicende del mio carissimo amico Roy Gold-piss (letteralmente: Roy Piscia d’oro. N.d.T.). In realtà il suo vero cognome era di origine polacca, ma gli amici gli avevano attribuito quel soprannome perché era un grande uomo d’affari e trasformava in oro tutto ciò che toccava.
Il suo talento commerciale lo rendeva estremamente ambizioso, al punto che voleva essere l’uomo più ricco del mondo. Si rese però conto che la competizione era troppo dura. A sentire lui, lavorando da solo non poteva competere, per esempio, con il capo di una setta islamica che in quel periodo veniva retribuito ogni anno con una quantità d’oro pari al suo peso. E ogni volta che doveva essere pesato, quel tizio cercava di ingrassare il più possibile.
Il mio amico Roy abbassò poi le sue pretese, accontentandosi di diventare l’uomo più ricco degli Stati Uniti, ma anche in quel caso la competizione era feroce. Scese ancora: forse avrebbe potuto raggiungere tale primato nell’ambito della California, ma era troppo tardi anche per quel risultato. Smise quindi di illudersi che la sua catena di pizzerie e gelaterie potesse consentirgli di innalzarsi fino a competere con le antiche famiglie che dominavano la California e si accontentò dell’eventuale supremazia a Woodland Hills, il sobborgo di Los Angeles in cui viveva. Per sua sfortuna, in fondo alla strada viveva un certo signor Marsh, proprietario delle fabbriche che producevano materassi di prima qualità in tutta l'America e ricco oltre ogni possibile immaginazione. La frustrazione di Roy non conobbe limiti e la sua brama di successo divenne così potente da provocargli gravi danni alla salute, finché un giorno morì per un aneurisma al cervello.
La sua morte fu la causa della mia terza visita a un obitorio. Essendo il suo migliore amico la moglie mi aveva pregato di accertarmi che il cadavere fosse vestito in maniera dignitosa. Mi recai quindi presso l’agenzia di pompe funebri e un assistente mi guidò alle stanze interne. Proprio mentre arrivavo, l’impresario stava sollevando gli angoli della bocca del cadavere, steso su un alto tavolo di marmo e già in preda al rigor mortis, usando l’indice e il mignolo della mano destra, tenendo il medio piegato contro il palmo. Un sorriso grottesco apparve sul volto di Roy. L'impresario si girò verso di me dicendo in tono senile: «Spero che sia soddisfatto, signore».
Sua moglie (non potrò mai sapere se lo aveva amato o meno) decise di farlo seppellire con tutto lo sfarzo che secondo lei meritava. Gli aveva comperato una bara molto costosa, fatta appositamente per lui, a forma di cabina telefonica. L'idea le era venuta vedendo un film. Roy sarebbe stato seppellito seduto, come se stesse facendo una telefonata di lavoro.
Non mi fermai per la cerimonia e mi allontanai in preda a una violenta reazione, un misto di rabbia e impotenza, il tipo di ira che non permette di prendersela con qualcun altro.
«Oggi sei decisamente morboso» commentò ridendo don Juan. «Nonostante ciò, o forse proprio per questo motivo, ci sei quasi arrivato.»
Non mancavo mai di stupirmi per il modo in cui il mio umore cambiava ogni volta che andavo a trovare don Juan. Arrivavo sempre immusonito, intraversato, assillato dai dubbi e dalla mia stessa arroganza. Ma dopo poco tempo il mio umore cambiava misteriosamente e io diventavo pian piano sempre più cordiale, fino a calmarmi del tutto. Tuttavia, il mio nuovo umore si esprimeva col vecchio vocabolario. D mio solito modo di parlare era quello tipico di una persona totalmente insoddisfatta che si trattiene dal lamentarsi ad alta voce, ma le cui infinite proteste sono implicite in ogni attimo della conversazione.
«Don Juan, puoi citarmi un evento memorabile del tuo album?» gli chiesi con il mio solito tono lamentoso. «Se io sapessi quello che cerchi, potrei magari trovare qualcosa. Per il momento brancolo nell’oscurità.»
«Non concedere troppe spiegazioni» mi rimbeccò lui con sguardo severo. «Gli sciamani dicono che ogni spiegazione nasconde una richiesta di scuse. Questo significa che quando spieghi per quale motivo puoi o non puoi fare una determinata cosa, in realtà ti stai scusando per le tue mancanze, nella speranza che chiunque ti stia ascoltando abbia la gentilezza di comprenderle.»
Quando mi sentivo preso di mira, la mia mossa più efficace era sempre stata quella di non prestare ascolto ai miei aggressori. Don Juan aveva però l'orribile capacità di catturare completamente la mia attenzione. In qualunque modo mi attaccasse e qualunque cosa mi dicesse, riusciva sempre a farmi pendere dalla sue labbra. Proprio in quell’occasione, ciò che stava dicendo non mi andava affatto a genio perché era la pura verità.
Distolsi lo sguardo. Mi sentivo come al solito sconfitto, ma quella volta si trattava di una sconfitta speciale, che non mi infastidiva come se fosse avvenuta nel mondo della vita quotidiana o subito dopo il mio arrivo a casa sua.
Dopo un lungo silenzio, don Juan riprese a parlare.
«Fàrò qualcosa di meglio che limitarmi a citarti un evento memorabile del mio album: te ne voglio dire uno della tua vita, che dovrebbe senz’altro far parte della tua collezione. Anzi, diciamo che se fossi al tuo posto sicuramente lo metterei nella mia raccolta di fatti memorabili.»
Pensai che stesse scherzando e mi lasciai sfuggire una risatina sciocca.
«Non c’è niente da ridere» tagliò corto lui. «Sto parlando sul serio. Una volta mi hai raccontato una storia che faceva proprio al caso nostro.»
«E quale sarebbe, don Juan?»
«Quella delle “figure davanti allo specchio”» mi rispose. «Raccontala di nuovo, ma con tutti i dettagli che riesci a ricordare.»
Cominciai a fargli un rapido resoconto di quell’evento, ma lui mi interruppe e pretese una narrazione attenta e dettagliata, che partisse dal principio. Provai di nuovo ma don Juan si mostrò ancora insoddisfatto.
«Andiamo a fare una passeggiata» mi rispose. «Quando cammini sei sempre più preciso di quando stai seduto. L'idea di metterti a camminare avanti e indietro quando cerchi di raccontare qualcosa non è affatto una sciocchezza.»
Eravamo seduti sotto la ramada come facevamo solitamente quando ci incontravamo di giorno. Avevo preso l’abitudine di sedermi sempre allo stesso posto, con la schiena appoggiata alla parete. Don Juan si accomodava in un punto qualunque, ma ogni volta diverso.
Andammo a fare una passeggiata a mezzogiorno, il momento meno indicato della giornata. Mi diede un vecchio cappello di paglia, come era solito fare ogni volta che uscivamo ad affrontare il calore del sole. Camminammo a lungo, avvolti dal silenzio più assoluto. Feci del mio meglio per ricordare tutti i particolari. A metà pomeriggio ci sedemmo all’ombra di alcuni cespugli e gli raccontai di nuovo la storia.
Anni prima, quando ero studente di scultura in una scuola d’arte italiana, avevo per amico uno scozzese che studiava storia dell’arte per diventare un critico della sua persona. Quello che di lui mi era rimasto maggiormente impresso e che era anche legato alle vicende che stavo per narrare, era l'opinione roboante che aveva di se stesso. Era convinto di essere lo studioso e l’artista più dissoluto, licenzioso e versatile, un vero uomo del Rinascimento; era davvero licenzioso, ma tale caratteristica era in piena contraddizione con il suo aspetto secco, ossuto e serioso. Discepolo immaginario del filosofo inglese Bertrand Russell, sognava di applicare i principi del positivismo logico alla critica dell’arte. Essere uno studioso e artista a tutto tondo era il suo sogno più grande, perché in realtà aveva la tendenza a rimandare tutto e il lavoro era la sua nemesi.
La sua ambigua specialità non era la critica d’arte, ma la conoscenza personale di tutte le prostitute dei bordelli locali, che erano numerosi. I racconti vivaci e dettagliati che era solito propinarmi (e che, a sentire lui, servivano a tenermi aggiornato sulle cose meravigliose che faceva nell’ambito di questa sua specializzazione) erano deliziosi.
Non rimasi quindi stupito quando un giorno arrivò eccitato e senza fiato nel mio appartamento e mi confidò che gli era successo un fatto straordinario che voleva condividere con me.
«Vecchio mio, ti assicuro che devi vedere con i tuoi stessi occhi» esclamò in preda all’agitazione, sfoggiando l’accento di Oxford, che ostentava tutte le volte che parlava con me, e camminando nervosamente avanti e indietro. «È difficile da descrivere, ma sono certo che si tratta di qualcosa che saprai apprezzare, il cui ricordo ti rimarrà impresso per il resto dei tuoi giorni. Sto per farti un regalo splendido che durerà per tutta la vita. Lo capisci?»
Capivo solo che era uno scozzese isterico. Mi divertivo sempre ad assecondarlo e dargli corda. In seguito non me ne sarei mai pentito.
«Calmati, Eddie, calmati» dissi. «Che cosa stai cercando di dirmi?»
Mi raccontò di essere stato in un bordello dove aveva scovato una donna incredibile che seguiva un numero altrettanto incredibile chiamato “figure davanti a uno specchio”. Mi ripetè più volte, balbettando per l’emozione, che non potevo fare a meno di assistere personalmente a quello spettacolo eccezionale.
«Non preoccuparti per il denaro» aggiunse, sapendo che non ne avevo. «Ho già pagato, tu non devi fare altro che venire con me. Madame Ludmilla ti mostrerà le sue “figure davanti a uno specchio”. È fantastica!»
Colto da un irrefrenabile attacco di ilarità, scoppiò fragorosamente a ridere, incurante della sua pessima dentatura, che di solito nascondeva dietro un sorriso appena accennato. «Ti assicuro che è incredibile!»
Sempre più incuriosito, mi decisi a partecipare a quel suo nuovo divertimento. Eddie mi accompagnò in auto alla periferia della città. Ci fermammo davanti a un palazzo polveroso e malridotto, con la vernice che si scrostava dalle pareti. Un tempo doveva essere stato un albergo, trasformato poi in appartamenti. Riuscii a scorgere ciò che restava dell'insegna, che sembrava essere stata fatta a brandelli. Sulla facciata dell’edificio c’erano file di sporchi balconcini pieni di vasi o di tappeti stesi al sole.
All’entrata c’erano due uomini scuri dall’aria sospetta con le scarpe nere a punta troppo strette per i loro piedi, che accolsero Eddie con grande entusiasmo. I loro occhi erano neri, scaltri e minacciosi. Entrambi indossavano un abito di colore azzurro brillante, anche questo troppo stretto per il loro fisico robusto. Senza degnarmi di uno sguardo, uno dei due aprì la porta a Eddie.
Salimmo due rampe su uno scalone malconcio che un tempo doveva essere stato lussuoso. Facendomi strada Eddie percorse fino in fondo un corridoio, che aveva le porte su entrambi i lati, come in un albergo. Erano tutte di un colore verde oliva piuttosto cupo e su ognuna c’era un numero in ottone, appannato dagli anni e a malapena visibile sul legno dipinto.
Eddie si fermò davanti a una porta su cui c’era il numero 112. Bussò più volte. La porta si aprì e una donna piccola e tonda dai capelli biondi tinti ci fece cenno di entrare, senza dire una sola parola. Aveva addosso una vestaglia di seta rossa con le maniche vaporose e un paio di ciabattine rosse ornate di palline di pelo. Dopo averci fatti entrare in un atrio minuscolo, richiuse e si rivolse a Eddie in un inglese dal pesante accento.
«Salve, Eddie. Hai portato un amico?»
Le prese una mano e gliela baciò con estrema galanteria. Si comportava come se fosse del tutto calmo, ma mi accorsi da certi suoi gesti inconsapevoli, che non era per niente a suo agio.
«Come sta oggi, Madame Ludmilla?» le chiese, cercando inutilmente di parlare come un americano.
Non ho mai capito per quale motivo Eddie volesse spacciarsi per americano tutte le volte che si ritrovava a combinare qualche affare in quei bordelli. Immaginai che si comportasse così perché gli americani avevano fama di essere ricchi e ci teneva a presentarsi come un uomo di grandi mezzi.
«Ti lascio in buone mani, ragazzo mio» si congedò, sempre con il suo accento fasullo.
Mi sembrava così strano e orribile che scoppiai a ridere. Madame Ludmilla non si mostrò per niente impressionata dalla mia esplosione di allegria. Eddie le baciò di nuovo la mano e se ne andò.
«Tu parli inglese, ragazzo mio?» mi urlò, come se fossi sordo. «Sembri egiziano o turco.»
Le assicurai che non ero né l’uno né l’altro e che parlavo inglese. A quel punto mi chiese se mi piacevano le sue figure davanti allo specchio. Non sapendo cosa dire, mi limitai a scuotere il capo in segno affermativo.
«Ti offrirò un ottimo spettacolo» mi assicurò. «Le figure davanti allo specchio sono solo i preliminari, non appena ti senti caldo e pronto dimmi pure di fermarmi.»
Entrammo in una stanza scura e lugubre, con le finestre coperte da tende pesanti. Le lampadine a basso voltaggio delle applique fissate alle pareti erano a forma di tubi e sporgevano ad angolo retto. La stanza era piena di oggetti: cassettiere di dimensioni ridotte, sedie e tavoli antichi, una scrivania appoggiata al muro e ricoperta di carte, righelli e almeno una decina di forbici. Madame Ludmilla mi fece sedere su una vecchia poltrona imbottita.
«Il letto è nell’altra stanza, tesoro» mi informò, indicandomi l’altro lato della stanza.
«Questa è la mia anticamera, dove ti mostrerò lo spettacolo che ti farà diventare caldo e pronto.»
Lasciò poi cadere la vestaglia rossa, fece volare via le ciabatte e spalancò le ante doppie dei due armadi, che stavano uno di fianco all’altro. All’interno c’erano due specchi in grado di riflettere tutta la sua persona.
«Musica, ragazzo mio» esclamò, dando la carica a un Victrola che sembrava nuovo di zecca, addirittura scintillante. Mise su un disco dal motivo ossessionante che ricordava la marcetta di un circo.
«E adesso, il mio spettacolo!» esclamò, piroettando seguendo la melodia. Aveva la pelle del corpo tesa e incredibilmente bianca, sebbene non fosse più giovane: anche se ben conservata, doveva aver quasi raggiunto la cinquantina. Il suo ventre era leggermente cascante, al pari del seno voluminoso. Anche la pelle del viso ricadeva, allentando in maniera vistosa la linea della mascella. Aveva il naso piccolo e le labbra truccate pesantemente di rosso. Gli occhi erano segnati da un mascara nero e spesso. Mi fece venire in mente il prototipo della prostituta invecchiata, anche se, al tempo stesso, c’era in lei qualcosa di infantile, una fiducia e un abbandono fanciulleschi uniti a una dolcezza che mi turbarono.
«Ora, “figure davanti allo specchio”!» annunciò la donna mentre la musica continuava.
«Gamba, gamba, gamba» gridò, lanciando in alto prima una gamba poi l’altra, seguendo il ritmo della musica. Teneva la mano destra sopra alla testa, come una bambina che non è sicura di saper eseguire i movimenti giusti.
«Giro, giro, giro» continuò, vorticando come una trottola.
«Sedere, sedere, sedere» aggiunse, mostrandomi il posteriore nudo come se fosse stata una ballerina di can can.
Ripetè più volte l’intera sequenza, finché la musica cominciò a svanire e la carica del Vìctrola si esaurì. Ebbi la sensazione che Madame Ludmilla stesse roteando e svanendo in lontananza, diventando sempre più piccola. Dal profondo del mio essere affiorarono una disperazione e una solitudine che non sapevo nemmeno potessero esistere e che mi spinsero ad alzarmi e uscire di corsa dalla stanza, precipitandomi giù per le scale come un matto, fuori dall’edificio e giù in strada.
Eddie era fermo davanti all’entrata e stava chiacchierando coi due uomini vestiti di azzurro. Vedendomi correre in quel modo scoppiò in una risata fragorosa.
«Non è stato incredibile?» mi chiese, ostentando ancora l’accento americano. «Le “figure davanti allo specchio” sono solo i preliminari... Che spettacolo! Che spettacolo!»
La prima volta che avevo raccontato quell'episodio a don Juan gli avevo confidato di essere stato profondamente toccato dalla melodia ossessionante della musica e dall’anziana prostituta che roteava maldestra seguendo il ritmo. Anche l’essermi reso conto di quanto fosse insensibile il mio amico, mi aveva colpito.
Quando finii di raccontare la storia a don Juan, eravamo seduti tra le colline antistanti una catena di montagne nei pressi di Sonora e mi misi a tremare, misteriosamente scosso da qualcosa di indefinito. «Questo racconto dovrebbe essere incluso nel tuo album di eventi memorabili» mi disse. «Senza rendersi conto di quello che stava facendo, il tuo amico ti ha fatto un regalo che ti durerà per tutta la vita, proprio come aveva detto lui stesso.»
«A me sembra soltanto una storia triste, nient’altro» proclamai.
«E lo è davvero, come tutte le tue storie, ma ciò che la rende a mio giudizio diversa e memorabile è il fatto che riguarda ogni essere umano e non solo te, come accadeva invece con gli altri tuoi racconti. Vedi, come Madame Ludmilla tutti noi, vecchi e giovani, in un modo o nell’altro eseguiamo figure davanti a uno specchio. Esamina con cura quello che sai sul conto della gente. Prova a pensare a ogni singolo essere umano che esiste sulla faccia della terra e, senza ombra di dubbio, scoprirai che chiunque sia, qualunque cosa pensi di se stesso o possa mai fare, il risultato delle sue azioni è sempre lo stesso: figure insensate davanti a uno specchio.»
UN TREMORE NELL'ARIA
Un viaggio di potere
Quando incontrai don Juan ero uno studente di antropologia abbastanza dedito ai miei studi e volevo iniziare la mia carriera di antropologo professionista pubblicando la maggior quantità possibile di materiale. Ero deciso a scalare il mondo accademico e, secondo i miei calcoli, il primo passo avrebbe dovuto essere la raccolta di informazioni sull’uso delle piante medicinali da parte degli indiani della regione sud-occidentale degli Stati Uniti.
Chiesi consiglio a un professore di antropologia che aveva lavorato in quella zona. Era un famoso etnologo che negli anni Trenta e Quaranta aveva scritto numerose pubblicazioni sugli indiani della California, del sud-ovest e anche di Sonora, in Messico. Mi ascoltò con pazienza: in base al mio progetto, avrei dovuto scrivere un saggio intitolato «Informazioni etnobotaniche» e pubblicarlo in una rivista che si occupava esclusivamente di argomenti antropologici del sud-est degli Stati Uniti.
Mi proponevo di raccogliere piante medicinali, portare i campioni al Giardino Botanico dell’UCLA perché fossero identificati, descrivendo poi le modalità e i motivi per cui gli indiani del sud-est li utilizzavano. Immaginavo di raccogliere migliaia di voci e di pubblicare una vera e propria enciclopedia sull’argomento.
Il docente mi sorrise con aperta condiscendenza. «Non vorrei raffreddare il suo entusiasmo, ma non posso fare a meno di commentare negativamente il suo fervore» dichiarò con voce stanca. «Il fervore è il benvenuto in antropologia, ma deve essere incanalato nella maniera migliore. Ci troviamo ancora nell’età dell'oro dell’antropologia. Io ho avuto la fortuna di studiare con Alfred Krober e Robert Lowie, due pilastri delle scienze sociali e non ho tradito la loro fiducia. L’antropologia è ancora la disciplina fondamentale da cui si diramano tutte le altre. L’intero campo della storia, per esempio, dovrebbe essere chiamato “antropologia storica” e quello della filosofia “antropologia filosofica”. L’uomo è la misura di ogni cosa, di conseguenza l’antropologia, che è lo studio dell’uomo, dovrebbe essere il fulcro di qualunque altro studio. E un giorno lo sarà.»
Lo fissai, sbalordito. Per quanto mi riguardava, era un vecchio professore benevolo e passivo che di recente aveva avuto un attacco cardiaco. A quanto pareva, le mie parole l’avevano punto sul vivo.
«Non crede che dovrebbe prestare maggiore attenzione ai suoi studi regolari?» riprese. «Invece di svolgere un lavoro direttamente sul campo, non farebbe meglio a studiare linguistica? Nel nostro dipartimento insegna uno dei linguisti più importanti del mondo: se fossi al suo posto, me ne starei seduto ai suoi piedi, pronto a cogliere ogni sua parola.»
«Abbiamo a disposizione anche una vera autorità nel settore delle religioni comparate e anche alcuni antropologi molto competenti che hanno svolto un ottimo lavoro sui sistemi affini delle culture di tutto il mondo, dal punto di vista linguistico e da quello della cognizione.
Lei ha bisogno di una notevole preparazione. Pensare di poter affrontare adesso una raccolta diretta di dati sul campo è una sciocchezza. Ragazzo mio, le consiglio di immergersi nei suoi libri.»
Testardo, presentai la mia proposta a un altro docente più giovane, che non si rivelò affatto più disponibile e mi derise apertamente, dicendo che il saggio che avevo in mente era una specie di barzelletta e che non si trattava nemmeno lontanamente di antropologia.
«Al giorno d’oggi gli antropologi si preoccupano solo di questioni che rivestono una certa importanza» dichiarò in tono solenne. «La scienza medica e quella farmaceutica hanno svolto una quantità infinita di ricerche su qualunque possibile pianta medicinale del mondo: è un settore in cui non è rimasto più nulla da rosicchiare. ll concetto della raccolta di informazioni è tipico dell’inizio del diciannovesimo secolo, ormai sono passati quasi duecento anni. Lei sa che cos’è il progresso, vero?»
Mi fornì poi una definizione e una giustificazione del progresso e della perfettibilità intesi come due questioni dell’argomentazione filosofica, questioni che, secondo lui, erano i temi più rilevanti per l’antropologia.
«L’antropologia è l’unica disciplina esistente che può convalidare i concetti di perfettibilità e progresso» continuò. «Per fortuna c’è ancora uno spiraglio di speranza in mezzo al cinismo dei nostri tempi. Solo l’antropologia è in grado di mostrare il reale sviluppo della cultura e dell’organizzazione sociale e gli antropologi sono gli unici capaci di dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio il progresso della conoscenza umana. La cultura si evolve e soltanto gli antropologi possono presentare campioni di società che si adattano a nicchie ben definite collocabili in una linea di progresso e perfettibilità. Questa è l’antropologia e non qualche stupida raccolta diretta di dati che in realtà non è diretta per nulla, ma è una semplice masturbazione!»
Per me quello fu un vero colpo. Feci un ultimo tentativo e andai in Arizona a parlare con alcuni antropologi che stavano svolgendo davvero un lavoro direttamente sul campo. Ero ormai pronto ad abbandonare l’intero progetto. Capivo benissimo quello che avevano cercato di dirmi quei due professori ed ero perfettamente d’accordo con loro. I miei tentativi di lavorare a livello pratico erano a dir poco semplicistici, eppure io volevo fare pratica e non limitarmi a eseguire ricerche in biblioteca.
In Arizona incontrai un anziano studioso che aveva pubblicato molto materiale sugli indiani Yaqui dell’Arizona e su quelli di Sonora, in Messico.
Era estremamente gentile: non mi snobbò, ma non mi fornì alcun consiglio, limitandosi a commentare che le società indiane del sud-est erano estremamente chiuse e che gli stranieri, soprattutto quelli di origine ispanica, non godevano della loro fiducia ed erano addirittura odiati. Un suo giovane collega fu più esplicito e mi suggerì che avrei fatto meglio a leggere i libri degli erboristi; quel tizio era un’autorità nel settore e secondo lui tutto quello che occorreva sapere sulle piante medicinali del sud-est era già stato classificato e discusso in varie pubblicazioni. Giunse a dichiarare che quegli stessi testi, e non la conoscenza tradizionale, erano le fonti dei guaritori indiani. Si congedò dicendomi che se gli indiani facevano ancora ricorso alle pratiche antiche di guarigione, non le avrebbero certo rivelate a uno straniero.
«Faccia qualcosa che meriti» mi suggerì. «Provi a prendere in considerazione l’antropologia urbana: per esempio, ci sono a disposizione un sacco di soldi per gli studi sull’alcolismo tra gli indiani delle grandi città, e si tratta di un lavoro che qualunque antropologo può svolgere senza problemi. Vada a ubriacarsi con qualche indiano in un bar e poi sistemi le informazioni raccolte, suddividendole in statistiche. Trasformi tutto in numeri. L’antropologia urbana è il vero settore trainante.»
Non potei fare altro che accettare il consiglio di questi studiosi esperti. Decisi di tornare in aereo a Los Angeles, ma un altro antropologo mio amico mi fece sapere di avere in programma di attraversare in macchina l'Arizona e il Nuovo Messico per visitare tutti i luoghi dove aveva svolto in passato del lavoro di raccolta dei dati sul campo, e rinnovare così il suo rapporto con le persone che erano state suoi informatori antropologici.
«Puoi venire con me» mi disse. «Non ho intenzione di lavorare: mi limiterò ad andare a trovarli, bere qualcosa con loro e raccontare un po’ di stronzate. Ho comperato qualche regalo, coperte, alcolici, giacconi e munizioni per le loro calibro 22. Ho la macchina piena di roba. Di solito ci vado da solo, ma corro sempre il rischio di addormentarmi. Tu potresti farmi compagnia, impedirmi di appisolarmi o metterti alla guida se sono troppo ubriaco.»
Ero così abbattuto che rifiutai il suo invito.
«Mi spiace Bill, ma questo viaggio non fa per me. Non vedo perché dovrei insistere ancora con questa idea del lavoro sul campo.»
«Non arrenderti senza batterti» ribattè lui con un tono di preoccupazione paterna. «Concentra tutto te stesso nella lotta e se ti va male puoi anche cedere, ma non prima. Vieni con me e scopri se il sud-est ti piace.»
Mi mise un braccio intorno alle spalle e non potei fare a meno di notare che quel braccio era pesantissimo. Bill era alto e robusto, ma negli ultimi anni il suo corpo aveva acquisito una strana rigidità. Aveva perso le sue caratteristiche da ragazzo. Il suo viso tondo, un tempo pieno e giovanile, appariva ora preoccupato. Credevo fosse per via della sua calvizie incipiente, ma in certi momenti avevo l’impressione che si trattasse di qualcosa di più grave. E non si può nemmeno dire che fosse ingrassato, perché in realtà il suo corpo era pesante in una maniera impossibile da spiegare. Si vedeva dal modo in cui camminava, si alzava e si sedeva: in tutto ciò che faceva sembrava che stesse lottando contro la forza di gravità con ogni fibra del suo essere.
Ignorando la mia sensazione di sconfitta, partii con lui. Visitammo ogni angolo dell’Arizona e del Nuovo Messico in cui fosse possibile trovare degli indiani. Quel viaggio mi permise di scoprire che il mio amico antropologo riassumeva in sé due aspetti ben diversi. Mi spiegò che le sue opinioni in qualità di antropologo professionista erano molto misurate e in linea con il pensiero antropologico attuale, ma a livello personale il lavoro svolto sul campo gli aveva offerto una quantità di esperienze di cui non parlava mai, del tutto inaccettabili per il pensiero dominante, perché impossibili da catalogare.
Durante il viaggio Bill andava sempre a bere con i suoi ex informatori e poi appariva molto rilassato. A quel punto mi mettevo al volante e guidavo mentre lui, seduto al mio fianco, si scolava una bottiglia di whisky Ballantine vecchio di trent’anni. Era in quei momenti che mi parlava delle sue esperienze non catalogabili. «Non ho mai creduto ai fantasmi» si lasciò sfuggire un giorno, senza il minimo preavviso. «E non sono mai andato alla ricerca di apparizioni, essenze fluttuanti, voci nelle tenebre, sai, roba del genere. Ho avuto una formazione seria e pragmatica e la scienza è sempre stata la mia bussola, finché, lavorando direttamente sul campo, sono cominciate a succedermi le stronzate più assurde. Una notte, per esempio, insieme ad alcuni indiani mi imbarcai in una ricerca della visione (spirituale): avrebbero dovuto iniziarmi con un procedimento estremamente doloroso che prevedeva la perforazione dei muscoli del petto. Mi stavano preparando una capanna sudatoria nei boschi e mi ero ormai rassegnato all’idea dell’inevitabile sofferenza, grazie anche all'aiuto di un paio di bicchierini, quando il tizio che aveva interceduto per me presso gli officianti della cerimonia si mise a urlare, terrorizzato e indicò una figura indistinta che stava avanzando verso di noi.
«Quando fu abbastanza vicina, mi accorsi che si trattava di un vecchio indiano, vestito nella maniera più assurda che si possa immaginare, con tutto l’arredo completo degli sciamani» proseguì Bill. «Vedendolo, il mio accompagnatore perse vergognosamente i sensi. Lo sconosciuto mi venne vicino, puntando un dito ossuto contro il mio petto e borbottando parole per me incomprensibili. Nel frattempo anche tutti gli altri l’avevano visto e si erano mossi per correre da me, ma il vecchio si era girato a guardarli, immobilizzandoli e rivolgendosi a loro in tono concitato. La sua voce è indimenticabile: sembrava che stesse parlando attraverso un tubo, come se avesse qualcosa attaccato alla bocca che faceva uscire le parole dal suo corpo. Te lo giuro, io ho realmente visto quell’uomo che parlava da dentro il suo corpo, con la bocca che trasmetteva le parole come un apparato meccanico. Dopo aver arringato i presenti, il vecchio continuò a camminare, oltrepassando tutti, per poi scomparire inghiottito dalle tenebre.»
La cerimonia non venne portata a termine. Gli uomini, compresi gli sciamani che avrebbero dovuto assumere il controllo, tremavano come foglie ed erano così terrorizzati che si dispersero, allontanandosi.
«Individui che erano stati amici per anni non si rivolsero mai più la parola» mi spiegò Bill. «Ritenevano di aver assistito all’apparizione di uno sciamano incredibilmente vecchio e che parlarne tra loro avrebbe portato sfortuna a tutti, anzi, sarebbe bastato che si fossero guardati a vicenda. La maggior parte di loro finì addirittura per trasferirsi e abbandonare la zona.»
«Per quale motivo avevano l’impressione che parlarsi o guardarsi avrebbe portato sfortuna?» gli chiesi.
«Sono le loro credenze. Una visione di quella natura significa che l’apparizione si è rivolta a ognuno di loro ed è la cosa più fortunata che possa capitare nell’arco dell’intera esistenza.»
«E qual era la cosa personale che la visione ha detto a ciascuno di loro?» volli sapere.
«Non ne ho idea, non mi hanno mai spiegato un accidente. Tette le volte che chiedevo qualcosa, si chiudevano nel mutismo più assoluto: non avevano visto o sentito nulla. Anni dopo, l’uomo che era svenuto mi rivelò di aver finto di perdere i sensi, perché era terrorizzato e non aveva voluto affrontare il vecchio e che quello che doveva dire veniva compreso da tutti a un livello diverso da quello della comprensione linguistica.»
Bill mi confidò che l’apparizione gli aveva parlato di qualcosa che aveva a che fare con la sua salute e con le aspettative che aveva nei confronti della vita.
«Cosa vorresti dire?»
«Per quanto mi riguarda, le cose non vanno affatto bene» mi confessò. «Il mio corpo non è a posto.»
«Sai con precisione di cosa si tratta?»
«Sì, certo» mi rispose con noncuranza. «I medici me lo hanno detto, ma non ho intenzione di preoccuparmi e non voglio nemmeno pensarci.»
Le rivelazioni del mio amico mi fecero sentire a disagio, mostrandomi un aspetto della sua personalità che non conoscevo. L’avevo sempre considerato un tipo coriaceo e non immaginavo che potesse essere così vulnerabile. Quella conversazione non mi andò a genio, ma ormai era troppo tardi per fare marcia indietro e proseguimmo il viaggio.
In un’altra occasione mi confidò che gli sciamani del sud-est erano capaci di trasformarsi in entità diverse e che le definizioni “sciamano orso” o “sciamano puma” non dovevano essere considerate eufemismi o metafore, perché non lo erano.
«Sai che esistono sciamani che diventano davvero orsi, leoni di montagna o aquile?» esclamò in tono ammirato. «Se ti dico che io stesso ho assistito alla trasformazione di uno sciamano che si definiva “Uomo Fiume”, “Sciamano Fiume” o “Colui che proviene dal fiume e ritorna al fiume”, non esagero e non invento nulla. Mi trovavo sulle montagne del Nuovo Messico con questo sciamano. Lo portavo in giro in auto, lui si fidava di me e diceva di essere alla ricerca delle sue origini. Stavamo camminando lungo la riva di un fiume quando all’improvviso si agitò e mi ordinò di andare a nascondermi dietro alcune rocce piuttosto alte, di mettermi una coperta in testa e di sbirciare, in modo da non perdermi quello che stava per fare.»
«E che cosa fece?» gli chiesi, incapace di trattenermi.
«Non riuscivo nemmeno a immaginarlo, le tue ipotesi in merito sarebbero state valide quanto le mie. Si limitò a entrare completamente vestito nel ruscello, largo ma quasi asciutto e quando l’acqua gli arrivò a metà polpaccio, lui svanì, scomparve. Prima di entrare mi aveva sussurrato all’orecchio di scendere più a valle ad aspettarlo, indicandomi il punto esatto in cui avrei dovuto appostarmi. Com’è naturale, non avevo creduto a una sola parola e non ricordavo nemmeno dove avrei dovuto posizionarmi, ma poi trovai il punto esatto e vidi lo sciamano che usciva dall’acqua. Una simile affermazione può apparire stupida, ma io lo vidi davvero trasformarsi in acqua e poi ricomporsi dall’acqua stessa. Riesci a crederci?»
Non sapevo come commentare le storie del mio amico. Mi risultava impossibile credergli, ma al tempo stesso non me la sentivo di rifiutare in blocco le sue affermazioni. Era un uomo molto serio. L’unica spiegazione possibile era data dal fatto che, mentre proseguivamo il nostro viaggio, Bill continuava a bere ogni giorno sempre più: nel bagagliaio della macchina c’era una scatola con ventiquattro bottiglie di whisky solo per lui. Beveva come una spugna.
«Sono sempre stato poco obiettivo nei confronti delle metamorfosi esoteriche degli sciamani» mi confidò in un’altra occasione. «Non sono in grado di spiegare queste trasformazioni e non credo nemmeno che avvengano, ma, come esercizio intellettuale, mi interessa molto prendere in considerazione il fatto che le metamorfosi in serpenti e puma non siano difficili come quella eseguita dallo sciamano in acqua. In momenti del genere, quando impegno così il mio intelletto, smetto di essere un antropologo e comincio a reagire, seguendo l’istinto. E l’istinto mi dice che questi sciamani fanno di sicuro qualcosa che non può essere valutato a livello scientifico e di cui non si può parlare in maniera intelligente.
«Per esempio, ci sono sciamani nuvola che si trasformano in nuvole o nebbia. Non ho mai assistito di persona a una simile metamorfosi, ma ho conosciuto uno sciamano nuvola e anche se non l’ho mai visto scomparire o tramutarsi in nebbia davanti ai miei occhi, così come vidi il suo collega trasformarsi in acqua, mi capitò di inseguirlo e lui svanì in una zona dove non esistevano possibili nascondigli. Non lo vidi diventare una nuvola, ma scomparve e io non riuscii a spiegarmi dove fosse finito, perché quel punto era privo di rocce o vegetazione. Ero arrivato un minuto e mezzo dopo di lui, ma non c’era ...
«Lo avevo inseguito dappertutto per avere spiegazioni, ma lui non voleva saperne. Era molto amichevole nei miei confronti ma non mi diceva nulla.»
In seguito Bill mi raccontò un’infinità di storie che non mi interessavano affatto riguardanti le lotte e le fazioni politiche che dividevano gli indiani all’interno delle varie riserve, oltre a resoconti di vendette personali, animosità e amicizie. Al tempo stesso, i suoi racconti sulle trasformazioni e le apparizioni degli sciamani avevano suscitato in me una forte emozione: quelle vicende mi affascinavano e mi sconvolgevano al tempo stesso, anche se non riuscivo a spiegare l’origine delle mie sensazioni. Sapevo solo che mi colpivano a livello istintivo.
Grazie a quel viaggio mi resi conto di persona che le società indiane del sud-est erano davvero molto chiuse e riuscii così ad accettare l’idea che avevo davvero bisogno di aumentare le mie conoscenze nel campo dell’antropologia e che sarebbe stato più pratico svolgere un lavoro sul campo in una zona che conoscevo, o con cui avevo almeno una connessione.
Al termine di quell’esperienza Bill mi accompagnò alla stazione degli autobus di Greyhound di Nogales, in Arizona, in modo che potessi tornare a Los Angeles. Mentre ce ne stavamo seduti nella sala d’attesa ad aspettare l’arrivo dell’autobus, il mio amico mi consolò in tono paterno, ricordandomi che i fallimenti erano del tutto normali nel settore dell’antropologia e che servivano a rafforzare la fermezza di un antropologo o a decretare la sua maturità.
A un tratto si chinò in avanti e con un movimento impercettibile del mento mi indicò il lato opposto della stanza. «Credo che il vecchio seduto su quella panchina laggiù sia il tizio di cui ti ho parlato» mi sussurrò. «Non ne sono del tutto certo perché ci siamo trovati faccia a faccia solo in un’occasione.»
«Di chi si tratta? E cosa mi hai detto sul suo conto?»
«Quando ti ho parlato degli sciamani e delle loro trasformazioni, ti ho detto di aver incontrato una volta uno sciamano nuvola.»
«Sì, ricordo. È lui?»
«No» mi rispose Bill, deciso. «Ma credo sia un suo maestro o compagno, perché molti anni fa li ho visti insieme, anche se li ho solo scorti da lontano.»
Ricordai di avergli sentito dire in tono del tutto casuale, senza alcun riferimento preciso allo sciamano nuvola, che era al corrente dell’esistenza di un vecchio misterioso, una specie di sciamano in pensione, un vecchio indiano misantropo di Yuma che un tempo era stato uno stregone spaventoso. Bill non citò mai apertamente un eventuale legame tra il vecchio e lo sciamano nuvola, ma era chiaro che doveva averlo bene in mente, al punto che credeva di avermene parlato.
In preda a una strana ansia mi alzai di scatto e come se fossi stato privo di volontà andai vicino al vecchio e cominciai una lunga tirata su quanto conoscevo circa le piante medicinali e lo sciamanesimo tra gli indiani delle pianure e i loro antenati siberiani. Gli dissi inoltre che sapevo che lui era uno sciamano e conclusi assicurandogli che per lui sarebbe stato un vero beneficio parlarne a lungo con me.
«Se non altro, potremmo scambiarci le nostre storie: tu mi racconti le tue, e io ti dico le mie» dichiarai con una certa arroganza.
Il vecchio tenne gli occhi bassi fino all’ultimo, poi sollevò lo sguardo e disse, fissandomi senza esitazioni: «lo sono Juan Matus».
La mia tirata non era certo finita, ma anche se non riuscivo a capirne il motivo, ebbi l’impressione di non avere altro da aggiungere. Avrei voluto dirgli il mio nome, ma lui mi mise una mano davanti alle labbra, quasi avesse voluto impedirmi di pronunciarlo.
In quel preciso istante un autobus si fermò, il vecchio borbottò che era quello che stava aspettando e mi chiese con entusiasmo di andarlo a trovare, in modo che potessimo scambiarci le nostre storie. Mentre parlava, la sua bocca assunse un’espressione ironica. Con un’agilità incredibile per un uomo della sua età (immaginavo che dovesse avere circa ottant’anni), con pochi passi decisi percorse i cinquanta metri che separavano la panchina dal bus. Il pesante automezzo ripartì subito, quasi avesse sostato solo per prelevarlo.
Dopo che se ne fu andato, tornai da Bill.
«Che cosa ti ha detto?» mi chiese il mio amico, tutto agitato.
«Di andarlo a trovare a casa sua, dove potremo chiacchierare.»
«Ma tu cosa gli hai detto per riuscire a farti invitare?» volle sapere.
Gli spiegai che avevo usato la mia migliore parlantina da piazzista, promettendo al vecchio di rivelargli tutto ciò che sapevo sulle piante medicinali grazie alle mie lettere.
Era evidente che Bill non mi credeva; giunse perfino ad accusarmi di volerlo emarginare. «Conosco benissimo la gente che vive in questa zona e quel vecchio è un tipo strano, non parla mai con nessuno, indiani compresi» mi accusò con una certa aggressività. «Perché mai dovrebbe parlare con te, un perfetto sconosciuto? Non sei nemmeno carino!»
Si capiva che era molto seccato con me, anche se non riuscivo a capire per quale motivo e non avevo il coraggio di chiedergli spiegazioni. Mi sembrava geloso, forse perché io avevo avuto successo là dove lui aveva fallito. Tuttavia, il successo era stato così inavvertito, che per me non rivestiva alcun significato. Se non fosse stato per i commenti di Bill, non mi sarei nemmeno reso conto di quanto era difficile avvicinare quel vecchio e non avrebbe potuto importarmene di meno. All’epoca quella breve conversazione non mi sembrò per nulla particolare e non capivo perché mai Bill fosse rimasto così sconvolto.
«Tu sai dove abita?»
«Non ne ho la più pallida idea» mi rispose, piuttosto seccato. «Ho sentito dire che non abita da nessuna parte, e si limita ad apparire qua e là, senza che ci sia un motivo preciso, ma sono solo stronzate. Con ogni probabilità vive in qualche baracca di Nogales, in Messico.»
«Perché mai è così importante?» La mia domanda mi diede il coraggio di aggiungere: «Il fatto che mi abbia rivolto la parola sembra sconvolgerti: perché?»
Con indifferenza ammise di essere addolorato perché sapeva quanto fosse inutile cercare di parlare con quel tipo. «È un gran maleducato, quando gli parli nel migliore dei casi ti fissa senza aprire bocca. A volte non ti guarda nemmeno e ti tratta come se tu non esistessi. L’unica volta che ho cercato di parlargli mi ha respinto in maniera brutale. Sai cosa mi ha detto? “Se fossi in te, non sprecherei la mia energia aprendo la bocca. Cerca di conservarla, ne hai bisogno”. Se non fosse stato così vecchio, gli avrei mollato un bel pugno sul naso.»
Feci notare al mio amico che chiamarlo «vecchio» era un eufemismo e non una descrizione reale. Non sembrava così vecchio, anche se era sicuramente anziano. Possedeva infatti un vigore e una agilità incredibili. Pensai che se avesse cercato di colpirlo, Bill non ci sarebbe affatto riuscito. Quell’indiano era molto forte e metteva addirittura paura.
Evitai di dirlo al mio amico e gli permisi di continuare a raccontarmi quanto fosse disgustato dalla cattiveria di quel tizio e come gli sarebbe piaciuto trattarlo, se non avesse avuto un aspetto così debole. «Chi credi che possa dirmi dove vive?»
«Forse qualcuno giù a Yuma, magari le persone che ti ho presentato all’inizio del nostro viaggio» mi rispose, più rilassato. «Non hai nulla da perdere a chiedere a loro. Di’ che ti ho mandato io.»
Cambiai subito i miei piani e invece di tornare a Los Angeles mi recai a Yuma, in Arizona. Incontrai i tizi che mi aveva presentato Bill e anche se ignoravano dove abitasse il vecchio indiano, i loro commenti aumentarono ancora di più la mia curiosità sul suo conto. Mi spiegarono che proveniva da Sonora, in Messico, e non da Yuma; in gioventù era stato un temibile sciamano che eseguiva sortilegi e lanciava formule magiche sulle persone, ma con il passare del tempo si era ammorbidito, trasformandosi in un eremita ascetico. Mi dissero anche che, sebbene fosse un indiano Yaqui, se ne andava sempre in giro con un gruppo di messicani che sembravano molto esperti di pratiche magiche; in ogni caso, era da un pezzo che nessuno di loro lo vedeva. Uno dei miei informatori aggiunse che aveva la stessa età di suo nonno, un vecchio costretto a letto, mentre lo sciamano sembrava più in forma che mai. Lo stesso uomo mi mandò da alcune persone di Hermosillo, la capitale della regione di Sonora, che forse lo conoscevano ed erano in grado di raccontarmi qualcosa sul suo conto. L'idea di andare in Messico non mi sorrideva affatto, perché Sonora era troppo distante dalla zona che mi interessava. Convinto che sarebbe stato meglio svolgere una ricerca di antropologia urbana, tornai a Los Angeles. Prima di partire, girai la zona di Yuma sempre alla ricerca di informazioni sul vecchio, ma nessuno lo conosceva.
Mentre l’autobus si dirigeva verso Los Angeles, provai una sensazione unica: mi sentivo guarito dalla mia ossessione nei confronti del lavoro di raccolta dei dati sul campo e nei confronti di quel vecchio. Al tempo stesso, sentivo una strana nostalgia, qualcosa che non avevo mai provato in vita mia. Era una sensazione del tutto nuova che mi colpì in maniera profonda, un insieme di ansia e desiderio, come se mi stessi perdendo qualcosa di molto importante. Avvicinandomi a Los Angeles ebbi la netta sensazione che qualunque cosa avesse agito su di me dalle parti di Yuma, cominciava a svanire in lontananza e il fatto stesso che stesse per scomparire non faceva altro che aumentare il mio desiderio.
L’intento dell’infinito
«Voglio che tu pensi con la massima concentrazione a ogni singolo dettaglio relativo a ciò che è avvenuto fra te e quei due uomini, Jorge Campos e Lucas Coronado, quelli che in pratica ti hanno consegnato a me, e poi mi racconti ogni cosa» disse don Juan.
Pur trovando la sua richiesta piuttosto difficile da esaudire, mi divertii a ricordare tutto quello che quei due mi avevano detto. Egli esigeva i particolari più insignificanti, qualcosa che mi costringesse a spingere la memoria a superare qualunque limite.
La storia che don Juan voleva farmi ricordare ebbe inizio nella città di Guaymas, nella regione di Sonora in Messico. A Mima, in Arizona, mi avevano fornito i nomi e gli indirizzi di alcune persone che in teoria erano in grado di chiarire il mistero del vecchio incontrato al deposito degli autobus. Nessuno però aveva mai conosciuto uno sciamano in pensione e non credevano che potesse esistere un uomo del genere. In compenso molti mi raccontarono un sacco di storie spaventose sugli sciamani Yaqui e sull'atteggiamento in genere aggressivo di tutti gli indiani di quella tribù, spiegandomi che a Vicam, una cittadina sede di una stazione ferroviaria tra le località di Guaymas e Ciudad Obregon, avrei potuto imbattermi in qualcuno capace di indicarmi la giusta direzione.
«A chi mi devo rivolgere?» volli sapere.
«La cosa migliore da farsi è parlare con un ispettore locale della banca governativa» mi suggerì un tizio. «Ci sono molti ispettori e conoscono tutti gli indiani della zona, perché la banca è l'istituzione governativa che acquista il loro raccolto. Ogni Yaqui è un agricoltore, è il proprietario di un pezzo di terreno che può definire suo purché continui a coltivarlo.»
«Voi ne conoscete qualcuno?» domandai.
Dopo essersi guardati fra loro con aria d’intesa, mi sorrisero, scusandosi perché non ne conoscevano affatto. In compenso, mi raccomandarono caldamente di avvicinarne uno e di spiegargli la situazione.
A Vicam Station i miei tentativi di fare conoscenza con gli ispettori della banca governativa furono a dir poco disastrosi. Ne incontrai tre e, non appena spiegai loro ciò che volevo, mi lanciarono uno sguardo di completa sfiducia. Sospettavano infatti che fossi una spia inviata dagli Yankee a creare problemi che non erano in grado di definire con chiarezza e su cui facevano le ipotesi più sfrenate: dalla sommossa politica allo spionaggio industriale. Da quelle parti erano convinti che nelle terre degli indiani Yaqui ci fossero giacimenti di rame su cui gli Yankee volevano mettere le mani.
Dopo questo clamoroso fallimento mi ritirai nella città di Guaymas. Mi trovavo in un albergo a pochi passi da un fantastico ristorante, dove andavo tre volte al giorno. TI cibo era ottimo e mi piaceva così tanto che rimasi a Guaymas più di una settimana: si può dire che vivevo in quel locale e avevo così fatto amicizia con il proprietario, un certo Reyes.
Un pomeriggio, mentre stavo mangiando, Reyes venne al mio tavolo con un altro uomo che mi presentò come Jorge Campos, un imprenditore Yaqui che aveva trascorso la giovinezza in Arizona, parlava inglese alla perfezione ed era più americano di un vero americano. Reyes lo lodò, dicendo che era un esempio di come il duro lavoro e l’impegno potessero trasformare una persona normale in un essere eccezionale.
Quando Reyes si allontanò, Jorge Campos si sedette al mio fianco e prese subito in pugno la conversazione. Fingendosi modesto, negò tutti quei complimenti, ma la sua soddisfazione per le parole di Reyes era evidente. In un primo momento ebbi la netta sensazione che fosse il tipo di imprenditore che si trova nei bar o agli angoli delle strade più affollate, intento a cercare di vendere un’idea o a trovare il modo di fregare i soldi ai passanti.
Campos era un uomo di bell’aspetto, alto un metro e ottantadue, snello, con la pancia prominente tipica dei forti bevitori di alcolici. Aveva la carnagione molto scura, con una tonalità di verdastro, indossava jeans costosi e lucidi stivali da cow-boy con la punta aguzza e il tacco angolare, quasi avesse bisogno di affondarli nel terreno per non farsi trascinare via da un manzo preso al lazo.
La sua camicia a scacchi grigia era stirata in maniera impeccabile. Nel taschino di destra aveva infilato una busta di plastica, che conteneva una fila di penne: era lo stesso accorgimento che avevo visto usare dagli impiegati che non volevano macchiare d'inchiostro la camicia. Portava anche una giacca scamosciata con le frange, di un colore marrone rossastro e un alto cappello texano da cow-boy. La sua faccia rotonda era priva di espressione. Non aveva rughe, sebbene fosse sulla cinquantina. Per chissà quale motivo pensai che doveva essere un individuo pericoloso.
«Sono felice di fare la sua conoscenza, signor Campos» esordii, porgendogli la mano.
«Lasciamo perdere le formalità» ribatté lui, stringendomela con vigore. «Mi piace trattare i giovani alla pari, senza badare alla differenza d’età. Chiamami Jorge.»
Rimase un attimo in silenzio, valutando la mia reazione. Non sapevo cosa dire, ma ero certo di non volerlo assecondare, così come non me la sentivo di prenderlo sul serio.
«Sono curioso di sapere che cosa stai facendo a Guaymas» proseguì in tono casuale. «Non sembri un turista e non sembri nemmeno interessato alla pesca subacquea.»
«Sono uno studente di antropologia e sto cercando di stabilire le mie credenziali presso gli indiani del luogo, in modo da poter svolgere alcune ricerche sul campo» gli spiegai.
«E io sono un uomo d’affari. R mio lavoro consiste nel fornire informazioni, agendo da intermediario. Tu hai un bisogno da soddisfare, io possiedo la merce. Mi faccio pagare per i miei servizi, che sono comunque garantiti: se non sei soddisfatto, non sei costretto a pagarmi.»
«Se il tuo lavoro è quello di fornire informazioni, sarò lieto di sborsare qualunque cifra tu mi chieda.»
«Ah!» esclamò. «Hai sicuramente bisogno di una guida, qualcuno più istruito dell’indiano medio, che possa portarti in giro. Hai una borsa di studio concessa dal governo degli Stati Uniti o da qualche altra grossa istituzione?»
«Sì» mentii. «Ne ho una dell’Esoterical Foundation di Los Angeles.»
Non appena pronunciai quelle parole, scorsi un lampo di cupidigia nei suoi occhi.
«Ah!» esclamò di nuovo. «Ed è molto grande questa istituzione?»
«Abbastanza.»
«Santo Cielo! Ma davvero?» disse, come se quella frase fosse stata la spiegazione che aveva tanto voluto sentire. «Se non ti dispiace, potresti dirmi a quanto ammonta la tua borsa di studio? Insomma, quanto denaro ti hanno dato?»
«Poche migliaia di dollari per svolgere un lavoro preliminare sul campo» mentii di nuovo, per vedere come avrebbe risposto.
«Ah! Io amo le persone dirette» aggiunse, scegliendo con cura le parole. «Sono certo che noi due troveremo un accordo. Ti offro i miei servizi come guida e come chiave che può aprire molte porte segrete presso gli indiani Yaqui. Come puoi vedere dal mio aspetto esteriore, io sono un uomo ricco e di gusto.»
«Sì, tu sei senz’altro un individuo dotato di buon gusto» dichiarai.
«Ti sto semplicemente dicendo che per un piccolo onorario, che troverai senz’altro accettabile, io ti farò incontrare le persone giuste a cui potrai chiedere qualunque cosa. E con una piccola aggiunta, ti tradurrò le loro parole in spagnolo o inglese. Parlo anche francese e tedesco, ma ho l’impressione che queste lingue non ti interessino.»
«Hai perfettamente ragione, non mi interessano affatto. A quanto ammonterebbe il tuo onorario?»
Si tolse dalla tasca posteriore dei calzoni un blocchetto per appunti con la copertina di cuoio e, con un gesto rapido della mano, me lo aprì davanti alla faccia, ci scarabocchiò sopra qualcosa, lo richiuse e lo rimise in tasca con un altro gesto preciso e veloce. Ebbi la certezza che volesse farmi credere di essere efficiente e capace di eseguire in fretta qualunque calcolo.
«Ah! Il mio onorario ... Ti farò pagare cinquanta dollari al giorno, compresi i trasporti e con l’aggiunta dei pasti. Voglio dire, quando tu mangi, mangio anch’io. Che ne dici?»
In quel preciso istante si chinò verso di me e mi sussurrò che dovevamo metterei a parlare in inglese perché non voleva che gli altri venissero a conoscenza della natura delle nostre transazioni. Si mise poi a parlare in qualcosa che non era affatto inglese. Colto di sorpresa, non sapevo come reagire e cominciai a irritarmi mentre lui continuava a sproloquiare con la massima naturalezza. Senza scomporsi, agitava le mani e indicava vari punti intorno a lui come se mi stesse spiegando qualcosa. Avevo l’impressione che non stesse parlando una lingua specifica; forse si esprimeva nel linguaggio Yaqui. Quando altri clienti si avvicinavano al nostro tavolo e ci guardavano, io annuivo e ripetevo: «Sì, sì, certo». A un tratto esclamai: «Puoi ben dirlo» e quella frase mi sembrò così divertente che scoppiai in una sonora risata. Anche il mio interlocutore rise di cuore, come se avessi appena detto qualcosa di molto divertente.
Doveva però essersi accorto che stavo per esaurire la pazienza e prima che potessi alzarmi e mandarlo al diavolo, riprese a parlare in spagnolo.
«Non voglio stancarti con le mie sciocche osservazioni, ma se devo farti da guida, e penso proprio che lo farò, dovremo trascorrere lunghe ore chiacchierando insieme» mi spiegò. «Ti ho messo alla prova per vedere se sai conversare bene. Se dovrò guidare, ho bisogno di avere accanto una persona che sappia recepire e iniziare la conversazione. Sono felice di informarti che tu sai fare bene entrambe le cose.»
Si alzò poi in piedi, mi strinse la mano e se ne andò. Con un tempismo perfetto il proprietario venne al mio tavolo, sorridendo e scuotendo il capo a destra e sinistra, come un orsetto.
«Non è fantastico?» mi domandò.
Non avevo alcuna intenzione di rispondergli e Reyes continuò raccontandomi che in quel momento Jorge Campos stava facendo da intermediario in una transazione estremamente delicata e proficua: alcune società minerarie americane erano interessate ai depositi di ferro e rame che appartenevano agli indiani Yaqui e Campos era sul punto di intascare una commissione di circa cinque milioni di dollari. Fu allora che mi convinsi di avere a che fare con un imbroglione, perché in quelle terre non c’era alcun deposito. Se ce ne fossero stati, qualche azienda privata avrebbe cacciato gli Yaqui dalla zona, mandandoli a vivere da qualche altra parte.
<<È straordinario, l’uomo più incredibile che abbia mai incontrato» gli risposi. «Come posso contattarlo di nuovo?»
«Di questo non devi preoccuparti. Jorge mi ha chiesto tutto di te, ti sta tenendo d’occhio fin da quando sei arrivato. Con ogni probabilità oggi o domani verrà a bussare alla tua porta.»
Reyes aveva ragione. Un paio d’ore dopo qualcuno venne a svegliarmi dal sonnellino pomeridiano (avevo intenzione di partire da Guaymas in serata e guidare tutta notte per raggiungere la California): era Jorge Campos. Gli spiegai che me ne stavo andando e che sarei tornato nel giro di un mese.
«Ah! Devi restare, adesso che ho deciso di farti da guida!»
«Mi dispiace ma dovremmo rimandare, ho troppo poco tempo a disposizione.»
Anche se sapevo che era un imbroglione, decisi di rivelargli che avevo già un informatore, incontrato in Arizona, che stava aspettando di lavorare con me. Gli descrissi il vecchio, aggiungendo che si chiamava Juan Matus e che altre persone me lo avevano presentato come uno sciamano. Jorge Campos mi rivolse un ampio sorriso e io gli chiesi se lo conosceva.
«Ah, sì, lo conosco» mi rispose in tono gioviale. «Si può dire che siamo buoni amici.» Senza essere invitato, entrò nella mia stanza e si sedette al tavolino vicino al balcone.
«Vive da questi parti?» gli domandai.
«Certo.»
«Mi porteresti da lui?»
«Perché no? Ho bisogno di un paio di giorni per svolgere alcune ricerche, giusto per essere sicuro che ci sia, e poi andremo insieme a trovarlo.»
Sapevo che stava mentendo, eppure volevo credergli. Giunsi a pensare che la mia sfiducia iniziale non si reggesse su basi solide, perché in quel momento sembrava molto convincente.
«Io ti porterò da quell’uomo, ma devi pagarmi un onorario fisso di duecento dollari.»
Era una cifra superiore a quella che avevo a disposizione. Rifiutai gentilmente e gli dissi che non avevo abbastanza denaro con me.
«Non vorrei sembrare un mercenario, ma posso sapere quanto soldi sei in grado di spendere?» mi chiese con il suo sorriso più convincente. «Devi tenere presente che sarò costretto a sborsare qualche somma ... Gli indiani Yaqui sono molto riservati, ma c’è sempre il modo di riuscire, c’è sempre qualche porta che si apre con la chiave magica del denaro!»
Nonostante i miei dubbi, ero convinto che Jorge Campos potesse rivelarsi il mio canale d’accesso non solo al mondo Yaqui ma anche al vecchio che mi aveva tanto intrigato. Non mi andava di mercanteggiare sul prezzo e, con un certo imbarazzo, gli offrii cinquanta dollari che avevo in tasca.
«Sono alla fine del mio soggiorno e ho quasi finito i soldi» gli dissi in tono di scusa. «Mi sono rimasti solo cinquanta dollari.»
Jorge Campos stese le lunghe gambe sotto il tavolo e incrociò le braccia dietro la testa, abbassandosi il cappello sulla faccia. «Prendo i cinquanta dollari e anche il tuo orologio» mi rispose spudoratamente. «Per una cifra del genere ti porterò a conoscere uno sciamano meno importante. Non essere impaziente» mi avvisò, come se io fossi stato sul punto di protestare. «Dobbiamo salire con estrema cautela sulla scala, partendo dai gradini più bassi fino a raggiungere quell’uomo che, te lo assicuro, è proprio in cima.»
«E quando potrei incontrare questo sciamano meno importante?» gli chiesi, porgendogli soldi e orologio.
«Subito!» mi rispose, alzandosi di scatto per afferrare avidamente il suo compenso. «Andiamo, non c’è un minuto da perdere.»
Salimmo sulla mia auto e lui mi indirizzò verso Potam, una delle tradizionali città Yaqui situate lungo il corso del fiume omonimo. Lungo il tragitto mi rivelò che stavamo per incontrare Lucas Coronado, un uomo conosciuto per le sue capacità magiche, la trance sciamanica e le splendide maschere che creava per le feste Yaqui della quaresima.
Cambiò poi argomento, mettendosi a parlare del vecchio e quello che mi disse era in piena contraddizione con i resoconti di chi me lo aveva descritto come un eremita, uno sciamano che aveva abbandonato l’attività. Jorge Campos lo ritrasse invece come il guaritore e lo stregone più importante della zona, un uomo che la fama aveva trasformato in una figura quasi inaccessibile. Fece una pausa, come un vero attore, e sferrò poi il suo colpo finale: mi informò che parlare al vecchio con una certa regolarità, così come fanno in genere gli antropologo mi sarebbe costato almeno duemila dollari.
Stavo per protestare per quell’impennata del prezzo, ma lui mi anticipò: «Posso portarti da lui per duecento dollari e di questi io me ne tengo una trentina: tutto il resto è destinato al pagamento di bustarelle varie. Parlare a lungo con lui ti costerà di più. Puoi fare tu stesso i conti: ha delle guardie del corpo, individui che lo proteggono e che devo tenermi buoni pagandoli. Alla fine ti fornirò un resoconto completo di ricevute e di tutto ciò che ti serve per le tue tasse e potrai vedere che la mia commissione è davvero minima.»
Provai un’ondata di ammirazione nei suoi confronti. Era consapevole di tutto, persino delle ricevute per le tasse. Rimase a lungo in silenzio, quasi stesse calcolando il suo profitto minimo. Da parte mia, non avevo nulla da dire: ero impegnato anch’io a far calcoli, cercando di trovare il modo di entrare in possesso di quei duemila dollari. Giunsi a pensare di chiedere davvero una borsa di studio.
«Sei sicuro che il vecchio accetterà di parlarmi?» gli domandai.
«Certo. E, in base a quello che pagherai, oltre a parlarti, eseguirà per te le sue magie. In seguito potrete accordarvi sul costo delle lezioni successive.» Dopo un’altra pausa, mi fissò negli occhi e chiese: «Credi che potrai pagarmi i duemila dollari?». Il suo tono era così forzatamente indifferente che ebbi la certezza che mi stesse imbrogliando.
«Sì, posso procurarmeli senza problemi» mentii.
Jorge Campos non riuscì a nascondere la soddisfazione. «Bravo ragazzo! Bravo ragazzo!» esultò. «Ci divertiremo un mondo!»
Cercai di chiedergli qualcosa sul conto del vecchio, ma mi interruppe bruscamente. «Risparmia queste domande per lui: fra un po’ sarà tutto tuo» mi rassicurò con un ampio sorriso.
Si mise poi a raccontarmi la sua vita negli Stati Uniti, confidandomi le sue aspirazioni in campo professionale e, con mia grande sorpresa, dato che lo avevo classificato come un impostore che non sapeva una sola parola d'inglese, si mise a parlare in tale lingua.
«Ma tu parli inglese!» esclamai, senza nemmeno cercare di nascondere la mia sorpresa.
«Certo, ragazzo mio» mi rispose, ostentando un accento texano che mantenne per tutta la durata della conversazione. «Te l’ho detto, ho voluto metterti alla prova per vedere se sei abbastanza intraprendente. Lo sei, e devo ammettere che sei anche piuttosto in gamba.»
La sua padronanza dell’inglese era superba e mi deliziò con battute e storielle. In breve tempo ci ritrovammo a Potam. Mi diresse verso una casa alla periferia della città. Scendemmo dalla macchina e lui mi fece strada, chiamando a gran voce Lucas Coronado.
Dal retro detta casa giunse una voce: «Venite qui!».
Sul retro di una piccola baracca c’era un uomo, seduto in terra su una pelle di capra; teneva con i piedi un pezzo di legno che stava intagliando con uno scalpello e una mazza. 'Tenendo fermo il legno in quel modo, era riuscito a creare uno stupefacente tornio da vasaio. I piedi giravano tt legno, le mani lavoravano con lo scalpello. Non avevo mai visto niente del genere in tutta la mia vita. Stava facendo una maschera, svuotandola con uno scalpello curvo. n modo in cui riusciva a controllare i piedi che reggevano il legno e lo facevano girare era incredibile.
Era un tizio decisamente magro, con un viso affilato, lineamenti ossuti, zigomi alti e la carnagione scura, color del rame. La pelle della faccia e del collo sembrava essere tesa al massimo. I baffi sottili che ricadevano all’ingiù gli davano un’espressione malevola. Aveva il naso aquilino e sottile, gli occhi scuri e fieri. Le sopracciglia incredibilmente nere al pari dei capelli corvini pettinati all’indietro, sembravano tracciate con un matita. Non avevo mai visto una faccia più ostile. Mi venne in mente l’immagine di un avvelenatore italiano dell’epoca dei Medici. I termini «truculento» e «saturnino» mi sembrarono quelli più adatti a descrivere il volto di Lucas Coronado.
Osservandolo mentre era seduto in terra e teneva il pezzo di legno con i piedi, mi accorsi che le ossa delle sue gambe erano così lunghe che le ginocchia gli arrivavano all’altezza delle spalle. Quando ci avvicinammo, smise di lavorare e si alzò. Era più alto di Jorge Campos e magro come un chiodo.
Si infilò i suoi guaraches, come gesto di rispetto nei nostri confronti, almeno credo.
«Accomodatevi pure» ci invitò, senza esibire l’ombra di un sorriso. Ebbi la strana sensazione che Lucas Coronado non fosse capace di sorridere. «A che cosa devo l’onore di questa visita?» domandò a Jorge Campos.
«Ti ho portato questo giovanotto che vuole farti qualche domanda a proposito della tua arte» gli rispose con estrema condiscendenza. «Gli ho assicurato che avresti risposto con la massima sincerità.»
«Non c’è problema» mi tranquillizzò Lucas Coronado, squadrandomi con il suo sguardo gelido.
Si mise poi a parlare in una lingua che immaginai essere Yaqui. Lui e Jorge Campos si immersero in una conversazione animata che si protrasse a lungo, comportandosi entrambi come se io non fossi esistito.
«C’è un contrattempo, roba di poco conto» mi informò a un tratto Campos.
«Lucas mi ha appena detto che per lui questo è un periodo pieno di impegni, anche perché si stanno avvicinando le feste, quindi non può soddisfare tutte le tue curiosità. In ogni caso, lo farà di certo un’altra volta.»
«Sì, certo, un’altra volta ...» mi promise Lucas Coronado in spagnolo.
«Dobbiamo interrompere la nostra visita, ma ti riporterò qui appena possibile» aggiunse Jorge Campos.
Mentre stavamo per andarcene, sentii il bisogno di esprimere a Lucas Coronado la mia ammirazione per il modo stupendo in cui lavorava, utilizzando le mani e i piedi. Lui mi guardò come se fossi impazzito, spalancando gli occhi per la sorpresa.
«Non hai mai visto nessuno preparare una maschera?» sibilò a denti stretti. «Da dove arrivi, da Marte?»
Sentendomi uno stupido, cercai di spiegargli che la sua tecnica rappresentava per me una novità assoluta, in compenso lui sembrava deciso a darmi una botta in testa. Jorge Campos mi spiegò in inglese che con i miei commenti avevo offeso Lucas Coronado, il quale aveva inteso le mie parole di apprezzamento come una presa in giro mal celata della sua povertà. 'tutto ciò che avevo detto gli era sembrato l’affermazione sarcastica della sua miseria e incapacità.
«Ma è esattamente il contrario ... io credo che il suo lavoro sia splendido!»
«Non azzardarti a dirgli niente del genere» ribatté Jorge Campos. «Questa gente è abituata a dispensare e a ricevere insulti in un modo celato. Crede che sia bizzarro che tu lo denigri senza nemmeno conoscerlo e lo prenda in giro perché non può permettersi un tornio che regga le sue sculture!»
Non sapevo più come comportarmi. Rovinare i rapporti con il mio unico contatto era l’ultima cosa al mondo che volevo. Jorge Campos sembrava consapevole del mio tormento.
«Compra una delle sue maschere» mi suggerì.
Gli confidai che avevo a malapena i soldi per comperare il cibo e la benzina e che avevo intenzione di arrivare a Los Angeles in una tirata unica, senza fare soste.
«Allora dagli la tua giacca in pelle» mi consigliò con un tono pratico e fiducioso al tempo stesso. «In caso contrario, lo farai infuriare e tutto quello che si ricorderà di te saranno i tuoi insulti. Non raccontargli che le sue maschere sono bellissime, comprane una e basta.»
Quando proposi a Lucas Coronado lo scambio, mi rivolse un sorriso soddisfatto: prese la giacca, se la infilò e si diresse verso la casa. Prima di entrare eseguì alcuni movimenti strani, si inginocchiò davanti a una sorta di altare religioso e agitò le braccia, come se volesse stiracchiarsi e sfregò poi le mani sui lati della giacca.
Dopo essere entrato nell'abitazione, uscì con in mano un pacchetto avvolto in fogli di giornale, che si affrettò a porgermi. Avrei voluto chiedergli qualcosa, ma lui si scusò, dicendo che doveva lavorare e che io avrei potuto tornare un’altra volta.
Durante il ritorno a Guaymas, Jorge Campos mi chiese di aprire il fagotto perché voleva essere sicuro che il suo amico non mi avesse imbrogliato. Non avevo alcuna intenzione di assecondarlo, dato che la mia unica preoccupazione era quella di dover tornare ad affrontare Lucas Coronado. Mi sentivo risollevato all’idea di andarmene.
«Devo assolutamente vedere che cos’hai.» Il mio compagno non voleva saperne di cedere. «Ti prego, ferma la macchina. Per nessuna ragione al mondo posso mettere in pericolo i miei clienti. Tu mi hai pagato affinché ti rendessi un servizio. Quell’uomo è un vero sciamano e quindi molto pericoloso. Poiché l’hai offeso, può darsi che ti abbia dato un oggetto stregato e in tal caso occorre seppellirlo subito, in questo stesso luogo.»
Assalito da un’ondata di nausea, mi fermai e con la massima cautela presi il pacchetto incriminato. Jorge Campos me lo strappò di mano e l'aprì: conteneva tre splendide maschere tradizionali Yaqui. Con aria casuale e del tutto disinteressata commentò che avrei dovuto regalargliene una. Dato che non mi aveva ancora accompagnato dal vecchio, pensai che valesse la pena di restare in buoni rapporti con lui e gliela cedetti volentieri.
«Se posso scegliere, vorrei questa...»
Gli dissi di prenderla pure. Quelle maschere non avevano per me alcun significato: avevo ottenuto quello che mi interessava e gli avrei dato anche le altre due , se non mi fosse venuta voglia di mostrarle ai miei amici antropologi.
«Non sono niente di straordinario, è roba che puoi comperare in qualunque negozio della città» dichiarò. «Da queste parti le vendono ai turisti.»
Avevo visto le maschere Yaqui in vendita nel paese che erano a dir poco grossolane rispetto a quelle che avevo appena acquistato. E come se non fosse bastato, Jorge Campos aveva preso la più bella.
Lo lasciai in città e mi diressi poi verso Los Angeles. Prima di salutarci, mi ricordò che in pratica gli dovevo duemila dollari perché si sarebbe messo subito all’opera, pagando e trafficando per permettermi di incontrare il vecchio.
«Credi che la prossima volta che ci vedremo sarai in grado di sborsare duemila dollari?» mi chiese con innegabile audacia.
La sua domanda mi mise in una posizione terribile. Temevo infatti che se gli avessi detto la verità e cioè che dubitavo di riuscirei, mi avrebbe abbandonato: per me sarebbe stato un guaio, perché ritenevo che, nonostante la sua evidente avidità, fosse lui il mio cerimoniere.
«Farò del mio meglio per mettere insieme il denaro» gli risposi, ostentando una certa indifferenza.
«Mettiti d'impegno, ragazzo mio» ribatté deciso, quasi seccato. «Per organizzare questo incontro dovrò anticipare del denaro e quindi ho bisogno di conferme immediate da parte tua. So che sei una persona seria. Quanto vale la tua macchina? Hai il foglietto rosa?»
Gli dissi quanto valeva la mia auto, confermandogli che possedevo il foglietto, ma lui sembrò soddisfatto solo quando gli promisi che in occasione della mia prossima visita gli avrei portato il contante.
Cinque mesi dopo tornai a Guaymas per vedere Jorge Campos. All’epoca duemila dollari erano una cifra notevole, soprattutto per uno studente. Pensai che se avesse accettato un pagamento rateale, avrei potuto impegnarmi in tal senso.
Non riuscii a trovarlo da nessuna parte e chiesi spiegazioni al padrone del ristorante, che si mostrò stupito quanto me per la sua sparizione.
«È semplicemente scomparso» mi disse. «Sono sicuro che è tornato in Arizona o in Texas, dove aveva certi affari.»
Approfittai dell'occasione per andare da Lucas Coronado. Arrivai a casa sua verso mezzogiorno, ma lui non c’era. Chiesi ai vicini se sapevano dove avrebbe potuto trovarsi, ma loro si limitarono a guardarmi con aria ostile, senza degnarmi di una risposta. Me ne andai e tornai verso sera senza aspettarmi nulla, anzi, ero pronto a ripartire subito per Los Angeles. E invece, con mia grande sorpresa, incontrai Lucas Coronado, che si mostrò incredibilmente amichevole ed espresse la sua piena approvazione vedendomi arrivare senza Jorge Campos, che lui giudicava un vero rompiscatole, un indiano Yaqui rinnegato che sfruttava i suoi fratelli.
Gli diedi alcuni doni che avevo portato apposta per lui e acquistai tre maschere, un bastone deliziosamente intarsiato e un paio di sonagli fatti con i bozzoli di alcuni insetti del deserto da portare alle caviglie, che gli Yaqui indossavano nelle loro danze rituali. Lo portai poi a Guaymas, dove gli offrii la cena.
Rimasi nella zona altri cinque giorni, incontrandolo quotidianamente e lui mi fornì una quantità infinita di informazioni sugli Yaqui, la loro storia e la loro organizzazione sociale, oltre che sul significato e la natura delle loro cerimonie. R lavoro di raccolta dei dati sul campo si stava rivelando così divertente, che ero riluttante a chiedergli se sapeva qualcosa sul conto del vecchio, ma alla fine mi decisi e gli domandai se conosceva quello che Jorge Campos aveva definito un potente sciamano. Con evidente perplessità mi rispose che, per quanto ne sapeva, in quella zona non era mai vissuto un tizio del genere, e Jorge Campos era un imbroglione che voleva solo fregarmi i soldi.
Sentirgli negare in quel modo l’esistenza del vecchio mi fece un effetto terribile e inatteso: in quel preciso istante mi resi conto che in realtà non mi importava un accidente del lavoro di raccolta dei dati sul campo, volevo solo ritrovare quel tizio. Sapevo che l’incontro con l'anziano sciamano aveva rappresentato il culmine di qualcosa che non aveva nulla a che fare con i miei desideri, le mie aspirazioni e le mie idee di antropologo.
Più di ogni altra cosa al mondo volevo sapere chi diavolo era. Privo di qualunque freno inibitorio e in preda a un'implacabile frustrazione, mi misi a urlare e imprecare, battendo i piedi per terra. Sbalordito dalla mia esibizione, Lucas Coronado mi guardò con aria sbalordita e scoppiò in una sonora risata. Non immaginavo che sapesse ridere. Mi scusai per la mia esplosione di rabbia e sconforto, dicendogli che non riuscivo a spiegare il mio comportamento e sembrò comprendere il mio imbarazzo.
«Cose del genere accadono spesso da queste parti» commentò.
Non capivo a cosa si riferisse, ed essendo ancora terrorizzato dalla facilità con cui si offendeva, non osai chiedergli nulla in proposito. Gli Yaqui sembravano stare perennemente all’erta, cercando insulti che agli altri risultavano impercettibili.
«Nelle montagne circostanti vivono esseri magici capaci di influenzare la gente, facendola letteralmente impazzire: le persone si infuriano e danno in escandescenze e quando finalmente si calmano, esauste, non hanno la più pallida idea del motivo per cui si sono tanto arrabbiate.»
«Credi che la stessa cosa sia accaduta anche a me?»
«Senz'altro» mi rispose, deciso. «Fai il matto alla minima occasione, però di solito sai trattenerti. Oggi non ci sei riuscito e sei esploso senza alcun motivo.»
«E invece c’è un motivo» ribattei. «Me ne sono reso conto solo adesso: quel vecchio è alla base di tutti i miei sforzi.»
Lucas Coronado rimase zitto, assorto nei suoi pensieri e si mise poi a camminare avanti e indietro.
«Conosci per caso qualche anziano che non sia originario di questa zona?» gli domandai.
Dal momento che non capì la mia domanda, gli spiegai che il vecchio indiano che avevo conosciuto era forse uno Yaqui che non viveva più nella sua zona d’origine, come Jorge Campos. Mi spiegò che, sebbene il cognome Matus fosse piuttosto diffuso da quelle parti, non conosceva nessun Matus che si chiamasse Juan. Sembrava piuttosto avvilito, ma all’improvviso ebbe un’intuizione e dichiarò che se quell’uomo aveva raggiunto una certa età, poteva darsi che avesse un altro nome e quindi quello che mi aveva fornito era fittizio.
«L’unico vecchio che conosco è il padre di Ignacio Flores» proseguì. «Ogni tanto viene da Mexico City a trovarlo. A pensarci bene, è suo padre ma non sembra così vecchio, anche se deve esserlo per forza, perché Ignacio è vecchio eppure suo padre sembra più giovane ...»
L’idea lo fece ridere di gusto. A quanto pareva, fino a quel momento non aveva mai pensato a quanto quell’uomo sembrava giovane. Continuava a scuotere il capo, incredulo, mentre io ero fuori di me dalla gioia.
«È lui!» strillai, senza nemmeno sapere il perché.
Lucas Coronado non aveva idea di dove vivesse Ignacio Flores, ma si mostrò molto gentile e mi propose di andare con lui in una cittadina Yaqui nelle vicinanze, dove riuscì a trovarlo.
Ignacio Flores, massiccio e corpulento, doveva avere circa sessantacinque anni. Lucas Coronado mi aveva avvisato che, da ragazzo, quell'omone era stato un soldato di carriera e aveva ancora un incedere militaresco. Sfoggiava un enorme paio di baffi che, uniti alla fierezza dello sguardo, lo facevano apparire come lo stereotipo del militare feroce. Di carnagione scura, aveva i capelli nerissimi nonostante l’età. La sua voce decisa e potente pareva abituata solo a impartire ordini. Ebbi l’impressione che avesse prestato servizio in cavalleria: camminava infatti come se indossasse ancora gli speroni e per chissà quale motivo, quando si muoveva, sentivo davvero il tintinnio del metallo.
Lucas Coronado mi presentò, spiegandogli che ero venuto dall’Arizona per vedere suo padre, che avevo conosciuto a Nogales. Ignacio Flores non pareva affatto sorpreso.
«Sì, certo, mio padre viaggia molto» si limitò a commentare e, senza altri preliminari, ci spiegò dove avremmo potuto trovarlo. Non ci accompagnò e giudicai il suo gesto una manifestazione di grande gentilezza. Dopo essersi scusato si allontanò marciando, quasi stesse tenendo il passo in una parata.
Pensavo di andare a casa dell’anziano sciamano in compagnia di Lucas Coronado, che invece rifiutò cortesemente e mi chiese di riportarlo a casa.
«Credo che tu abbia trovato la persona che stavi cercando ed è meglio che resti da solo» mi spiegò.
L’incredibile gentilezza degli indiani Yaqui e la loro innegabile fierezza non mancavano mai di stupirmi. Me li avevano descritti come un branco di selvaggi che uccidevano senza esitare, ma per quanto mi riguardava la loro caratteristica più evidente era invece la cortesia, unita al massimo rispetto.
Andai a casa del padre di Ignacio Flores e lì trovai l’uomo che avevo tanto cercato.
«Chissà perché Jorge Campos mi ha mentito, dichiarando di conoscerti» esclamai al termine del mio racconto.
«Non ti ha affatto mentito» mi corresse don Juan, mostrando di averlo già perdonato.
«E non si è nemmeno presentato sotto una luce diversa: ha semplicemente creduto che tu fossi una preda facile e stava per imbrogliarti. Non è però riuscito a portare a compimento il suo piano perché l’infinito ha avuto la meglio su di lui. Sai che è scomparso poco dopo il vostro incontro e nessuno l’ha più visto? Jorge Campos ha avuto per te una notevole importanza. Nei rapporti intercorsi tra voi puoi scorgere una sorta di guida, perché egli era una rappresentazione della tua vita.»
«E perché mai? Io non sono un truffatore!» protestai.
Don Juan scoppiò a ridere come se sapesse qualcosa che ignoravo. Senza rendermene conto mi trovai nel bel mezzo di una dettagliata spiegazione delle mie azioni, dei miei ideali e delle mie aspettative. Con lo stesso fervore con cui stavo illustrando la mia personalità uno strano pensiero mi spingeva a prendere in considerazione il fatto che, in certe circostanze, assomigliavo davvero a Jorge Campos. Questa idea mi risultava però inammissibile, e concentrai tutta la mia energia per dimostrarne l’assurdità. Tuttavia, se guardavo nel profondo del mio essere, non mi interessava affatto scusarmi per la mia eventuale somiglianza con lui.
Quando gli confidai i miei dubbi, don Juan rise così tanto da rischiare più volte di soffocare.
«Se fossi al tuo posto, ascolterei la mia voce interiore. Sarebbe ben diverso se tu fossi come Jorge Campos, e cioè un imbroglione! Lui era un sempliciotto, tu sei molto più complicato. Questo è il potere del racconto, questo è il motivo per cui gli sciamani lo usano: ti mette in contatto con un aspetto del tuo essere che non immaginavi nemmeno esistesse.»
In quell’istante desiderai andarmene. Don Juan sapeva esattamente come mi sentivo.
«Non dare retta a quella voce superficiale che ti fa arrabbiare» mi ordinò deciso. «Devi invece prestare ascolto a quella più profonda che ti guiderà da ora in avanti, la voce che ride. Ascoltala e ridi con lei. Ridi! Ridi!»
Le sue parole erano una sorta di comando ipnotico al punto che, contro la mia volontà, mi misi a ridere. Non ero mai stato così felice e mi sentii libero e privo di maschere.
«Racconta più volte a te stesso la storia di Jorge Campos e scoprirai che è per te una fonte di ricchezza infinita» proseguì. «Ogni dettaglio fa parte di una mappa. Dopo che abbiamo varcato una certa soglia è la natura stessa dell’infinito a porre un progetto davanti a noi.»
Mi osservò a lungo, senza limitarsi a spiarmi come faceva di solito, ma fissandomi attentamente.
«Jorge Campos non ha potuto evitare di compiere un certo gesto: ti ha infatti messo in contatto con l’altro uomo, Lucas Coronado, che per te è importante come lui, o forse ancora di più.»
Raccontando la storia di quei due individui, mi resi conto di aver trascorso più tempo con Lucas Coronado che con Jorge Campos: però i nostri discorsi, inframmezzati da lunghissimi silenzi, non erano stati altrettanto intensi. Lucas Coronado non era loquace e, non so come facesse, ma quando stava zitto riusciva a far tacere anche me.
«Lucas Coronado è l’altra parte della tua mappa» riprese don Juan. «Non ti sembra strano che sia uno scultore, proprio come te, un artista di grande sensibilità alla ricerca di un mecenate, come lo eri tu un tempo? Lui sperava di trovare un finanziatore e tu volevi invece una donna amante dell’arte, disposta a sostenere la tua creatività.»
Mi trovai dilaniato tra l’assoluta certezza di non aver mai parlato a don Juan di questo lato della mia esistenza e la consapevolezza che in realtà era tutto vero. Non riuscivo a immaginare come avesse fatto a saperlo e di nuovo provai l’impulso di andarmene. Ma, ancora una volta, l’impulso fu soffocato da una voce che proveniva da un luogo remoto e interiore. Senza venire in alcun modo stimolato, scoppiai in una sonora risata. A un livello profondo, non me ne fregava un bel nulla di scoprire come avesse fatto don Juan a procurarsi quelle informazioni: il fatto che ne fosse in possesso e le avesse esibite in un modo così raffinato ma cospiratore, era una mossa che non potevo fare a meno di ammirare. Non aveva quindi alcuna importanza che la parte più superficiale del mio essere si fosse infuriata e volesse andarsene.
«Molto bene» commentò don Juan, assestandomi una pesante pacca sulla spalla. «Molto bene.»
Rimase per un attimo pensieroso, come se stesse vedendo qualcosa di invisibile.
«Jorge Campos e Lucas Coronado sono le due estremità di un asse» riprese. «L’asse sei tu: da una parte sei un volgare mercenario privo di scrupoli e di vergogna, capace di badare solo a te stesso, odioso e indistruttibile. Dall’altra sei invece un artista ipersensibile e tormentato, debole e vulnerabile. Questa avrebbe dovuto essere la mappa della tua esistenza, se non fosse apparsa un’altra possibilità, quella che si è aperta dopo che hai varcato la soglia dell’infinito. Mi hai cercato e mi hai trovato. Così hai varcato la soglia. L’intento dell’infinito mi ha detto di cercare qualcuno come te. Ti ho trovato superando a mia volta la soglia.»
A quel punto la nostra conversazione finì e don Juan si chiuse in uno dei suoi soliti periodi di silenzio totale. FU solo alla fine della giornata, quando tornammo a casa sua e ci accomodammo sotto la ramada per riprenderei dopo la lunga camminata, che si decise finalmente a parlare.
«Nel racconto che mi hai fatto di tutto ciò che è accaduto fra te, Jorge Campos e Lucas Coronado ho trovato un elemento di grande disturbo e spero che anche tu l'abbia notato. Si tratta di un presagio che indica la lì ne di un periodo, nel senso che quello che c’era non può rimanere. Gli elementi che ti hanno portato fino a me sono molto vaghi, incapaci di stare da soli. È questo che ho ricavato dal tuo racconto.»
Mi ricordai che un giorno don Juan mi aveva rivelato che Lucas Coronado era un malato terminale e il suo male lo stava lentamente consumando.
«Tramite mio figlio Ignacio gli ho fatto sapere cosa deve fare per curarsi, ma lui pensa che siano tutte sciocchezze e non vuole nemmeno sentirne parlare. Non è colpa sua: l’intero genere umano non vuole sentire nulla. La gente presta ascolto solo a quello che vuole sentirsi dire.»
Mi ricordo che in quell’occasione ero riuscito a farmi dire che cosa dovevo riferire a Lucas Coronado per aiutarlo ad alleviare le sofferenze fisiche e l’angoscia che lo attanagliavano. Don Juan mi spiegò ogni cosa ma aggiunse che se quell’uomo avesse voluto, avrebbe potuto facilmente curarsi da solo. Quando gli riferii il messaggio di don Juan, Lucas Coronado mi guardò come se fossi impazzito; si lanciò poi nella descrizione brillante (e, se fossi stato uno Yaqui, carica di insulti) di un poveretto seccato a morte dall’insistenza gratuita di qualcuno ... Pensai che solo un indiano Yaqui poteva essere così sottile.
«Queste cose non mi aiutano affatto» dichiarò alla fine in tono di sfida, furioso per la mia mancanza di sensibilità. «In realtà non importa, tutti noi dobbiamo morire. Non credere però che io abbia perso ogni speranza. Sto per farmi dare del denaro dalla banca governativa, mi concederanno un anticipo sul raccolto così potrò permettermi di acquistare qualcosa che mi guarirà subito: si chiama Vì-ta-mi-nol.»
«Che cos’è?»
«Lo pubblicizzano alla radio» mi spiegò con l'innocenza di un bambino. «Cura qualunque cosa e viene raccomandato a chi non mangia tutti i giorni carne, pesce o cacciagione, è adatto a tutti quelli che, come me, sopravvivono a stento.»
Spinto dal desiderio di aiutarlo, commisi l’errore più imperdonabile che potessi fare in una comunità di creature ipersensibili come gli Yaqui: gli offrii il denaro per acquistare il Vitaminol. Il suo sguardo gelido era la prova lampante di quanto lo avessi insultato. La mia stupidità fu imperdonabile. In tono sommesso mi rispose che era in grado di comperarselo da solo.
Quando tornai da don Juan, avevo una gran voglia di piangere. La mia impetuosità mi aveva,tradito.
«Non sprecare la tua energia preoccupandoti per cose del genere» disse freddamente il vecchio sciamano. «Lucas Coronado è bloccato in un circolo vizioso, come te e come tutti. Ha scoperto il Vitaminol, che crede capace di curare ogni cosa e risolvere quindi i suoi problemi. Per ora non se lo può permettere, ma spera prima o poi di riuscirei.»
Don Juan mi rivolse uno sguardo penetrante. «Ti ho già detto che i gesti di Lucas Coronado sono la mappa della tua vita: credimi, lo sono davvero. Lui ti ha indicato il Vitaminol, e lo ha fatto con una potenza e un dolore tali da colpirti e farti piangere.»
Si interruppe, concedendosi una pausa lunga ed efficace. «E non venire a raccontarmi che non capisci cosa intendo, perché in un modo o nell’altro ognuno di noi ha la sua versione personale del Vitaminol.»
Chi era in realtà don Juan Matus?
La parte del racconto sul nostro incontro che don Juan non voleva sentire si riferiva alle emozioni e ai sentimenti che avevo provato entrando in casa sua in quel giorno fatidico. Ciò che avevo sentito era un enorme contrasto tra le mie aspettative e la realtà della situazione, oltre alla reazione provocata dall’accavallarsi di quei concetti che mi sembravano i più strani che avessi mai sentito.
Quando cercai di parlargliene, lui tagliò corto: «Questa è una confessione e non può essere inserita in un elenco di eventi.»
«Ti sbagli di grosso don Juan» ribattei, ma mi interruppi di colpo perché il modo in cui mi guardò mi fece capire che in effetti aveva ragione. Qualunque cosa avessi detto sarebbe sembrata una sorta di lusinga, un modo più o meno evidente di accattivarmi le sue simpatie. Ciò che era avvenuto durante il nostro primo incontro aveva per me un’importanza trascendentale ed era stato un evento di estremo rilievo.
Quando ci eravamo conosciuti al deposito degli autobus di Nogales, in Arizona, mi era successo qualcosa di strano di cui mi ero reso conto in modo attutito a causa della mia preoccupazione di presentarmi bene.
Avevo voluto far colpo su don Juan e, per riuscirei, mi ero impegnato a «vendermi» nel miglior modo possibile. solo qualche mese dopo che cominciò ad affiorare uno strano residuo.
Un bel giorno, senza che io avessi fatto nulla per stimolare tale ricordo, all’improvviso mi tornò in mente con incredibile chiarezza qualcosa che mi era sfuggito durante il nostro incontro. Quando don Juan mi aveva interrotto, impedendomi di dirgli il mio nome, mi aveva fissato negli occhi, stordendomi. Avrei potuto dirgli un’infinità di altre cose sul mio conto, dissertando per ore sulle mie conoscenze e sul mio valore, se la sua occhiata non mi avesse completamente zittito.
Ala luce di questa presa di coscienza, riconsiderai tutto ciò che mi era accaduto in quell’occasione, giungendo alla conclusione di aver sperimentato l’interruzione di chissà quale misterioso flusso, un flusso che mi faceva andare avanti e che non era mai stato bloccato in precedenza, perlomeno non come aveva fatto don Juan. Quando cercavo di descrivere ai miei amici le sensazioni che avevo provato a livello fisico, uno strano sudore mi appariva sul corpo intero. Era identico a quello che mi aveva ricoperto nell’attimo in cui don Juan mi aveva rivolto quello sguardo, rendendomi incapace non solo di parlare, ma anche di formulare il benché minimo pensiero.
In seguito meditai a lungo sulla sensazione fisica provocata da quell’interruzione, senza trovare una spiegazione razionale. Per un certo periodo pensai che don Juan dovesse avermi ipnotizzato, ma mi ricordai di non aver ricevuto alcun comando ipnotico e che lui non aveva fatto qualche gesto strano per catturare la mia attenzione. In effetti si era limitato a guardarmi di sottecchi, ma il suo sguardo era stato tale da darmi l’impressione che mi stesse fissando da un pezzo, con l’effetto di ossessionarmi e scombussolarmi profondamente a livello fisico.
Quando finalmente ritrovai don Juan, per prima cosa notai che non era affatto come me l’ero immaginato per tutto il tempo in cui avevo cercato di rintracciarlo. Mi ero infatti costruito un’immagine dell’uomo che avevo incontrato al deposito degli autobus, perfezionandola ogni giorno con dettagli che via via mi sembrava di ricordare. Nella mia mente don Juan era un vecchio ancora molto forte e scattante, ma fragile, al tempo stesso. Ero convinto che avesse capelli bianchi e corti e la carnagione scurissima. L'uomo che avevo davanti era massiccio e muscoloso e si muoveva con una certa agilità, ma non velocemente; il suo passo era deciso e al tempo stesso leggero. Emanava vitalità e determinazione. La figura che avevo messo insieme non era per nulla in sintonia con quella reale: tanto per cominciare, aveva i capelli più lunghi e meno bianchi di quanto avessi immaginato e la carnagione non era così scura. Avrei giurato che avesse i lineamenti da rapace per via dell’età e invece aveva la faccia piena, quasi tonda. A prima vista la caratteristica più notevole dell’uomo che mi stava guardando, erano gli occhi scuri che brillavano di una luce particolare e inafferrabile.
Una cosa che avevo completamente rimosso era il suo aspetto da atleta, con spalle larghe e stomaco piatto: sembrava saldamente piantato sul terreno. Le sue ginocchia non erano affatto deboli e le braccia non presentavano il minino tremore. Fino a quel momento mi ero immaginato che gli tremassero leggermente la testa e le braccia, come se fosse stato incerto e nervoso ed ero convinto che fosse alto circa un metro e settanta, sette centimetri in meno di quanto fosse in realtà.
Don Juan non parve stupito di vedermi. Avrei voluto dirgli quanto era stato difficile rintracciarlo e sarei stato felice se si fosse complimentato con me per i miei sforzi titanici, ma lui si limitò a ridere, prendendomi in giro.
«I tuoi sforzi non sono importanti, ciò che conta è che hai trovato la mia casa. Siediti pure» mi invitò, indicandomi una delle casse poste sotto la sua ramada. La pacca che mi diede sulla schiena non aveva nulla di amichevole.
Era come se mi avesse dato una sberla, anche se in realtà non c’era stato alcun contatto fisico. ll suo gesto creò una sensazione strana e incerta che apparve e scomparve prima che potessi afferrare cosa fosse. Ciò che mi lasciò era invece uno strano senso di pace. Mi sentivo incredibilmente a mio agio, la mente chiara come un cristallo; non avevo aspettative o desideri e all’improvviso il solito nervosismo e le mani sudate che avevano caratterizzato da sempre la mia esistenza, erano spariti.
«Adesso capirai tutto ciò che sto per dirti» esordì, fissandomi negli occhi come aveva fatto al deposito degli autobus.
In condizioni normali avrei trovato la sua affermazione a dir poco pretestuosa e magari retorica, ma dopo aver sentito le sue parole, non potei fare a meno di garantirgli più volte e con la massima sincerità che avrei capito ogni singola cosa che mi avesse detto. Mi fissò di nuovo negli occhi con feroce intensità.
«Io sono Juan Matus» esordì, sedendosi su una cassa di legno proprio davanti a me. «Questo è il mio nome, e lo proclamo a voce alta perché, grazie a questo nome, sto creando un ponte che tu potrai attraversare per raggiungermi.»
Dopo avermi scrutato a lungo in silenzio, riprese a parlare.
«Sono uno sciamano. Appartengo a una dinastia di sciamani che dura da ventisette generazioni. E sono il nagual della mia generazione.»
Mi spiegò che l’individuo predominante al’interno di un gruppo di sciamani veniva chiamato nagual, un termine generico che, nell’ambito di ogni singola generazione, veniva dato a chi aveva una specifica configurazione energetica, che lo distingueva dagli altri. Non era una qualifica in qualche modo legata a concetti di superiorità o inferiorità: era legata alla capacità di essere responsabili.
«Solo il nagual possiede la capacità energetica di essere responsabile del destino del suo gruppo di veggenti, che è a conoscenza di tale condizione e l’accetta. Il nagual può essere un uomo o una donna. Nel tempo degli sciamani che fondarono la mia stirpe, i nagual erano donne. Il loro pragmatismo naturale, dovuto alla loro essenza femminile, condusse la mia stirpe nel baratro della pratica da cui a malapena riuscì a riemergere. I maschi presero poi il sopravvento e spinsero la mia stirpe nell’abisso dell'imbecillità da cui sta riaffiorando solo adesso con grande fatica.
«Sin dai tempi del nagual Lujan, che visse circa duecento anni fa, si è verificato uno sforzo congiunto, un’opera comune: il nagual uomo porta la sobrietà, il nagual donna porta l’innovazione.»
A questo punto avrei voluto chiedergli se con lui agiva una donna nagual, ma ero così concentrato che non riuscii nemmeno a formulare la domanda. Fu egli stesso a porsela al mio posto.
«Vuoi sapere se c’è una donna nagual nella mia vita? No, non c’è. Sono uno sciamano solitario, anche se ho il mio gruppo di veggenti che in questo momento non sono però disponibili.»
Con una forza incontenibile nella mia mente apparve un pensiero preciso e all’improvviso ricordai che a Yuma mi avevano raccontato che don Juan era solito andarsene in giro con un branco di messicani dediti alla stregoneria.
«Essere uno sciamano non significa essere un abile stregone, e nemmeno lavorare per incantare la gente o essere posseduti dai demoni: vuol dire invece raggiungere un livello di consapevolezza che rende possibili cose ritenute invece inconcepibili. Il termine stregoneria non basta a esprimere quello che fanno gli sciamani così come la parola sciamanesimo spiega ben poco. Le azioni degli sciamani avvengono esclusivamente nel regno dell’astratto, dell’impersonale; essi lottano per raggiungere un obiettivo che non ha nulla a che spartire con le vicende degli uomini normali. L'aspirazione che li anima è quella di raggiungere l’infinito e di esserne consapevoli» riprese don Juan.
Aggiunse poi che gli sciamani avevano 0 compito di affrontare l’infinito, nel quale si avventuravano ogni giorno così come i pescatori si avventuravano in mare. Era un lavoro così opprimente e difficile che gli sciamani dovevano dichiarare il loro nome prima di affrontarlo. Mi ricordò che a Nogales aveva pronunciato il suo nome, prima che tra noi potesse avvenire qualunque interazione. In questo modo aveva manifestato la sua individualità davanti all’infinito.
Riuscii a capire con incredibile chiarezza tutto ciò che mi stava spiegando e non dovetti mai chiedergli ulteriori delucidazioni. Il fatto che la mia mente fosse diventata così acuta avrebbe dovuto sorprendermi e invece mi parve del tutto normale. Mi resi conto di essere sempre stato lucidissimo e di aver recitato la parte dello sciocco a beneficio degli altri.
«Senza che tu lo sapessi, ti ho iniziato a una ricerca tradizionale» mi informò. «Sei l’uomo che stavo cercando; la mia ricerca è finita quando ti ho trovato e la tua è terminata quando mi hai ritrovato adesso.»
Don Juan mi spiegò che, in qualità di nagual della sua generazione, era alla ricerca di un individuo dotato di una precisa configurazione energetica, adatta ad assicurare la continuità della sua stirpe. Mi disse che in un preciso istante della loro esistenza, tutti i nagual delle ventisette generazioni precedenti avevano affrontato l’esperienza più terrificante della loro vita: la ricerca di un successore.
Continuando a fissarmi negli occhi, dichiarò che quello che trasformava gli uomini comuni in sciamani era la capacità di percepire l’energia direttamente così come fluisce nell’universo e quando uno sciamano percepisce un essere umano in questo modo, vede una palla luminosa o una figura a forma di uovo. Secondo don Juan, gli uomini non solo hanno la capacità di vedere l’energia direttamente così come fluisce nell’universo ma la vedono effettivamente anche se non ne sono consapevoli.
Fu allora che spiegò la differenza principale tra gli sciamani e gli esseri umani, quella cioè tra un normale stato di consapevolezza e la particolare condizione in cui si è deliberatamente consapevoli di qualcosa. Secondo don Juan, tutti gli esseri umani possiedono la consapevolezza che consente loro di vedere direttamente l’energia, ma solo gli sciamani sono deliberatamente consapevoli di vederla. In seguito definì la consapevolezza come energia e l’energia come un flusso costante, una vibrazione luminosa che si muove di propria iniziativa senza mai fermarsi. Don Juan affermò che quando uno sciamano vede un essere umano, questi gli appare come un insieme di campi energetici tenuti insieme dalla forza più misteriosa dell’universo: una forza coesiva, aggregante e vibrante che unisce i campi energetici in un’unità coesa. Spiegò anche che il nagual era un tipo particolare di sciamano, di quelli che nascono una volta sola per generazione e che non appare agli altri sciamani sotto forma di una singola sfera luminosa, ma come fusione di due sfere di luce che si sovrappongono.
«Questa duplicità permette al nagual di compiere manovre che risultano difficili a un normale sciamano. Per esempio, il nagual conosce la forza che ci lega come unità coese: se per un istante dovesse trovarsi nel flusso di questa forza o focalizzare tutta la sua attenzione, potrebbe stordire il suo interlocutore. Quel giorno al deposito degli autobus ti ho fatto questo perché volevo interrompere quel fuoco di fila di io, io, io, io, io. Volevo che mi trovassi e lasciassi perdere tutte le altre stronzate.»
«Secondo gli sciamani della mia stirpe» continuò don Juan «la presenza di un essere doppio (il nagual) è sufficiente a spiegare le cose. Può sembrare strano, ma tale presenza spiega le cose in maniera velata. Mi è successo quando ho incontrato il nagual Julian, mio maestro. La sua presenza mi ha confuso per anni: ogni volta che mi trovavo vicino a lui, riuscivo a pensare con estrema chiarezza, ma non appena si allontanava, tornavo a essere l’idiota di sempre.
«Ho avuto il privilegio di incontrare realmente e avere a che fare con due nagual. Su richiesta del nagual Elias, maestro del nagual Julian, andai a vivere con lui per sei anni. Fu lui ad addestrarmi, se così si può dire. E stato un privilegio molto raro, perché ho avuto la possibilità di vedere da vicino cos’è un nagual. B nagual Elias e il nagual Julian erano due uomini dal temperamento profondamente diverso. B nagual Elias era più tranquillo, perso nell’oscurità del suo silenzio. B nagual Julian era invece pomposo e logorroico, sembrava vivere per abbagliare le donne; nella sua vita giravano più donne di quante si potesse immaginare. Al tempo stesso, quei due erano incredibilmente simili: dentro di loro non c’era nulla. Erano vuoti. B nagual Elias non era nient’altro che una raccolta di storie sbalorditive e terrificanti che parlavano di regioni sconosciute; il nagual Julian era invece una raccolta di storie esilaranti, che avrebbero fatto sbellicare dalle risate chiunque. Ogni volta che cercavo di individuare in loro l’uomo, il vero uomo, come avrei potuto riconoscerlo in mio padre o in tutti quelli che conoscevo, non trovavo nulla. Al posto di una persona reale c’era un mucchio di storie di gente sconosciuta. Ognuno dei due sciamani aveva una precisa predisposizione, ma il risultato finale era lo stesso: il vuoto, uno spazio deserto che non rifletteva il mondo, ma l’infinito.»
Don Juan continuò poi a spiegarmi che dal momento in cui si varca una particolare soglia nell’infinito, volenti o nolenti (così come era accaduto a me), tutto ciò che accade in seguito non appartiene più esclusivamente al proprio dominio, ma entra invece a far parte del regno dell’infinito.
«Quando ci siamo incontrati in Arizona, ognuno di noi ha varcato una soglia speciale, che non è stata decisa da noi ma dall’infinito» aggiunse. «Ilinfinito è tutto ciò che ci circonda.» Così dicendo fece un ampio gesto con le braccia. «Gli sciamani della mia stirpe lo chiamano infinito, lo spirito, l’oscuro mare della consapevolezza e dicono che si tratta di qualcosa che esiste là fuori e regola il corso della nostra esistenza.»
Riuscivo davvero a capire tutto ciò che mi stava dicendo e, al tempo stesso, non avevo idea di che diavolo stesse parlando. Gli chiesi se varcare quella soglia era stato un evento accidentale, nato in seguito a circostanze imprevedibili dominate dal caso. Rispose che i miei e i suoi passi erano guidati dall’infinito e che le circostanze che sembravano essere in balia del caso in realtà erano regolate dal lato attivo dell’infinito che chiamò intento.
«Noi due siamo stati messi insieme dall’intento dell’infinito» proseguì. «E impossibile determinare cosa sia questo intento dell’infinito, eppure c’è, ed è concreto e palpabile quanto noi. Gli sciamani dicono che è un tremore nell’aria. Essi hanno il vantaggio di sapere che il tremore nell’aria esiste e vi si abbandonano senza agitarsi oltre. Gli sciamani non si fermano a riflettere, a stupirsi, a speculare: sanno di avere la possibilità di fondersi con l’intento dell’infinito e semplicemente lo fanno.»
Niente avrebbe potuto sembrarmi più chiaro di quelle dichiarazioni. Per quanto mi riguardava, le parole di don Juan erano così evidenti che non mi sarei mai sognato di chiedermi per quale motivo frasi così assurde mi parevano del tutto razionali. Sapevo che quello che don Juan mi stava dicendo era vero ed ero pronto a confermare ogni singola affermazione: avevo infatti la sensazione di aver vissuto in prima persona tutto ciò di cui mi aveva finora parlato.
La nostra conversazione terminò ed ebbi la sensazione che dentro di me si stesse sgonfiando qualcosa. FU in quel preciso istante che pensai di essere impazzito. Ero stato accecato da un assurdo delirio e avevo perso il senso dell'oggettività. E proprio per quel motivo me ne andai di corsa, sentendomi profondamente minacciato da un nemico sconosciuto. Don Juan mi accompagnò alla macchina, del tutto consapevole di quanto stava accadendo dentro di me.
«Non preoccuparti» mi tranquillizzò, appoggiandomi una mano sulla spalla. «Non stai diventando matto, hai percepito solo un leggero colpetto di infinito.»
Con il passare del tempo fui in grado di confermare ciò che don Juan aveva detto a proposito dei suoi due maestri. Don Juan Matus era esattamente così come aveva descritto i due nagual. Ritengo di poter affermare che era una straordinaria mescolanza di entrambi: silenzioso e introspettivo da un lato, espansivo e divertente dall’altro. La descrizione più precisa del nagual che mi fece il giorno in cui ci ritrovammo, era connessa al loro vuoto interiore: quel vuoto non riflette il mondo, ma l'infinito.
Niente avrebbe mai potuto definire meglio don Juan.
Il suo vuoto rifletteva l'infinito. Non era uno spaccone, e non voleva nemmeno affermare a tutti i costi il suo ego, così come non aveva il bisogno di provare pentimento o rimorso. Il suo era il vuoto del guerriero-viaggiatore, maturato al punto tale da non dare più nulla per scontato, un guerriero-viaggiatore che non sottovaluta o sopravvaluta nulla. Un combattente tranquillo e disciplinato la cui grazia è così estrema che nessuno, per quanto cerchi di individuarla potrà mai scoprire la trama che tiene insieme tutta questa complessità.
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LA FINE DI UN’ERA
I profondi turbamenti della vita quotidiana
Andai a Sonora per incontrare don Juan. Dovevo discutere con lui l’evento più importante della mia giornata e avevo bisogno del suo consiglio. Giunto a casa sua, dopo averlo a malapena salutato, mi sedetti e diedi libero sfogo alla mia agitazione.
«Calma, calma» cercò di tranquillizzarmi. «Non può essere successo niente di così grave.»
«Che cosa mi sta capitando?» gli chiesi e la mia era una domanda puramente retorica.
«E opera dell’infinito» mi spiegò. «Il giorno in cui ci siamo incontrati è successo qualcosa alla tua percezione. Il tuo nervosismo è dovuto alla presa di coscienza subliminale del fatto che hai esaurito il tempo a tua disposizione: lo sai, ma non a livello razionale. Senti l’assenza del tempo e ciò ti rende impaziente. Lo so perché è successo anche a me e a tutti gli sciamani della mia stirpe. A un certo momento, un intero periodo della vita giungeva al termine. Adesso tocca a te. Hai semplicemente esaurito il tuo tempo.»
Mi chiese poi di fare un resoconto completo di tutto quello che mi era accaduto, specificando che doveva essere un racconto dettagliato; non si sarebbe accontentato di una descrizione appena abbozzata, voleva che gli spiegassi in maniera completa quello che mi stava preoccupando.
«Facciamo una bella chiacchierata secondo le regole, come dicono nel tuo mondo. Entriamo nel regno dei discorsi firmali» disse.
Aggiunse che gli sciamani dell'antico Messico avevano elaborato il concetto di discorso formale contrapposto a quello di discorso informale e li usavano entrambi come strumenti per insegnare e guidare i loro discepoli. I discorsi formali erano resoconti che gli sciamani facevano di tanto in tanto ai discepoli stessi e riguardavano tutto ciò che avevano detto o insegnato; i discorsi informali erano invece spiegazioni quotidiane che servivano a chiarire le cose facendo riferimento esclusivamente al fenomeno in analisi.
«Gli sciamani non tengono niente per sé» continuò. «Svuotare se stessi in questo modo è una pratica sciamanica che li porta ad abbandonare la fortezza dell’ego.»
Cominciai così la mia storia, rivelando le circostanze della mia vita che non mi avevano mai permesso di essere introspettivo. Da quanto potevo ricordare, la mia vita quotidiana era sempre stata colma fino all’orlo di problemi pratici che esigevano una soluzione immediata. Ricordo che il mio zio preferito aveva ammesso di essere rimasto sbalordito scoprendo che non avevo mai ricevuto un regalo per Natale o per il mio compleanno. Poco tempo prima che facesse quell'affermazione, ero andato a vivere con la famiglia di mio padre. Lo zio mi commiserò e giunse a scusarsi, anche se non c’entrava in alcun modo.
«Ragazzo mio, è orribile» mi disse, tremando per l’emozione. «Voglio che tu sappia che quando arriverà il momento di riparare questi torti, io sarò al cento per cento dalla tua parte.»
Continuava a insistere che avrei dovuto perdonare chi mi aveva fatto del male. Da quanto diceva, ebbi l’impressione che avrebbe voluto tanto che affrontassi mio padre e lo accusassi di indolenza e negligenza. Non riusciva a capire che a me non sembrava affatto di aver ricevuto un torto. Ciò che mi stava chiedendo era più adatto a una persona introspettiva, capace di reagire ai maltrattamenti psicologici che gli venivano fatti notare. Promisi a mio zio che ci avrei pensato sopra, ma non subito: in quel preciso istante la mia ragazza, che mi aspettava in salotto, mi stava disperatamente facendo cenno di sbrigarmi. Non ho mai avuto l’opportunità di ripensarci, ma lo zio deve averne discusso con mio padre, perché mi arrivò un dono proprio da parte sua. Era una pacchetto ben incartato, con tanto di nastro e un bigliettino che diceva: «Mi dispiace». Lo aprii in fretta e furia, animato dalla curiosità e da una certa ansia. Dentro trovai una scatola di cartone con uno splendido giocattolo: una barchetta con la carica a molla attaccata alla ciminiera. Era uno di quei giochi che usano i bambini quando fanno il bagno nella vasca. Mio padre si era dimenticato che avevo ormai quindici anni e che ero un uomo a tutti gli effetti.
Dato che avevo raggiunto gli anni della maturità ancora incapace di svolgere una seria introspezione, mi sembrò strano e insolito ritrovarmi un giorno in preda a una strana agitazione emozionale, che pareva aumentare sempre più. Cercai di ignorarla, attribuendola ai naturali processi della mente o del corpo che si verificano periodicamente, senza alcuna ragione apparente o forse innescati dai processi biochimici del corpo stesso. Provai a non pensarci, ma l’agitazione aumentava e la sua intensità mi spinse a credere di aver raggiunto un momento della vita in cui avevo bisogno di un cambiamento drastico. C’era in me qualcosa che esigeva una riorganizzazione dell’intera esistenza; questa spinta a sistemare ogni cosa era una condizione che ero solito provare in passato, ma che era svanita ormai da tempo.
Ero deciso a studiare antropologia e questo impegno era per me così forte che l’idea di abbandonare gli studi non fece mai parte del mio progetto di cambiamento totale. Non mi venne mai in mente di lasciare l’università per andare a fare qualcos’altro. La prima cosa che pensai era che avrei dovuto cambiare università e allontanarmi da Los Angeles.
Prima di intraprendere un cambiamento così radicale decisi di fare un tentativo e mi iscrissi ai corsi estivi in un’altra città. Per me il più importante era quello di antropologia, tenuto da una delle autorità più eminenti e preparate sugli indiani della regione andina. Ero certo che se avessi concentrato i miei studi su un settore con cui riuscivo a connettermi a livello emozionale, avrei potuto svolgere con maggiore serietà un eventuale lavoro di raccolta diretta dei dati sul campo: la mia conoscenza del Sudamerica avrebbe dovuto fornirmi ottime possibilità di inserirmi in qualunque società indiana.
In quello stesso periodo trovai lavoro come assistente di uno psichiatra, il fratello maggiore di un mio amico che aveva in programma di svolgere un’analisi di alcuni estratti da registrazioni di sedute condotte con ragazzi e ragazze e basate sulla tecnica del questionario. Le domande e le risposte riguardavano i problemi causati dalle troppe ore dedicate alla scuola, le aspettative deluse, il fatto di non essere compresi dalla propria famiglia, i rapporti sentimentali frustranti... I nastri risalivano a più di cinque anni prima e dovevano essere distrutti, ma prima dell’eliminazione definitiva, venivano scelti dallo psichiatra e dai suoi assistenti in base a un metodo di numerazione ed estrazione casuale, per individuare le parti che avrebbero potuto essere analizzate.
ll primo giorno di lezione nella nuova università, il docente di antropologia parlò delle sue benemerenze accademiche e sbalordì gli studenti ostentando la sua conoscenza e le sue pubblicazioni. Era un uomo alto e snello, dagli occhi blu e lo sguardo sfuggente. Doveva avere circa quarantacinque anni. La cosa che mi colpì maggiormente del suo aspetto fisico furono proprio gli occhi, che sembravano enormi dietro le lenti da miope e che davano l'impressione di ruotare in senso opposto uno rispetto all'altro, quando muoveva la testa mentre parlava. Sapevo elio non era possibile, eppure era un’illusione a dir poco sconcertante. Pur essendo un antropologo, era estremamente elegante: ai miei tempi infatti l’intera categoria era famosa per la notevole trascuratezza dell’abbigliamento. Gli archeologi, per esempio, venivano descritti dai loro studenti come creature perse nella datazione al carbonio 14 e che non avevano mai fatto un bagno.
Per ragioni che sfuggivano alla mia comprensione, ciò che lo distingueva non era il suo aspetto fisico o la sua erudizione, ma il suo modo di parlare. Pronunciava ogni singola parola con la massima chiarezza e ne sottolineava alcune trascinandole. Ostentava un accento marcatamente straniero, ma sapevo che si trattava di una posa: certe frasi gli uscivano come se fosse stato un inglese, altre volte sembrava di sentire un predicatore revivalista.
Mi affascinò fin dall’inizio, nonostante la sua smaccata pomposità. La sua boria era così eccessiva che, dopo i primi cinque minuti, nessuno ci faceva più caso. Le sue lezioni erano sempre esagerate dimostrazioni di conoscenza, imbottite di altrettanto folli affermazioni sulla sua persona. Il controllo che esercitava sul pubblico era però straordinario. Nessuno degli studenti con cui mi capitò di parlare aveva mai provato qualcosa di diverso dalla suprema ammirazione. Ero convinto che il trasferimento in un’altra università e in una città diversa si sarebbe rivelato facile e senza problemi, del tutto positivo. Il mio nuovo ambiente mi piaceva molto.
Per quanto riguardava il lavoro, mi appassionai molto ascoltando le cassette, al punto da sgattaiolare in ufficio e sentirle per intero, senza limitarmi a qualche estratto. In un primo momento ero rimasto incredibilmente affascinato dal fatto che, in ognuno di quei nastri, mi sembrava di sentir parlare me stesso. Con il passare delle settimane il fascino si tramutò in vero e proprio orrore: ogni battuta che veniva detta, comprese le domande dello psichiatra, erano mie. Tutte quelle persone stavano parlando dagli abissi del mio essere. Il disgusto che provai era qualcosa di completamente nuovo. Non mi sarei mai sognato di poter essere ripetuto all’infinito in ogni uomo o donna che sentivo parlare. Il senso della mia individualità, che mi era stato inculcato fin dalla nascita, franò irreparabilmente sotto l’impatto di questa scoperta colossale.
Cominciai allora un orribile processo di ricostruzione della mia persona e feci inconsciamente un patetico tentativo di introspezione: cercai di sbrogliarmela parlando incessantemente con me stesso. Provai e riprovai a rifare nella mente tutte le possibili spiegazioni razionali che avrebbero potuto sostenere il mio senso di unicità, esprimendo poi ad alta voce il mio parere in proposito. Sperimentai persino qualcosa di rivoluzionario: mi svegliavo ripetutamente di notte proprio a causa dei discorsi che facevo nel sonno, che erano lunghe disquisizioni sul mio valore e sulla mia capacità di distinguermi.
Poi un giorno orribile, subii un altro colpo mortale: sentendo bussare insistentemente alla porta, mi svegliai di soprassalto nel cuore della notte. Non erano colpetti timidi e gentili, ma quello che i miei amici chiamavano «il tonfo della Gestapo». Sembrava che stessero sfondando la porta. Balzai fuori dal letto e sbirciai attraverso lo spioncino. La persona che stava percuotendo l’uscio era il mio capo, lo psichiatra. Il fatto che io fossi amico di suo fratello sembrava aver creato tra noi una certa facilità di comunicazione. Mi aveva infatti concesso la sua amicizia senza problemi e adesso me lo ritrovavo sulla soglia di casa. Accesi la luce e aprii.
«Entra» lo invitai. «Che cosa è successo?»
Erano le tre del mattino; la sua espressione livida e gli occhi profondamente infossati rivelavano l’agitazione che lo tormentava. Si sedette. I capelli lunghi e neri,
tonte per lui di grande orgoglio, gli ricadevano sul viso.
Non cercò nemmeno di ricacciarseli indietro, come era solito fare. Mi era molto simpatico perché sembrava una versione più anziana di un mio amico di Los Angeles, che aveva sopracciglia folte e scure, penetranti occhi nocciola, la mascella quadrata e labbra carnose. Il labbro superiore sembrava doppio per via di una piega interna che si vedeva quando sorrideva in un certo modo. Parlava sempre della forma del suo naso, che descriveva impertinente e vezzoso. Pensavo che fosse estremamente sicuro di sé e avesse un’opinione molto elevata della propria persona. Diceva sempre che nella sua professione queste qualità erano le carte vincenti.
«Che cosa è successo!» ripeté, ironico, con il doppio labbro superiore che tremava in modo incontrollabile. «Chiunque è in grado di capire che stasera mi è successo qualcosa!»
Seduto sulla sedia, sembrava confuso e disorientato, in cerca di parole. Si alzò per andare ad accasciarsi sul divano.
«Non si tratta solo della responsabilità nei confronti dei miei pazienti» riprese. «Ci sono anche la borsa di studio per la mia ricerca, mia moglie e i bambini e adesso un altro fottuto motivo di pressione, e quello che più mi scoccia è che è tutta colpa mia che sono stato così idiota da fidarmi di una stupida puttana! Ti dirò, Carlos, non c’è niente di più orrendo, disgustoso e fottutamente nauseante dell’insensibilità delle donne. Io non sono affatto un misogino, lo sai benissimo, ma in questo momento mi sembra che ogni singola femmina non sia altro che una squallida fica, vile e ipocrita!»
Non sapevo cosa dire. Quello che mi stava raccontando non aveva bisogno di essere confermato o contraddetto. E, in ogni caso, non avrei mai avuto il coraggio di oppormi. Non avevo gli argomenti per farlo, ero stanchissimo e volevo solo andare a dormire, ma lui continuava a parlare come se la sua vita intera dipendesse da quella conversazione.
«Conosci Theresa Manning, vero?» mi chiese in tono deciso e accusatorio.
Per un attimo pensai che volesse incolparmi di avere una storia con la sua splendida e giovane segretaria, oltre che studentessa. Senza darmi il tempo di ribattere, riprese a parlare.
«Quella Theresa Manning è un'idiota, una cretina, una donna senza cervello che nella vita vuole solo fregare chiunque abbia un briciolo di fama e notorietà. Pensavo che fosse intelligente e sensibile, che avesse qualcosa di speciale, una forma di comprensione, un’empatia, qualcosa da condividere o da tenere magari tutta per me, come un tesoro prezioso. Ma questa è solo l’immagine che lei ha creato a mio uso e consumo, mentre in realtà è squallida e degenerata, oltre che spaventosamente volgare.»
Mentre lui continuava a parlare, una storia a dir poco strana, cominciava a prender forma. A quanto pareva lo psichiatra aveva appena vissuto una brutta esperienza che coinvolgeva la sua segretaria.
«Fin dal primo giorno in cui ha iniziato a lavorare, ho capito che la attraevo sessualmente, ma non ha mai avuto il coraggio di dichiararlo, era tutta una faccenda di sguardi e allusioni. Che cazzo... questo pomeriggio mi sono stufato di girare intorno alla questione e sono arrivato al sodo, mi sono piazzato davanti alla sua scrivania e le ho detto: “So cosa vuoi e tu sai cosa voglio io!”»
Mi riferì poi in maniera precisa ed elaborata il modo in cui le aveva comunicato che l’avrebbe aspettata nel suo appartamento davanti all’università, dall’altra parte della strada, alle ventitré e trenta in punto, sottolineando che non modificava mai le sue abitudini per nessuno e che era solito leggere e sorseggiare vino fino all’una di notte, ora in cui si ritirava in camera da letto. Aveva preso un appartamento in città perché la moglie e i figli vivevano in periferia.
«Ero sicuro che sarebbe stata una cosa fantastica, qualcosa di memorabile» sospirò con il tono accorato di dii sta confidando qualcosa di molto intimo. «Le ho persino dato la chiave del mio appartamento» confessò con voce rotta dall’emozione.
<< È arrivata alle ventitré e trenta, ha aperto con la sua chiave ed è scivolata nella stanza da letto come un’ombra. Questo mi eccitò terribilmente. Sapevo che non mi avrebbe causato alcun fastidio. Conosceva la sua posizione e, con ogni probabilità, si sarebbe addormentata subito o magari avrebbe guardato la televisione. ( Concentrato sul lavoro che dovevo sbrigare, pensai che non me ne fregava un cazzo di quello che faceva: ero sicuro di averla nel sacco.
<<Ma nell’attimo stesso in cui sono entrato in camera, Theresa mi è saltata addosso come una belva e ha cercato di afferrarmi l’uccello» riprese, teso e angosciato, come se avesse subito un grave offesa morale.
<<Non mi ha nemmeno lasciato il tempo di appoggiare la bottiglia e i due bicchieri che avevo in mano. Per fortuna sono riuscito a mettere in terra i calici Baccarat senza romperli, la bottiglia invece è volata via mentre lei mi afferrava i testicoli come se fossero stati due sassi. Avrei voluto colpirla. Ho gridato per il terribile dolore, ma lei non si è scomposta, anzi, si è messa a ridere come una cretina e poi per farsi perdonare mi ha detto che le era sembrato sexy e carino.»
Scuotendo la testa per la rabbia aggiunse che quella donna era così affamata ed egoista che non si era fermata a pensare che un uomo ha bisogno di un attimo di pace, deve sentirsi a proprio agio e circondato da un ambiente amichevole. Invece di mostrare considerazione e comprensione, così come richiedeva il suo ruolo, Theresa Manning gli aveva tirato fuori dai calzoni gli organi genitali con la destrezza di chi lo ha già fatto centinaia di volte.
«E grazie alle sue stronzate, la mia sessualità si è ritratta, sconvolta. Sono stato evirato a livello emozionale e il mio corpo ha subito detestato quella puttana, anche se la lussuria mi ha impedito di gettarla in mezzo alla strada.»
In quel momento aveva deciso che, invece di perdere miserabilmente la faccia per colpa della sua improvvisa impotenza, le avrebbe procurato un orgasmo con il sesso orale, ponendola così alla sua mercé; ma il suo corpo aveva ormai rifiutato in maniera totale quella donna e l’impresa gli risultò impossibile.
«Non è più nemmeno bella, ma bruttina. Quando si veste, gli abiti che indossa le nascondono i fianchi troppo gonfi e sembra quasi decente, ma nuda non è altro che un sacco di carne bianca e flaccida. La linea perfetta che mette in mostra quando è vestita è una finta, non esiste!»
B veleno scorreva a fiumi dalla bocca dello psichiatra, in un modo che non mi sarei mai immaginato. Fremeva di rabbia, cercando disperatamente di apparire distaccato e continuava a fumare una sigaretta dopo l’altra.
B sesso orale si era rivelato ancora più disgustoso. Era ormai sul punto di vomitare, quando la puttana lo prese a calci nello stomaco, buttandolo giù dal suo stesso letto e chiamandolo finocchio impotente.
A questo punto della narrazione gli occhi dello psichiatra fiammeggiavano per l’odio, il volto era terreo e la bocca gli tremava. Era pallido.
«Devo andare in bagno» mi disse. «Ho bisogno di lavarmi, puzzo di merda e ho la bocca che sa di fica.»
Stava realmente piangendo e avrei dato qualunque cosa al mondo per non assistere a quella scena. Forse era per via della mia stanchezza, del fascino ipnotico della sua voce o dell’assurdità dell’intera situazione, ma ebbi l’impressione di stare ascoltando invece dello psichiatra uno dei tizi delle sue cassette, che gemeva e si lamentava per problemi da nulla e, a furia di parlarne ossessivamente, li trasformava in tragedie immani. Il tormento finì verso le nove di mattina, quando dovetti andare a lezione e il mio interlocutore dovette andare dal suo strizzacervelli personale.
Andai all’università animato da un’ansia frenetica e da un terribile senso di sconforto e inutilità. Fu allora che ricevetti il colpo di grazia, che fece franare il mio tentativo di cambiare in maniera drastica. La mia volontà non fu in alcun modo la causa di tale crollo, che si verificò come se fosse stato, in qualche maniera, non solo programmato, ma anche accelerato dall'intervento di una mano misteriosa.
Il professore di antropologia cominciò la sua conferenza sugli Aymarà, un gruppo di indiani che vivevano sugli altopiani della Bolivia e del Perù. Pronunciando il loro nome, allungava il suono di ogni lettera come se la sua dizione fosse l’unica corretta al mondo. Disse che la produzione della chicha, una bevanda alcolica a base di grano fermentato, di cui naturalmente storpiò la pronuncia, era riservata a una casta di sacerdotesse che gli Aymarà consideravano semi-dee. Come se stesse rivelando chissà cosa, disse che quelle donne avevano il compito di trasformare il grano cotto in una poltiglia pronta per la fermentazione masticandolo e sputandoci sopra, aggiungendo così alla ricetta un enzima contenuto nella saliva umana. Sentendo nominare la saliva, dalla classe intera si levò un grido di orrore.
Il docente sembrava divertirsi alla follia e si lasciò sfuggire una risatina sciocca da bambino maleducato. Continuò spiegando che le donne sapevano masticare con grande abilità e poi, con lo sguardo fisso sulla prima fila della classe, dov'erano sedute quasi tutte le ragazze, sferrò il colpo finale.
«Ho avuto il p-r-r-rivilegio di sentirmi chiedere di dormire con una di queste donne» dichiarò con una strana intonazione, vagamente straniera. «L’arte di masticare il chicha le ha portate a sviluppare i muscoli intorno alla gola e alle guance in un modo che le permette di compiere meraviglie.»
Guardò il suo pubblico sbalordito e fece una lunga pausa, costellata da risatine. «Sono certo che mi capite» lasciò intendere prima di abbandonarsi a una risata isterica.
La sua allusione fece letteralmente impazzire gli studenti e la lezione venne interrotta da almeno cinque minuti di risate e da una sfilza di domande a cui il professore rifiutò di rispondere, in un mare di ulteriori stupidi sghignazzamenti.
Mi sentivo così schiacciato tra i nastri, la storia dello psichiatra e le «masticatrici di chahi-cha» del professore che in un attimo lasciai l’università, il lavoro e me ne tornai a Los Angeles.
«Qualunque cosa mi sia accaduta con lo psichiatra e l'antropologo, mi ha spinto in uno stato emozionale sconosciuto. L’unico modo in cui potrei azzardarmi a chiamarlo è introspezione. Da allora ho avuto un dialogo senza sosta con me stesso.»
«La tua malattia è molto banale» mi rassicurò don Juan, scosso dalle risate.
A quanto pareva, la mia condizione lo divertiva molto. Era un divertimento che io non riuscivo però a condividere perché non vedevo affatto il lato divertente della faccenda.
«Il tuo mondo sta per finire» dichiarò. «Per te è la fine di un’era. Credi che il mondo che hai conosciuto fino a oggi ti lasci andare in pace, senza fare storie? No! Si contorcerà sotto di te, colpendoti con la sua coda.»
La visione che non potevo sopportare
Da sempre, Los Angeles è la mia casa. Per me viverci non è stata una scelta, dal momento che mi sono sempre sentito come se ci fossi nato e forse il legame che mi unisce a questa città è ancora più forte: il mio attaccamento emotivo è totale. L’amore per Los Angeles è sempre stato talmente intenso e così parte di me che non ho mai avuto bisogno di esprimerlo, riesaminarlo o in qualche modo rinnovarlo.
A Los Angeles avevo la mia famiglia di amici. Facevano parte del mio ambiente nel senso che li avevo accettati totalmente, così come avevo accettato la città. Una volta uno di loro dichiarò quasi per scherzo che tutti noi ci odiavamo cordialmente. Indubbiamente loro potevano permettersi sentimenti del genere, perché avevano a disposizione altre coperture affettive, cioè genitori, mogli e mariti, ma io potevo contare solo sui miei amici a Los Angeles.
Non so perché, ma ero il loro confidente preferito e tutti riversavano su di me i loro problemi e le loro vicissitudini. Ero talmente vicino ai miei amici che non avrei mai riconosciuto i loro affanni e le loro angosce come tali: avrei potuto discutere con loro per ore degli stessi argomenti che mi avevano invece fatto inorridire sentendoli nominare dallo psichiatra o ascoltando i suoi nastri.
Non mi ero però reso conto di quanto ciascuno di loro assomigliasse in maniera sorprendente allo psichiatra e al docente di antropologia. Non mi ero mai accorto di quanto fossero tesi; fumavano in modo compulsivo, proprio come lo psichiatra, ma non ci avevo fatto caso perché io stesso fumavo così ed ero altrettanto nervoso. Un’altra cosa che non avevo mai notato era una certa affettazione nel modo di parlare: ostentavano tutti un pesante accento della costa occidentale e se ne rendevano perfettamente conto. Allo stesso modo avevo ignorato le allusioni circa una sensualità che erano incapaci di provare solo a livello intellettuale.
n vero confronto con me stesso iniziò quando dovetti affrontare il dilemma del mio amico Pete, che venne a trovarmi malconcio, con le labbra gonfie e l’occhio sinistro rosso e altrettanto gonfio, quasi blu nel punto in cui era stato colpito. Prima che gli potessi chiedere che cosa era successo, mi raccontò che durante il fine settimana sua moglie Patricia aveva partecipato a un convegno di agenti di borsa, per lavoro e le era accaduto qualcosa di terribile. Visto il suo aspetto, pensai che la donna fosse stata ferita o uccisa in un incidente.
«Sta bene?» gli domandai, sinceramente preoccupato.
«Certo che sta bene, quella puttana. E una troia e una puttana e a quelle come lei non capita mai nulla tranne che si fanno fottere e ci godono un mondo!»
Furibondo, tremava come se avesse avuto le convulsioni con i capelli quasi ritti sulla testa. Di solito andava in giro ben pettinato e stirava sempre i ricci. Quel giorno sembrava un diavolo della Thasmania.
«Fino a oggi è stato tutto normale, poi questa mattina, quando sono uscito dalla doccia, mi ha sbattuto l’asciugamano contro il sedere e così mi sono accorto di quanto è stronza... Ho capito subito che sta scopando con qualcun altro!»
Confuso dal suo ragionamento, gli chiesi com’era possibile che il semplice gesto di sbattere un asciugamano potesse rivelare una cosa del genere a chiunque.
«Un accidente!» ringhiò in tono velenoso. «Io conosco bene Patricia e il giovedì prima di partecipare a quel convegno non era capace di sbattere così un asciugamano! A dire il vero, da quando siamo sposati non è mai riuscita a farlo, è chiaro che gliel’ha insegnato qualcuno mentre erano nudi. Così l’ho presa per la gola e l’ho strozzata fino a farle sputare la verità. Sì, si scopa il suo capo!»
Pete mi raccontò di essere andato nell’ufficio di Patricia per discutere con quel tizio, che era però protetto da una schiera di guardie del corpo. I gorilla lo avevano cacciato fuori, sbattendolo in mezzo al parcheggio. Lui avrebbe voluto rompergli le finestre dell’ufficio a sassate, ma quelli lo avevano avvisato che se si fosse azzardato l’avrebbero fatto sbattere in prigione o, peggio ancora, si sarebbe ritrovato con una pallottola in testa.
«Sono stati loro a picchiarti?» gli chiesi.
«No» mi rispose in tono desolato. «Dopo aver camminato un po’ sono entrato in un autosalone di macchine usate e ho sferrato un pugno al venditore che mi si è avvicinato per primo. E rimasto sconvolto ma non si è arrabbiato, mi ha detto solo: “Si calmi, signore, si calmi! C’è sempre spazio per la trattativa!”. Ma quando gli ho mollato un altro cazzotto si è infuriato. Era un omone grande e grosso, mi ha colpito sulla bocca e sull’occhio, facendomi svenire. Quando ho ripreso i sensi ero steso sul divano dell’ufficio. Ho sentito arrivare un'ambulanza e ho subito capito che era per me, così sono scappato via e sono venuto qui da te.»
Il mio amico scoppiò in un pianto irrefrenabile e vomitò. Era conciato da sbatter via. Telefonai a sua moglie, che giunse in meno di dieci minuti e si inginocchiò subito accanto a lui, giurando di non amare nessun altro, dichiarando che tutto quello che aveva combinato erano solo stupidaggini e che il loro amore era una questione di vita o di morte. Gli altri non contavano nulla, non se li ricordava nemmeno. Piansero entrambi fino a sfinirsi e naturalmente si perdonarono a vicenda. Patricia indossava un paio di occhiali da sole per nascondere l'ematoma che le ornava l’occhio destro colpito da Pete (che era mancino). Entrambi ignari della mia presenza, se ne andarono senza accorgersi di me. Uscirono abbracciati, lasciando la porta aperta.
La vita sembrava continuare come al solito e i miei amici si comportavano come sempre. Partecipavamo a qualche festa, andavamo al cinema o alla ricerca di quei ristoranti che offrivano «tutto-quel-che-riuscite-a-man-giare» al prezzo di un pasto normale, oppure ci limitavamo a chiacchierare. Nonostante questa pseudo-normalità, uno strano nuovo fattore sembrava essere entrato nella mia vita. Io stesso stavo vivendo quell'insolita condizione: mi sembrava che la mia mentalità fosse divenuta all’improvviso estremamente ristretta. Avevo infatti cominciato a giudicare i miei amici così come avevo fatto con lo psichiatra e il professore di antropologia. Ma chi ero io per diventare giudice degli altri?
Ero sopraffatto da un enorme senso di colpa. Giudicando i miei amici entravo in uno stato d’animo fino ad allora sconosciuto; la cosa peggiore però era che, oltre a giudicarli, trovavo i loro problemi e i loro affanni incredibilmente banali. Ero lo stesso uomo e quelli erano i miei soliti amici, avevo sentito centinaia di volte le loro lamentele e il resoconto delle loro vicende, senza mai sentire nulla di diverso da una profonda identificazione. Ed ero lacerato dall'orrore che provavo davanti a una simile scoperta.
In quel periodo della mia esistenza il proverbio secondo cui piove sempre sul bagnato risuonava spaventosamente vero. La completa disintegrazione del mio stile di vita si verificò quando il mio amico Rodrigo Cummings mi chiese di accompagnarlo all’aeroporto di Burbank, da dove avrebbe dovuto imbarcarsi alla volta di New York. Si trattava di una mossa drammatica e disperata da parte sua, che considerava una dannazione il fatto di essere bloccato a Los Angeles. Tra gli altri amici era motivo di scherzo e ilarità il fatto che avesse cercato più volte di raggiungere New York in auto e che ogni volta la sua vettura fosse finita in panne. Una volta si spinse fino a Salt Lake City prima che la macchina si bloccasse, dato che aveva bisogno di un motore nuovo. Fu costretto ad abbandonarla lungo la strada. In genere non riusciva ad andare oltre la periferia di Los Angeles.
«Rodrigo, che cosa accade alle tue vetture?» gli chiesi un giorno, spinto dalla curiosità.
«Non lo so» mi rispose, lasciando trapelare un velato senso di colpa. Con una voce degna del professore di antropologia nel suo ruolo di predicatore revivalista, aggiunse: «Farse succede per il fatto che, quando mi trovo sulla strada, accelero perché mi sento libero. Di solito apro i finestrini e sento il vento sulla faccia. Mi sembra di essere un ragazzino alla ricerca di qualcosa di nuovo».
Era evidente che le sue macchine, veri e propri catorci, non sopportavano l’accelerazione e quindi il motore finiva per fondersi.
Rodrigo tornò da Salt Lake City a Los Angeles in autostop. Avrebbe potuto raggiungere allo stesso modo anche New York, ma non gli venne nemmeno in mente. Sembrava afflitto dal mio stesso problema, un’inconsapevole passione per Los Angeles che si ostinava a rifiutare.
Capitò che la sua auto fosse in ottime condizioni meccaniche, in grado di compiere senza problemi il viaggio, ma quella volta fu Rodrigo a non essere nelle condizioni adatte per lasciare Los Angeles. Guidò fino a San Bernardino e andò a vedere il film I Dieci Comandamenti. Per motivi comprensibili solo a Rodrigo, quello spettacolo scatenò in lui un'incredibile nostalgia per Los Angeles.
Ternò indietro e, in lacrime, mi raccontò che la fottuta città gli aveva costruito intorno una barriera che non lo lasciava passare. Sua moglie era felice che fosse rimasto e la sua amante Melissa lo era ancora di più, anche se le dispiaceva dovergli restituire i dizionari che le aveva dato.
Il suo ultimo disperato tentativo di raggiungere New York in aeroplano fu reso particolarmente drammatico dal fatto che dovette farsi prestare i soldi dagli amici per poter acquistare il biglietto. Poiché non aveva alcuna intenzione di saldare il suo debito, era certo che non sarebbe tornato.
Infilai le sue valigie nel bagagliaio della mia macchina e mi diressi verso l'aeroporto di Burbank. Il mio amico osservò che il volo era fissato per le sette e dato che erano le prime ore del pomeriggio, avevamo tutto il tempo per andare al cinema. Inoltre voleva vedere per l’ultima volta Hollywood Boulevard, il centro delle nostre vite e delle nostre attività.
Andammo così a vedere un film epico in Technicolor e Cinerama. Era orribile e lunghissimo e sembrò catturare completamente l’attenzione del mio compagno. Quando uscimmo dal cinema si stava facendo buio. Mi precipitai verso Burbank, destreggiandomi nel traffico dell’ora di punta. Rodrigo mi chiese di evitare l’autostrada, a quell’ora sempre intasata, e di scegliere le vie secondarie. Arrivammo all’aeroporto proprio mentre l'aeroplano stava decollando. Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Mesto e sconfitto, Rodrigo si presentò alla cassa per farsi rimborsare il biglietto. L’impiegato prese nota del suo nome, gli diede una ricevuta e gli spiegò che in un arco di tempo che andava dalle sei alle dodici settimane gli avrebbero inviato i soldi dal Tennessee, dov’era situata la sede amministrativa della compagnia aerea.
Tornammo così nel condominio dove entrambi abitavamo. Poiché questa volta non aveva salutato gli amici, temendo di fare un’altra figuraccia, nessuno si era accorto che aveva cercato ancora di partire. Rimpiangeva solo di aver venduto la macchina. Mi chiese di accompagnarlo a casa dei suoi genitori, perché suo padre avrebbe dovuto dargli il denaro che aveva sborsato per il biglietto. Da quanto posso ricordare, suo padre l’aveva sempre tirato fuori dai guai in cui era solito cacciarsi. Il motto di quell’uomo era: «Niente paura, Rodrigo Senior è qui!». Dopo che Rodrigo gli ebbe chiesto un prestito per pagarne uno precedente, suo padre lo guardò con l’espressione più triste che abbia mai visto: egli stesso stava infatti passando un periodo di grosse difficoltà finanziarie.
Mettendo un braccio intorno alle spalle del figlio, gli disse: «Ragazzo mio, questa volta non posso aiutarti. Adesso devi avere paura, perché Rodrigo Senior non è più qui!».
Volevo disperatamente immedesimarmi nel mio amico, vivere il suo dramma così come avevo sempre fatto, ma quella volta non ci riuscii. Ero infatti del tutto focalizzato sulla dichiarazione dell’uomo, che mi sembrò talmente definitiva da galvanizzarmi.
Cercai avidamente la compagnia di don Juan. Abbandonai in fretta e furia Los Angeles e andai a Sonora. Gli confidai lo strano atteggiamento che avevo assunto nei confronti dei miei amici e, tra i singhiozzi, gli confessai che avevo cominciato a giudicarli.
«Non agitarti per delle sciocchezze» mi tranquillizzò in tono pacato. «Sai già che un intero periodo della tua vita sta finendo, ma un’era non è del tutto conclusa finché non muore il re.»
«E questo cosa significa?»
«Tu sei il re e sei proprio come i tuoi amici. E questa la verità che ti fa tremare. Non puoi fare altro che accettare l’idea, ma naturalmente non ci riesci e allora non ti resta che ripetere a te stesso: “Io non sono così, io non sono così”. Ti assicuro che arriverà il giorno in cui ti renderai conto di essere proprio così.»
L’appuntamento inevitabile
C’era qualcosa che continuava a tormentarmi, nascosto in un angolo della mente: dovevo rispondere a una lettera di capitale importanza e dovevo farlo a tutti i costi. Un misto di indolenza e di desiderio di compiacere mi aveva fino ad allora impedito di farlo. L’amico antropologo che mi aveva fatto conoscere don Juan Matus mi aveva scritto un paio di mesi prima, chiedendomi come andavano i miei studi di antropologia e di andare a trovarlo al più presto. Scrissi tre lunghe lettere e tutte le volte che le rileggevo le trovavo così banali e ossequiose che finivo per stracciarle. Non ero infatti capace di esprimere la profondità della mia gratitudine e l’intensità dei sentimenti che provavo nei suoi confronti. Giustificavo il mio ritardo con il sincero proponimento di andare a trovarlo e raccontargli di persona tutto quello che stavo facendo con don Juan, ma continuavo a rimandare il mio viaggio perché, in realtà, non ero certo di avere capito quello che stavo facendo con il vecchio sciamano. Pensavo che un giorno avrei mostrato al mio amico qualche risultato pratico. l<mo a quel momento intravedevo solo una vaga possibilità, che ai suoi occhi esigenti non sarebbe però apparsa come un normale lavoro antropologico di raccolta diretta dei dati sul campo.
Un giorno, tramite certi conoscenti, venni a sapere che era morto. Questo fatto mi fece precipitare in una di quelle depressioni silenziose particolarmente pericolose. Non potevo esprimere ciò che provavo perché i miei sentimenti non erano ancora del tutto formulati a livello mentale: erano un misto di rifiuto, avvilimento e orrore di me stesso per non avere risposto alla lettera e non essere andato a trovarlo.
Poco tempo dopo mi recai da don Juan. Mi sedetti su una delle casse sotto la ramada e cercai di trovare le parole per esprimere in maniera non banale lo sconforto che provavo per la morte del mio amico. Per qualche motivo incomprensibile, don Juan conosceva la causa della mia agitazione, oltre che il motivo della mia visita.
«Sì, so che il tuo amico antropologo, quello che ti ha portato a conoscermi, è morto» esordì in tono asciutto. «E so anche in quale preciso istante, perché l’ho visto.»
Le sue frasi secche mi fecero ribollire.
«L’ho visto molto tempo fa, te ne ho persino parlato, ma tu non mi hai prestato ascolto. Sono certo che non te ne ricordi nemmeno.»
Ricordavo ogni singola parola che mi aveva detto, ma nell’attimo stesso in cui le pronunciava non avevano per me il benché minimo significato. Don Juan aveva dichiarato che un evento profondamente legato al nostro incontro, ma non strettamente connesso, era il fatto che aveva visto il mio amico antropologo come un uomo morente.
«Ho visto la morte come una forza esterna che stava già aprendo il tuo amico. Ognuno di noi ha una fessura energetica appena sotto l’ombelico: gli sciamani la chiamano apertura ed è chiusa quando un uomo è nel fiore degli anni.»
Aveva aggiunto che, in condizioni normali, l’occhio dello sciamano percepisce una zona più sbiadita nel bagliore biancastro della sfera luminosa, ma quando un uomo sta per morire l’apertura è più evidente. E, a sentire lui, quella del mio amico era spalancata.
«Che significa tutto ciò?» gli chiesi.
«È un significato di morte. Lo spirito mi stava segnalando che qualcosa stava giungendo al termine. Pensai che si trattasse della mia vita e l’accettai con tutta la grazia possibile. Solo molto tempo dopo mi resi conto che non era la mia esistenza che stava per finire, bensì la mia intera stirpe.»
Non avevo idea di cosa stesse dicendo. Come avrei potuto prendere sul serio quelle parole? Per quanto mi riguardava, nel momento in cui le aveva pronunciate erano come tutte le altre cose della mia vita e cioè semplici discorsi.
«Il tuo amico in persona ti ha detto che stava morendo» riprese. «Hai capito quello che ti stava dicendo così come hai capito quello che ti ho detto io, ma in entrambi i casi hai scelto di fare finta di nulla.» Non avevo alcun commento da fare. Sopraffatto, avrei voluto sprofondare nella cassa su cui ero seduto e scomparire per sempre, inghiottito dalla terra.
«Non è colpa tua se ignori cose di questo genere» continuò. «È la giovinezza. Hai talmente tante cose da fare e un sacco di gente che ti sta intorno. . . Non stai all’erta. Del resto, non hai mai imparato a stare all’erta.» Cercando di difendere l’ultimo bastione che riguardava la mia persona, cioè la convinzione di essere vigile, gli feci notare che mi ero trovato più volte in situazioni estreme, che avevano richiesto riflessi pronti e una notevole attenzione da parte mia. Non era esatto dire che ero sprovvisto della capacità di stare all’erta: semplicemente, ero incapace di individuare le mie priorità e, di conseguenza, ogni singola cosa era per me troppo importante o insignificante.
«Stare all’erta non significa essere vigili» ribatté don
Juan. «Per gli sciamani vuol dire essere consapevoli della struttura del mondo quotidiano che sembra estranea rispetto all’interazione del momento. Durante il viaggio che hai intrapreso con il tuo amico prima di incontrarmi, hai notato solo i dettagli che erano ovvi. Non ti sei accorto che la morte stava assorbendo il tuo amico, anche se qualcosa in te lo sapeva.»
Cercai di protestare, dicendo che non era affatto vero.
«Non nasconderti dietro alle banalità» mi rimproverò. «Alzati. Se solo per il momento sei con me, assumiti la responsabilità di quello che sai. Non perderti nella struttura estranea del mondo che ti circonda, lontana da ciò che sta accadendo. Se tu non fossi stato così concentrato su te stesso e sui tuoi problemi, avresti capito che quello era il suo ultimo viaggio e ti saresti accorto che stava saldando il conto, andando a rivedere le persone che lo avevano aiutato e salutandole.»
«Una volta il tuo amico antropologo mi ha rivolto la parola» continuò don Juan. «Lo ricordavo così chiaramente che non rimasi affatto stupito quando ti portò da me nel deposito degli autobus. Non fui in grado di aiutarlo quando mi parlò: non era l’uomo che stavo cercando, ma gli augurai ogni bene dal mio vuoto e dal mio silenzio di sciamano. Per questa ragione sapevo che nel suo ultimo viaggio sarebbe andato a ringraziare tutti coloro che avevano avuto una certa importanza nella sua vita.»
Dovetti ammettere che aveva ragione, che c’erano stati molti dettagli di cui ero stato consapevole ma che in quel momento non mi avevano detto nulla, come per esempio l'estasi che il mio amico aveva provato osservando il paesaggio. Fermava l’auto solo per poter fissare, a volte per ore intere, le montagne che si stagliavano in lontananza, il letto di un fiume o il deserto. Giudicai e misi da parte tale comportamento come il sentimentalismo idiota, di un uomo di mezz’età, lasciandomi sfuggire certe vaghe allusioni sul fatto che forse beveva troppo. Mi diceva che, in certi casi, una bella bevuta assicurava a un uomo un momento di pace e distacco abbastanza lungo per assaporare qualcosa di irripetibile.
«In effetti quel viaggio era riservato ai suoi occhi» mi spiegò don Juan. «Gli sciamani compiono viaggi del genere, nei quali conta solo ciò che i loro occhi riescono ad assorbire. Il tuo amico si stava alleggerendo, liberandosi di tutto ciò che era superfluo.»
Gli confessai di aver ignorato quello che mi aveva detto sul conto del mio amico morente, perché a un livello che non riuscivo a identificare, sapevo che era vero.
«Gli stregoni non dicono mai nulla per caso» mi spiegò. «lo sto molto attento a quello che dico a te e agli altri. La differenza tra noi due è che io non ho tempo e agisco di conseguenza, mentre tu ritieni di avere tutto il tempo del mondo e ti regoli in base a tale convinzione. Il risultato finale del nostro comportamento individuale è che io misuro tutto ciò che dico e faccio, tu no.»
Pur concedendogli di avere ragione, precisai che qualunque cosa potesse dirmi non alleviava in alcun modo la disperazione e la tristezza che non mi davano tregua. Fu allora che mi lasciai uscire di bocca, in maniera concitata e convulsa, ogni sfumatura delle mie confuse emozioni. Gli dissi che non ero in cerca di consigli, volevo solo che lui eseguisse una stregoneria capace di porre fine alla mia angoscia. Ero convinto di voler davvero da lui qualche calmante naturale, una sorta di Valium organico e glielo dissi. Don Juan scosse il capo, incredulo.
«Sei incredibile!» esclamò. «La prossima volta mi chiederai un rimedio sciamanico per eliminare tutto quello che ti dà fastidio, senza il minimo sforzo da parte tua, a parte la fatica di ingoiare quello che ti viene somministrato. E più è orrendo il sapore, migliori sono i risultati. Questo è il tuo motto di uomo occidentale: vuoi risultati? Una pozione, e sei guarito! Gli sciamani affrontano le cose in maniera diversa e, poiché non hanno tempo da perdere, si dedicano completamente a ciò che hanno di fronte. La tua agitazione è dovuta alla tua mancanza di equilibrio, cosa che ti ha impedito di ringraziare in modo adeguato il tuo amico. Tutto questo capita a ognuno di noi: non esprimiamo mai ciò che proviamo e, quando ci decidiamo a farlo, ormai è troppo tardi perché abbiamo finito il tempo a nostra disposizione. Non è stato solo il tuo amico a restare senza tempo: anche tu l’hai esaurito. Avresti dovuto ringraziarlo con grande calore in Arizona. Lui si è preso il disturbo di portarti in giro e, anche se non l’hai capito, quel giorno nel deposito degli autobus ti ha offerto la sua migliore opportunità. Ma nel momento stesso in cui avresti dovuto ringraziarlo, eri arrabbiato con lui, lo stavi giudicando o forse lui si era comportato male con te. Hai" poi rinviato il vostro incontro successivo: in realtà non hai fatto altro che rimandare il momento in cui avresti dovuto ringraziarlo. Adesso ti ritrovi con un fantasma sulla schiena e non potrai mai pagargli ciò che gli devi».
Capivo l’immensità di quello che mi stava dicendo. Non avevo mai guardato le mie azioni da quel punto di vista. A dire il vero, non avevo mai ringraziato nessuno. Don Juan affondò ancora di più il dito nella piaga.
«Il tuo amico sapeva che stava per morire. Ti ha scritto un’ultima lettera per scoprire come te la stavi cavando. Forse non se n’è reso conto, ma i suoi ultimi pensieri sono stati per te».
D peso delle sue parole si rivelò eccessivo e crollai. Dovevo stendermi a tutti i costi. La testa mi girava vorticosamente. Forse era per via del tramonto. Avevo commesso lo sbaglio terribile di arrivare da don Juan nel tardo pomeriggio. Il sole che tramontava aveva tonalità incredibilmente dorata e i riflessi sulle montagne spoglie a est della casa di don Juan erano d’oro e porpora. In cielo non c’era nemmeno una nuvola. Sembrava che tutto fosse immobile. Era come se il mondo intero si stesse nascondendo, ma la sua presenza mi stava schiacciando. La quiete del deserto di Sonora era come un pugnale che mi penetrava nelle carni fino alle ossa. Avrei voluto andarmene, salire in auto e partire. Volevo stare in città e perdenti nei suoi rumori.
«Stai provando un assaggio di infinito» disse don Juan in tono grave e conclusivo. «Lo so perché l’ho visto nelle tue scarpe. Vuoi scappare, affondare in qualcosa di umano, caldo, contraddittorio, stupido e menefreghista. Vorresti dimenticare la morte del tuo amico, ma l’infinito non te lo permette.» Con voce più morbida concluse: «Ti ha afferrato con la sua presa impietosa».
«Che cosa posso fare adesso?»
«Non puoi fare altro che mantenere invita il ricordo del tuo amico per il resto dei tuoi giorni e forse anche oltre. Gli sciamani esprimono così il ringraziamento che non possono più manifestare a voce. Può sembrarti un metodo sciocco, ma è la cosa migliore che essi possano fare.»
Senza dubbio doveva essere la mia tristezza a farmi credere che l’energico don Juan fosse triste come me. Accantonai subito quell’idea, che era a dir poco impossibile.
«Per gli sciamani la tristezza non è una faccenda personale» riprese don Juan, interrompendo di nuovo i miei pensieri. «Non si tratta di tristezza vera e propria, ma di un'onda di energia che giunge dalle profondità dell’universo e li colpisce quando sono ricettivi, quando sono come radio, capaci di captare le onde. Gli sciamani dei tempi antichi, quelli che hanno dettato le leggi dello sciamanesimo, credevano che nel cosmo la tristezza fosse simile a un’energia, a uno stato come la luce o l’intento e che la sua forza eterna agisse soprattutto su di loro perché privi di barriere protettive. Gli sciamani non possono nascondersi dietro i loro amici o i loro studi, dietro l’amore, l’odio, la felicità o la sofferenza. Non possono nascondersi dietro a nulla. La condizione degli sciamani è che per loro la tristezza è astratta: non nasce dal desiderio o dalla mancanza di qualcosa e nemmeno dalla presunzione. Non deriva dall'ego, ma dall’infinito. La tristezza che provi per non aver ringraziato il tuo amico ti sta già portando in quella direzione.
Il mio maestro, il nagual Julian, era un attore eccezionale. Lavorò come professionista in teatro. Aveva una storia che raccontava sempre nelle sue rappresentazioni teatrali, con cui riusciva a suscitare in me una terribile angoscia. Diceva che era una storia di guerrieri che avevano tutto e, al tempo stesso, sentivano il morso della tristezza universale. Ho sempre pensato che la raccontasse apposta per me.»
Don Juan, parafrasando il suo maestro, incominciò il racconto. Protagonista era un uomo che, soffrendo di una profonda malinconia, si era recato dai migliori medici dell’epoca, senza che nessuno riuscisse ad aiutarlo. Ala fine era andato da un dottore capace di guarire l’anima, il quale gli aveva detto che forse avrebbe potuto trovare sollievo nell’amore, mettendo così fine alla sua tristezza. L’uomo gli aveva risposto che per lui l’amore non era affatto un problema, dato che era amato forse più di qualunque altro essere umano. Il medico gli aveva allora suggerito di intraprendere un viaggio e di andare a vedere altre parti del mondo, ma lui aveva ribattuto di essere già stato in ogni angolo della terra. Il dottore gli aveva allora raccomandato di dedicarsi a passatempi come le arti e lo sport, ma anche in questo caso l’uomo aveva replicato di aver già fatto tutto quello che gli veniva prescritto e di non aver mai provato alcun sollievo. Il medico aveva cominciato a sospettare di trovarsi davanti un bugiardo cronico, perché non era possibile che avesse fatto tutte quelle cose, ma essendo un bravo guaritore aveva avuto un’ultima intuizione.
«Ho trovato la soluzione ai suoi problemi, signore! Lei deve assistere a uno spettacolo del più grande artista del mondo, che la delizierà a tal punto da farle dimenticare la sua malinconia. Lei deve andare a vedere il Grande Garrick!»
Don Juan terminò il racconto dicendo che l’uomo aveva rivolto al dottore lo sguardo più triste che si possa immaginare, dicendogli: «Se questo è il suo consiglio, sono un uomo perduto. Per me non c’è alcuna cura. Io sono il Grande Garrick!».
Il punto di rottura
Don Juan definiva il silenzio interiore come uno stato peculiare dall’essere in cui tutti i pensieri vengono cancellati e in cui si vive a un livello diverso da quello della consapevolezza quotidiana. Il silenzio interiore significa sospensione del dialogo interiore, il compagno sempre presente dei nostri pensieri, ed è quindi una condizione di completa pace.
«Gli antichi sciamani lo chiamavano silenzio interiore perché è uno stato in cui la percezione non dipende dai sensi, ma da un’altra facoltà dell’uomo, la facoltà che lo rende un essere magico e che è stata depotenziata non dall’uomo stesso, ma da qualche influenza estranea mi spiegò.
«Di che influenza si tratta?» gli chiesi.
«Non ne parleremo oggi, sarà l’argomento di una spiegazione successiva; si tratta comunque dell’aspetto più serio dell’arte degli sciamani dell'antico Messico. Nello sciamanesimo, il silenzio interiore è il punto da cui nasce ogni cosa. In altre parole, tutto ciò che facciamo ci guida verso tale stato che, come sempre accade nel mondo degli sciamani, non emerge se non veniamo scossi da qualcosa di gigantesco» mi spiegò.
Aggiunse poi che gli sciamani dell'antico Messico erano soliti elaborare un’infinità di sistemi per scuotere se stessi o i loro colleghi, fin nelle fondamenta, per raggiungere la condizione tanto ambita del silenzio interiore. Essi ritenevano che i gesti più disparati, apparentemente più lontani da tale obiettivo, come per esempio saltare in una cascata o passare la notte appesi a testa in giù sul ramo più alto di un albero, fossero i punti chiave per realizzarlo.
Basandosi sulle spiegazioni di questi sciamani, don Juan dichiarò con estrema sicurezza che il silenzio interiore viene accumulato. Nel mio caso, si sforzò di guidarmi a costruire un nucleo di silenzio interiore nella profondità del mio essere, che avrei poi fatto crescere, istante dopo istante, ogni volta che lo praticavo. Mi spiegò che gli sciamani avevano scoperto che ogni singolo individuo possiede una soglia diversa di silenzio interiore per quanto riguarda il tempo: ciò significava che il silenzio interiore prima di poter funzionare, dev’essere mantenuto da ciascuno di noi per tutto il tempo necessario a varcare tale soglia.
«Qual era il segno che indicava agli sciamani che il silenzio interiore funziona?» volli sapere.
«Il silenzio interiore inizia ad agire nell’attimo stesso in cui cominci ad accumularlo. Gli antichi sciamani volevano ottenere il risultato supremo, il raggiungimento cioè di quella soglia individuale di silenzio. Ad alcuni di loro, molto esperti, bastavano solo pochi minuti di silenzio; altri, meno capaci, ci riuscivano solo dopo periodi più lunghi di silenzio, magari più di un’ora di completa tranquillità. E tale risultato era ciò che gli antichi sciamani chiamavano fermare il mondo, l’attimo in cui tutto ciò che ci circonda cessa di essere ciò che è sempre stato.»
«Questo è il momento in cui gli sciamani ritornano alla loro vera essenza» riprese don Juan. «La definivano anche libertà totale. In quell’istante l’uomo-schiavo diventa l’uomo-essere libero, con capacità percettive che sfidano il nostro pensiero lineare.»
Don Juan mi assicurò che il silenzio interiore è la via che porta alla vera sospensione del giudizio, al momento in cui dati sensoriali inviati dall’universo non vengono più interpretati dai sensi e la cognizione cessa di essere la forza che attraverso l’uso e la ripetizione, decide la natura del mondo.
«Gli sciamani hanno bisogno di un punto di rottura affinché il lavorio del silenzio interiore possa cominciare. Si potrebbe paragonare alla calcina che i muratori mettono tra i mattoni. Solamente quando la calcina si solidifica i mattoni formano una struttura.»
Fin dall’inizio del nostro rapporto, don Juan mi aveva inculcato il valore, la necessità del silenzio interiore. Feci del mio meglio per seguire le sue indicazioni, accumulando il silenzio interiore istante dopo istante. Non avevo la possibilità di misurare l’entità di questo accumulo e non potevo sapere se avessi o meno raggiunto la soglia. Mi limitavo semplicemente a farlo in modo ostinato, non solo per compiacerlo, ma anche perché tale gesto era diventato una vera e propria sfida.
Un giorno stavo passeggiando con don Juan nella piazza principale di Hermosillo. Erano le prime ore di un pomeriggio nuvoloso e il caldo secco era molto piacevole. Nella piazza circondata di botteghe c’era un sacco di gente. Anche se ero stato molte volte a Hermosillo, non mi ero mai accorto delle botteghe: sapevo che c’erano, ma non ne ero consapevole in modo cosciente. E non sarei riuscito a fare una mappa di quella piazza nemmeno se la mia vita fosse dipesa da ciò. Quel giorno, mentre camminavo con don Juan, mi sforzai di individuare e identificare i vari negozi, cercando un punto di riferimento che mi permettesse di tenere tutto a mente.
«Come ti ho già detto più volte, ogni sciamano di mia conoscenza, maschio o femmina che sia, prima o poi raggiunge il punto di rottura nella sua esistenza» precisò don Juan, scuotendomi dalla mia concentrazione.
«Vuoi forse dire che hanno un esaurimento nervoso o qualcosa del genere?» gli chiesi.
«No, no» mi rispose ridendo. «Gli esaurimenti nervosi capitano solo alle persone che sono indulgenti con se stesse. Gli sciamani non sono persone. Ti sto dicendo che in un determinato momento la continuità della loro esistenza deve interrompersi per permettere al silenzio interiore di entrare in gioco e diventare parte attiva della loro struttura.»
E molto importante che tu arrivi da te stesso al punto di rottura in modo intenzionale o che lo crei artificialmente, con intelligenza» chiarì.
«E questo cosa vorrebbe dire?» gli domandai, catturato dal suo affascinante ragionamento.
«li tuo punto di rottura consiste nell'abbandonare il corso della tua vita così come lo conosci. Hai fatto tutto quello che ti ho detto in maniera precisa e accurata. Se hai del talento, non l’hai mai messo in mostra. E questo sembra proprio essere il tuo stile. Non sei lento, ma ti comporti come se lo fossi. Sei molto sicuro di te stesso, ma agisci come se fossi insicuro. Non sei timido, ma ti comporti come se avessi paura della gente. Ogni cosa che fai indica una direzione ben precisa e cioè il tuo bisogno di troncare tutto ciò, inesorabilmente.»
«Ma in che modo? Si può sapere che cos’hai in mente?» gli chiesi, sull’orlo dell'isteria.
«Credo che si riduca tutto a un semplice gesto: non devi fare altro che lasciare i tuoi amici, salutarli per sempre. Non puoi continuare a percorrere il sentiero dei guerrieri portandoti appresso la tua storia personale, e se non abbandonerai il tuo attuale stile di vita, non sarò in grado di continuare a fornirti le mie istruzioni.»
«Aspetta un momento. . . Mi stai chiedendo troppo» dissi. «Se devo essere sincero, non credo di poterlo fare. I miei amici sono la mia famiglia, il mio punto di riferimento.»
«Esatto!» esclamò. «Loro sono il tuo punto di riferimento e quindi devono andarsene. Gli sciamani hanno un solo punto di riferimento: l’infinito.»
«Come devo procedere?» gli chiesi in tono lamentoso. La sua richiesta mi stava facendo impazzire.
«Devi semplicemente andartene» mi rispose in pratica. «Vattene come puoi.»
«E dove dovrei andarmene?»
«Ti suggerisco di prenderti una stanza in uno di quegli alberghetti di bassa categoria che conosci benissimo. Più il posto è brutto, meglio è. Se la camera ha un tappeto verde dall’aspetto incolore, tende verdi incolori e anche pareti verdi incolori, meglio ancora ... Dev’essere qualcosa di simile a quell’albergo che ti ho mostrato a Los Angeles.»
Mi sfuggì una risatina nervosa ricordando quando avevo attraversato in auto con don Juan la zona industriale di Los Angeles, dove ci sono soltanto magazzini e hotel malridotti per gente di passaggio. Uno in particolare aveva attirato la sua attenzione per via del suo nome altisonante, Edoardo Settimo. Ci eravamo fermati sull’altro lato della strada per guardarlo bene.
«Quell'albergo laggiù è per me la rappresentazione ideale della vita terrena dell’uomo medio» mi spiegò, indicando con un dito l’edificio. «Se sei fortunato o privo di scrupoli, ottieni una stanza con vista sulla strada e puoi assistere a questo infinito corteo dell'umana miseria. Se non sei così fortunato o privo di scrupoli, ricevi una camera che dà sull’interno, con le finestre che si affacciano sulla parete dell’edificio vicino. Prova a pensare di vivere dilaniato tra queste due visioni, invidiando chi può guardare fuori, se sei all’interno o chi vede il muro, se ti trovi invece all'esterno e non sopporti più di guardare fuori.»
La metafora di don Juan mi aveva profondamente disturbato perché l’avevo compresa benissimo.
In quel momento, all’idea di prendere una stanza in un posto come l’Edoardo Settimo, non sapevo cosa dire e nemmeno come comportarmi.
«Che cosa vuoi che ci faccia lì? » gli chiesi.
«Uno sciamano usa un luogo del genere per morire» mi rispose, fissandomi senza battere ciglio. «Nella tua vita non sei mai stato solo: questo è il momento di farlo. Resterai in quella stanza finché non sarai morto.»
La sua richiesta mi spaventò ma, al tempo stesso, mi fece ridere.
«Non ho certo intenzione di farlo e poi quali sarebbero i criteri per stabilire la mia morte?» dissi: «A meno che tu non voglia farmi morire fisicamente ...».
«No» lui disse. «Non voglio che il tuo corpo muoia dal punto di vista fisico. E la tua persona che deve morire. Sono due faccende diverse. La tua persona ha ben poco a che fare con il tuo corpo: è infatti la tua mente. E devi credermi, la tua mente non ti appartiene affatto.»
«Che sciocchezza è questa?» gli domandai con un certo nervosismo.
«Te lo spiegherò un giorno o l’altro, ma non adesso, perché sei ancora protetto dai tuoi amici. Uno sciamano è morto quando per lui non c’è differenza tra l’essere solo o con altri. Il giorno in cui non desidererai più la compagnia dei tuoi amici, che tu usi come barriere protettive, segnerà la morte della tua persona. Che ne dici, ci stai?»
«Non posso farlo, don Juan. È inutile che cerchi di mentirti: non posso lasciare i miei amici.»
«Hai perfettamente ragione» ammise con aria imperturbabile, come se la mia dichiarazione non lo avesse per nulla impressionato. «Non potrò più parlare con te, ma bisogna ammettere che nel tempo che abbiamo trascorso insieme tu hai imparato molto. Hai appreso cose che ti renderanno molto forte, indipendentemente dal fatto che tu decida in seguito di tornare o allontanarti.»
Mi disse addio, dandomi una pacca sulla spalla, si girò e scomparve tra le persone che affollavano la piazza, come se si fosse fuso con loro. Per un breve istante ebbi la strana sensazione che quella gente fosse stata una sorta di tenda che lui aveva sollevato, scomparendo poi dietro di essa. Come tutte le altre cose nel mondo di don Juan la fine era arrivata in maniera veloce e imprevedibile: mi aveva colto di sorpresa e io non avevo nemmeno capito come fosse accaduto.
Avrei dovuto sentirmi distrutto e invece non lo ero. Senza capire perché ero così sollevato, mi stupii per la facilità con cui tutto era finito. Don Juan era un individuo di gran classe. Non ci furono recriminazioni, rabbia o niente del genere. Salii in macchina e me ne andai, felicissimo. In preda a una vera e propria euforia, pensai che era fantastico che fosse finito tutto così rapidamente e senza alcun dolore.
ll viaggio verso casa si svolse senza incidenti. Giunto a Los Angeles, mi ritrovai nel mio ambiente naturale e mi resi conto che avevo acquisito un’enorme quantità di energia dall’ultimo incontro con don Juan. Mi sentivo incredibilmente felice e rilassato e ripresi quella che consideravo la mia normale esistenza con rinnovato vigore. Dimenticai gli affanni che mi avevano causato gli amici, tutte le cose che avevo capito su di loro e ciò che avevo detto a don Juan in proposito: era come se qualcosa avesse cancellato quei pensieri dalla mia mente. Un paio di volte mi capitò di stupirmi per la facilità con cui mi ero scordato qualcosa che era stato così significativo e oltretutto in maniera così totale.
Andò tutto come previsto. C’era una sola discordanza in quello che era il chiaro paradigma della mia vecchia-nuova esistenza: ricordavo con estrema precisione quando don Juan mi aveva detto che il mio distacco dal mondo degli sciamani era puramente accademico e che vi avrei comunque fatto ritorno. Avevo ricordato e scritto ogni singola parola del nostro discorso. Ma secondo il mio solito modo lineare di ragionare, e in base alla mia memoria, don Juan non aveva mai fatto quelle affermazioni. Meditai a lungo e inutilmente su come potessi ricordare cose che non erano mai avvenute. Il mio pseudo-ricordo era abbastanza strano da suscitare riflessioni, ma decisi che non valeva la pena di pensarci troppo. Per quanto mi riguardava, ero uscito dalla zona di influenza di don Juan.
Seguendo i consigli di don Juan sul mio comportamento con quelli che mi aiutavano, avevo preso una decisione per me sconvolgente: avrei onorato i miei amici, ringraziandoli prima che fosse troppo tardi. Uno di loro era Rodrigo Cummings: un incidente che lo coinvolgeva, fece cadere il mio nuovo modello comportamentale, spingendolo vorticosamente verso la distruzione totale.
Il mio atteggiamento nei suoi confronti cambiò in maniera radicale quando cessai di essere competitivo nei suoi confronti. Mi resi conto che immedesimarmi completamente in tutto quello che faceva era la cosa più facile del mondo. In effetti, io ero proprio come lui, ma non lo capii finché non smisi di competere. La verità emerse con una chiarezza a dir poco fastidiosa. Uno dei desideri più grandi di Rodrigo era quello di finire l’università: ogni semestre si iscriveva e iniziava il maggior numero possibile di corsi, poi, con il passare del tempo, li abbandonava uno dopo l’altro. A volte si ritirava, oppure continuava a seguire uno di quei corsi in tre fasi, giungendo al solito finale amaro.
Durante il suo ultimo semestre scelse un corso di sociologia, una materia che gli interessava. Quando l’esame finale si stava ormai avvicinando, mi disse che aveva tre settimane per studiare e imparare il programma e che quello gli sembrava un arco di tempo esagerato per leggere seicento pagine. Si considerava infatti un lettore veloce, con una notevole capacità di apprendimento: era convinto di essere dotato di una memoria quasi al cento per cento fotografica.
Certo di avere molto tempo a disposizione prima dell’esame, mi chiese di aiutarlo a sistemare la macchina, in modo da essere più comodo quando andava a distribuire i giornali al mattino: voleva togliere lo sportello destro per poter lanciare i quotidiani con la mano destra, invece di tirarli dal tettuccio aperto con la sinistra. Gli feci notare che lui era mancino, ma lui ribattè che fra le sue numerose doti, che nessuno dei suoi amici aveva mai notato, c’era anche il fatto di essere ambidestro. Non potevo negare che avesse ragione, perché io stesso non ci avevo mai fatto caso.
Dopo che lo ebbi aiutato a togliere lo sportello, decise di rimuovere anche il rivestimento del tettuccio, che era piuttosto malandato. Mi assicurò che dal punto di vista meccanico l’auto era in ottime condizioni e che l’avrebbe portata a Tijuana (che chiamava «TJ», come facevano tutti i bravi cittadini di Los Angeles in quel periodo) in Messico, dove per pochi dollari gli avrebbero rifatto tutto il rivestimento interno.
«Potremmo farci un viaggetto» esclamò, tutto felice, arrivando a scegliere gli amici che si sarebbe portato dietro. «A TJ sono sicuro che andrai in giro in cerca di libri usati, perché sei uno stupido, mentre noi ci infileremo in qualche bordello. Ne conosco diversi ...»
Impiegammo una settimana a togliere tutto il rivestimento e a smerigliare con la sabbia la superficie metallica, in modo da prepararla. A Rodrigo erano rimaste due settimane per studiare, una quantità di tempo che lui considerava ancora eccessiva. Mi chiese allora di aiutarlo a dipingere il suo appartamento. Ci volle più di una settimana e riuscimmo anche a levigare il pavimento di legno. Poiché non voleva imbiancare sopra la carta da parati che ricopriva le pareti di una stanza, prendemmo a nolo una macchina che la staccava con il vapore. Naturalmente né io né Rodrigo sapevamo come usarla e combinammo un disastro. Alla fine fummo costretti a usare il Topping, una finissima miscela di calce di Parigi e altre sostanze che resero più liscia la superficie del muro.
Al termine di tutte quelle imprese Rodrigo si trovò con due soli giorni a disposizione per ficcarsi in testa seicento pagine. Si impegnò così in una maratona di lettura frenetica, aiutandosi con le anfetamine. Il giorno dell’esame andò all’università, si sedette a un banco e ricevette il foglio con le domande.
Non riuscì a stare sveglio: il suo corpo si piegò in avanti e la testa colpì il banco con un tonfo spaventoso. Sospesero l’esame e sia l'insegnante di sociologia sia gli studenti seduti intorno al mio amico si lasciarono andare all’isteria vedendo il corpo di Rodrigo rigido e gelato. L’intera classe pensò che fosse accaduto il peggio e cioè che fosse morto per un attacco cardiaco. Furono chiamati degli infermieri per spostarlo.
Dopo un breve esame, dichiararono che Rodrigo era solo profondamente addormentato e lo portarono poi in ospedale per farlo dormire, in modo da smaltire le anfetamine.
La mia immedesimazione con Rodrigo Cummings era così totale da farmi paura. Io ero esattamente come lui e tale somiglianza cominciò a impressionarmi. Con un gesto che considerai di nichilismo totale e suicida, presi una stanza in un decrepito albergo di Hollywood.
I tappeti verdi erano costellati da orrende bruciature di sigarette, che si capiva erano state spente appena prima di trasformarsi in incendi veri e propri. Aveva tende verdi e pareti verdi dall’aspetto incolore. Un’insegna lampeggiante dell'hotel brillava tutta la notte attraverso la finestra.
Finii così per fare proprio quello che mi aveva chiesto don Juan, seguendo però un mio percorso individuale: non lo feci per soddisfare le sue esigenze o con l’intenzione di appianare le nostre divergenze. Rimasi in quella camera per mesi, finché, come mi aveva detto, la mia persona morì e per me non ci fu più alcuna differenza tra l’avere o meno compagnia.
Dopo aver lasciato l’albergo andai a vivere da solo, in un posto più vicino all’università. Ripresi gli studi di antropologia, che in realtà non avevo mai interrotto e, insieme a un’amica, misi in piedi un’attività commerciale molto redditizia. Sembrava che stesse andando tutto alla perfezione, finché un giorno non mi resi dolorosamente conto che stavo per passare il resto dei miei giorni nell’angoscia per i miei affari, o per il fatto di dover compiere la fantomatica scelta tra l’essere un accademico o un uomo d’affari, o nella preoccupazione per le fissazioni e la disonestà della mia socia. Una profonda disperazione si annidò nel profondo del mio essere. Per la prima volta in vita mia, nonostante tutto ciò che avevo visto e fatto, non avevo via di scampo. Sentendomi completamente perso, cominciai a prendere in seria considerazione l’idea che la soluzione più pratica e indolore fosse quella di porre fine ai miei giorni.
Un mattino venni svegliato da qualcuno che bussava con forza e insistenza alla mia porta. Convinto che fosse la padrona di casa, e che sarebbe entrata con la sua chiave se l’avessi ignorata, andai ad aprire e mi trovai davanti don Juan. Mi colse così di sorpresa che rimasi sbalordito e, incapace di pronunciare una sola parola, mi limitai a balbettare e farfugliare. Avrei voluto baciargli la mano e inginocchiarmi ai suoi piedi. Entrò e si accomodò disinvolto sul bordo del mio letto.
«Sono venuto a Los Angeles solo per vederti» esordì.
Gli chiesi di uscire a fare colazione con me, ma lui disse che aveva altre cose da fare e che aveva solo un minuto per parlarmi. Gli raccontai velocemente l’esperienza vissuta in albergo. La sua presenza mi aveva talmente sconvolto che non mi venne nemmeno in mente di chiedergli come avesse fatto a trovarmi. Gli confessai invece di aver intensamente rimpianto tutte le cose che gli avevo detto a Hermosillo.
«Non devi affatto scusarti» mi rassicurò. «Ognuno di noi si comporta allo stesso modo. Una volta sono fuggito anch’io dal mondo degli sciamani e ho dovuto rischiare di morire per rendermi conto della mia stupidità. L’unica cosa che conta è arrivare al punto di rottura, in qualunque modo, ed è esattamente quello che hai fatto. Il silenzio interiore sta cominciando a diventare reale per te ed è proprio per questo motivo che mi trovo qui e ti sto parlando. Capisci cosa intendo?»
Ero certo di aver capito le sue parole. Immaginai che avesse intuito o percepito, nello stesso modo in cui percepiva le cose che aleggiavano nell’aria, che stavo ormai per impazzire ed era quindi venuto a salvarmi.
«Non hai tempo da perdere» riprese. «Nel giro di un’ora devi sciogliere la tua società commerciale, perché un’ora è tutto il tempo che posso permettermi di aspettare. Questo non significa che io non voglio attendere: è l’infinito che mi sta incalzando in maniera spietata. Diciamo che l’infinito ti sta concedendo un’ora per dissolverti. Per l’infinito l’unica impresa degna di un guerriero è la libertà, qualunque altra attività è un inganno. Riesci a far sparire ogni cosa in un’ora?»
Non fu necessario promettergli che l’avrei fatto. Sapevo di non avere scelta. Una volta eliminato tutto, avrei potuto trovare don Juan nella piazza del mercato di una cittadina messicana. Ero così concentrato sull’idea di porre fine ai miei affari, che non sentii cosa mi stava dicendo. Lo ripetè e naturalmente pensai che stesse scherzando.
«Don Juan, come posso arrivare in quella città? Vuoi che ci vada in macchina o che prenda un aereo?» gli chiesi.
«Prima elimina i tuoi affari e poi arriverà la soluzione» mi ordinò. «Ricorda che ti aspetterò solo per un’ora.»
Quando se ne andò, mi misi freneticamente all’opera. Com’è naturale, mi ci volle più di un’ora, ma non mi fermai a pensarci sopra perché, dopo essermi messo in moto, mi lasciai trasportare dallo slancio stesso del mio gesto. Solo dopo che ebbi finito mi trovai ad affrontare il vero dilemma, perché mi resi conto di aver fallito: ero rimasto senza lavoro e non avevo alcuna possibilità di raggiungere don Juan.
Andai a letto, in cerca dell’unica forma di conforto a cui riuscivo a pensare: il silenzio e la tranquillità. Per facilitare la venuta del silenzio interiore, don Juan mi aveva insegnato un modo speciale di sedermi sul letto, con le ginocchia piegate e le piante dei piedi che si toccavano, mentre le mani poste all’altezza delle caviglie spingevano i piedi, tenendoli uniti. Mi aveva dato un perno piuttosto grosso che tenevo sempre a portata di mano, alto una trentina di centimetri e in grado di sopportare il peso della mia testa se mi piegavo in avanti e lo ponevo sul pavimento tra i miei piedi. Appoggiavo poi la parte superiore del perno stesso, che era imbottita, al centro della fronte. Ogni volta che assumevo questa posizione, mi addormentavo in pochi secondi.
Dovevo essermi addormentato come al solito, perché sognai di trovarmi nella città messicana in cui mi aveva dato appuntamento don Juan. Era una località che mi aveva sempre intrigato. ll mercato si teneva una volta la settimana e i contadini che vivevano nella zona ci andavano a vendere i loro prodotti. L'aspetto più affascinante di quel paese era la strada lastricata che vi giungeva e che, proprio all’entrata, si inerpicava per una collina piuttosto ripida. Mi ero seduto spesso su una panchina di fianco al banco del formaggio, fissando quella collina. Vedevo le persone che arrivavano con i loro asini e il loro carico; per prima cosa scorgevo la loro testa, e, mentre continuavano ad avvicinarsi, distinguevo pian piano il resto del loro corpo; quando raggiungevano la vetta del colle li potevo vedere interamente. Avevo sempre l’impressione che stessero emergendo dalla terra, con estrema lentezza o in gran fretta, a seconda della loro velocità. Nel sogno, don Juan mi stava aspettando accanto al banco del formaggio. Mi avvicinai.
«Ci sei riuscito con il tuo silenzio interiore» mi disse, dandomi una pacca sulla schiena. «Hai raggiunto il tuo punto di rottura. Per un attimo ho perso la speranza, ma ti sono rimasto intorno, sapendo che ce l'avresti fatta.»
Andammo a fare una passeggiata e io ero più felice di quanto non fossi mai stato. Il sogno era così vivido e così spaventosamente reale che non ebbi più dubbi e mi convinsi di aver risolto il mio problema, anche se si trattava solo di una fantasia onirica.
Don Juan scoppiò a ridere e scosse il capo. Doveva aver letto i miei pensieri. «Non ti trovi in un semplice sogno, ma chi sono io per dirtelo?» esclamò. «Un giorno scoprirai che nello stato del silenzio interiore non si fanno sogni, ma lo scoprirai solo perché tu sceglierai di saperlo.»
Le misure della cognizione
Per don Juan, la fine di un’era non era una semplice metafora, ma piuttosto l'accurata descrizione del processo attraverso cui passano gli sciamani per smantellare la struttura del mondo che conoscono, in modo da sostituirlo con una maniera diversa di comprendere l’universo che li circonda. In qualità di maestro, fin dal nostro primo incontro, don Juan Matus si impegnò a farmi conoscere l’universo conoscitivo degli sciamani dell’ antico Messico. In quel periodo il termine cognizione era per me particolarmente controverso. Ritenevo che fosse il processo grazie al quale riconosciamo il mondo che ci circonda: certi aspetti ne fanno parte e noi siamo in grado di riconoscerli facilmente, altri invece restano esclusi e sono catalogati come le stranezze che non riusciamo a comprendere in alcun modo.
Fin dall’inizio del nostro rapporto, don Juan ha sempre dichiarato che il mondo degli sciamani dell'antico Messico era diverso dal nostro, non a livello superficiale ma per ciò che riguardava l’organizzazione del nostro processo cognitivo. Secondo lui, nel nostro mondo la cognizione richiede l’interpretazione dei dati sensoriali; l’universo è composto da un numero infinito di campi di energia che esistono sotto forma di filamenti luminosi, i quali agiscono sull’uomo come un organismo. L'organismo stesso reagisce trasformando questi campi energetici in dati sensoriali, che vengono poi interpretati. Tale interpretazione diventa il nostro sistema cognitivo. La mia comprensione della cognizione mi costringeva a credere che c’è un processo universale, come il linguaggio è un processo universale. Esiste una diversa sintassi per ciascun linguaggio, così come deve esserci un’organizzazione differente per ogni sistema di interpretazione.
Per quanto mi riguardava, l’affermazione di don Juan secondo cui gli sciamani dell'antico Messico possedevano un diverso sistema cognitivo, significava che avevano un modo diverso di comunicare, qualcosa che non aveva nulla a che fare con il linguaggio. Volevo disperatamente sentirgli dire che essi possedevano un sistema cognitivo diverso, cioè un linguaggio che era differente ma restava pur sempre un linguaggio. Per don Juan la fine di un’era significava che gli elementi di una cognizione sconosciuta cominciavano ad affermarsi. Gli elementi della mia cognizione normale, non importa quanto piacevoli e soddisfacenti fossero per me, cominciavano a svanire. Nella vita di un uomo, un momento del genere è a dir poco grave.
L’elemento che più apprezzavo era forse la mia vita accademica e qualunque cosa la mettesse a repentaglio rappresentava una minaccia alla mia stessa esistenza, soprattutto se l’attacco era nascosto e passava quasi inosservato. Accadde con un docente nel quale avevo riposto tutta la mia fiducia e cioè il professor Lorca.
Mi ero iscritto al suo corso sulla cognizione perché mi era stato raccomandato come uno dei docenti più brillanti. Era un uomo affascinante, coi capelli biondi pettinati di lato. La fronte ampia e priva di rughe gli dava l’aria di uno che non si era mai preoccupato in vita sua. Indossava abiti di ottimo taglio e aveva l’abitudine di mettere la cravatta solo quando doveva incontrare qualche personaggio importante, cosa che gli assicurava un aspetto da eterno fanciullo.
Nella memorabile occasione della mia prima lezione con lui, ero incredulo e nervoso osservandolo mentre camminava avanti e indietro per minuti che mi parvero un’eternità. Continuava a muovere le labbra sottili e serrate, ampliando all’infinito la tensione che aveva creato in quell’aula soffocante dalle finestre chiuse. All’improvviso si fermò. Stava in mezzo alla stanza, a pochi metri da dove ero seduto, e battendo sul podio un giornale arrotolato iniziò a parlare.
«Non si potrà mai sapere ...» esordì.
Tutti gli studenti si misero subito a prendere nota.
«Non si potrà mai sapere» ripetè, «cosa prova un rospo seduto sul fondo di uno stagno, intento a interpretare il suo mondo da rospo.» La sua voce era terribilmente forte e decisa. «Che ne pensate di questo?» ci chiese poi, agitando il giornale sopra la testa.
Cominciò quindi a leggere un articolo che riportava il lavoro di un biologo, il quale aveva descritto ciò che provano le rane quando gli insetti volano sopra la loro testa.
«Questo brano mostra la superficialità del giornalista, che ha sicuramente citato in maniera errata lo studioso» dichiarò con l'autorità di un vero docente. «Per quanto possa essere incompetente, uno scienziato non può antropomorfizzare i risultati delle sue ricerche, a meno che non si tratti di uno stupido.»
Dopo questa introduzione, si esibì in una brillante conferenza sui limiti del nostro sistema cognitivo, o meglio, sul sistema cognitivo di qualunque organismo. Con quella sua prima lezione mi fornì un assortimento completo di nuove idee, semplici e pronte per l’uso. Per quanto mi riguardava, il concetto più innovativo era quello secondo cui ogni individuo di ogni specie sulla terra interpreta il mondo che lo circonda facendo ricorso ai dati raccolti dai suoi sensi specializzati. Di conseguenza, gli esseri umani non possono Immaginare cosa si possa provare, per esempio, in un universo regolato dall’eco come accade in quello dei pipistrelli, dove gli eventuali punti di riferimento non possono nemmeno essere concepiti dalla mente umana. ll professor Lorca chiarì con estrema precisione che da quel punto di vista, nell’ambito delle varie specie non potevano esistere due sistemi cognitivi uguali.
Quando lasciai l’auditorio dopo l’ora e mezza di lezione, sentivo che quell’uomo dalla mente così brillante mi aveva stupefatto e da quel momento divenni un suo fervente ammiratore. Trovavo che le sue conferenze stimolassero il pensiero ed erano le uniche che attendevo con ansia. Considerando la sua notevole capacità di insegnamento e il fatto che era un vero innovatore nell’ ambito della psicologia, non mi sentivo per nulla infastidito dalle sue eccentricità.
Cominciai a seguire i suoi corsi due anni dopo aver iniziato il lavoro con don Juan. Essendo molto abitudinario, mi risultava facile riferire al vecchio sciamano tutto ciò che accadeva nel mio mondo quotidiano e alla prima occasione gli raccontai anche ciò che stava succedendo con il professor Lorca, glorificandolo e dichiarando che era il mio modello. Don Juan sembrò colpito da tanta ammirazione, ma mi diede uno strano avvertimento.
«Non ammirare le persone da lontano» mi suggerì. «Questo è il modo più sicuro per creare esseri mitologici. Cerca invece di avvicinare il tuo insegnante, parlagli e vedi che uomo è. Mettilo alla prova. Se si comporta così perché è convinto di essere destinato a morire, qualunque cosa faccia, per quanto assurda, dev’essere premeditata e definitiva. Se invece quelle che dice sono solo parole, non vale un accidente.»
Mi sentii insultato oltre ogni limite dall’apparente insensibilità di don Juan, che giudicai geloso dei miei sentimenti nei confronti del professor Lorca. Non appena formulai quel pensiero nella mia mente, mi sentii subito sollevato e capii ogni cosa.
«Don Juan, che cos’è un essere consapevole di dover morire?» gli chiesi, in modo da finire la nostra conversazione con un tono ben diverso. «Te l’ho sentito dire molte volte, ma non mi hai mai dato una definizione precisa.»
«Gli uomini sono esseri destinati a morire» mi spiegò. «Gli sciamani ritengono che l’unico modo per avere una certa presa sul nostro mondo e su ciò che noi facciamo sia la nostra piena accettazione del fatto che ci avviamo verso la morte. Senza questo gesto fondamentale, la nostra esistenza, ciò che facciamo e l’universo in cui viviamo diventano questioni ingovernabili.»
«Ma è così importante questa semplice accettazione?» gli chiesi, quasi protestando.
«Puoi scommetterei!» mi rispose lui sorridendo. «Non è l’accettazione in sé a fare il trucco. Dobbiamo infatti comprendere questa accettazione e viverla fino in fondo. Secondo gli sciamani di tutte le epoche, non c’è nulla in grado di farci rinsavire quanto la visione della nostra morte. Ciò che è ...bagliato in noi esseri umani e lo è sempre stato sin dalla notte dei tempi è il fatto che addirittura senza prenderei la briga di dichiararlo con molte parole, siamo convinti di essere entrati nel regno dell’immortalità. Ci comportiamo infatti come se non dovessimo mai morire e questo è da parte nostra un gesto di arroganza infantile. E ancora più dannoso è il senso di immortalità che ne deriva, l’idea cioè di poter inghiottire nella mente questo universo che non è concepibile.»
Fbi preso senza pietà nel mezzo di un conflitto mortale di idee: la saggezza di don Juan da un lato e la conoscenza del professor Lorca dall’altro. Entrambe erano difficili, oscure, complete e affascinanti. Non potevo fare altro che seguire il corso degli eventi e lasciarmi trascinare ovunque mi portasse.
Seguii alla lettera il suggerimento di don Juan e feci del mio meglio per avvicinare il mio insegnante. Per l’intero semestre cercai di parlargli. Durante le ore di ricevimento mi recavo religiosamente nel suo ufficio, ma sembrava che lui non avesse mai il tempo per rivolgermi la parola. Anche se non riuscivo a parlargli, la mia ammirazione per lui era sconfinata; accettavo persino il fatto che non mi parlasse, anzi, non me ne importava nulla. Mi interessavano solo le idee che raccoglievo durante le sue splendide lezioni.
Riferivo poi a don Juan tutte le mie scoperte intellettuali. Avevo letto molti testi sulla cognizione. Don Juan insisteva più che mai perché stabilissi un contatto diretto con la fonte della mia rivoluzione intellettuale.
«Devi assolutamente parlare con lui» mi ordinò in tono insistente. «Gli sciamani non ammirano le persone immerse nel vuoto, ma parlano con loro e riescono a conoscerle, stabiliscono punti di riferimento e fanno confronti. Il tuo atteggiamento è piuttosto infantile, perché ti limiti ad ammirare a distanza. E la stessa cosa che succede a un uomo che ha paura delle donne: alla fine le sue gonadi prendono il sopravvento e lo spingono ad adorare la prima femmina che gli dice “Buongiorno”.»
Raddoppiai gli sforzi per stabilire un contatto con il professor Lorca, ma lui era come una sorta di fortezza impenetrabile. Quando confidai a don Juan le mie difficoltà, mi spiegò che per gli sciamani qualunque attività che coinvolgeva gli altri, anche se insignificante o di scarsa importanza, era come un campo di battaglia nel quale compivano le loro magie più potenti. Mi assicurò che il trucco di sentirsi a proprio agio in una situazione simile (cosa che non era mai stata il mio forte) consisteva nell'affrontare in maniera diretta il proprio rivale. Dichiarò di detestare le anime timide che si guardano bene dall’interagire con qualcuno e che persino quando interagiscono si limitano a inferire o a dedurre basandosi sui propri stati psicologici, senza percepire nulla di ciò che realmente accade. Interagiscono senza aver mai fatto parte dell'interazione.
«Guarda sempre l’uomo che sta facendo il tiro alla fune con te» riprese. «Non limitarti a tirare la tua estremità, alza lo sguardo e guardalo negli occhi: solo così saprai che è un essere umano, esattamente come te. Qualunque cosa possa dire o fare, sta tremando proprio come te. Uno sguardo del genere rende del tutto inerme il tuo rivale, anche se per un solo istante. E questo è il momento di sferrare il tuo colpo finale.»
Un giorno la fortuna fu dalla mia parte e riuscii a bloccare il docente nel corridoio davanti al suo ufficio.
«Professor Lorca, potrei parlarle per un momento?» gli chiesi.
«E tu chi diavolo sei?» ribattè disinvolto, come se fossi stato il suo migliore amico e mi stesse semplicemente chiedendo come stavo.
Nonostante il suo tono sgarbato, le sue parole non ebbero su di me alcun effetto. Mi sorrise a denti stretti, quasi volesse spingermi ad andarmene o a dirgli qualcosa di significativo.
«Sono uno studente di antropologia e sto eseguendo un lavoro di raccolta dei dati sul campo che mi permette di acquisire informazioni sul sistema cognitivo degli sciamani.»
Mi fissò, dubbioso e seccato, gli occhi che parevano due puntini blu colmi di disprezzo. Con la mano si pettinò i capelli all’indietro, come se un ciuffo gli fosse ricaduto sul viso.
«lo lavoro con un vero sciamano in Messico» continuai, cercando di provocare una reazione da parte sua. «Le assicuro che si tratta di un vero sciamano; mi ci è voluto più di un anno solo per convincerlo a rivolgermi la parola.»
Il professor Lorca si rilassò, aprì la bocca e mi parlò, agitando una mano delicata davanti agli occhi, quasi stesse impastando una pizza. Non potei fare a meno di notare i gemelli d’oro smaltati, perfettamente in tinta con il blazer verdastro.
«E cosa vorresti da me?» mi domandò.
«Vorrei solo che lei mi ascoltasse per un momento, per vedere se quello che sto facendo la può interessare.»
Fece un gesto di riluttanza e rassegnazione con le spalle, aprì la porta del suo ufficio e mi invitò a entrare. Sapevo di non avere tempo da perdere e gli feci una descrizione accurata della mia ricerca spiegandogli che stavo imparando procedure che non avevano nulla a che spartire con tutto ciò che avevo trovato nei testi di antropologia sullo sciamanesimo.
Mosse le labbra per un istante senza parlare e dichiarò poi che il difetto degli antropologi in generale consiste nel non concedersi mai il tempo sufficiente per imparare tutte le sfumature del sistema cognitivo usato dalle persone che stanno studiando. Definì la cognizione come un sistema di interpretazione che, per mezzo dell’uso, consente agli individui di utilizzare al meglio tutte le sfumature di significato che compongono l’ambiente sociale in oggetto.
Le sue parole chiarirono l’intero scopo del mio lavoro antropologico sul campo. Se non avessi acquisito il controllo di tutte le sfumature del sistema cognitivo degli sciamani dell'antico Messico, per me sarebbe stato inutile formulare qualunque idea in merito a quell'universo. Anche se il professor Lorca non avesse aggiunto una sola parola, ciò che mi aveva appena detto sarebbe stato più che sufficiente. Fece poi uno splendido discorso sulla cognizione.
«Il tuo problema è che il sistema cognitivo del nostro mondo quotidiano, che è familiare a tutti noi virtualmente fin dal giorno della nostra nascita, non è uguale al sistema cognitivo del mondo degli sciamani» disse.
La sua affermazione suscitò in me una vera euforia. Lo ringraziai con calore, assicurandogli che da parte mia avevo una sola possibilità: avrei accettato le sue idee illimitatamente.
«Ciò che ti ho detto è alla portata di tutti» concluse, spingendomi fuori dal suo ufficio. «Chiunque legga qualcosa sull’argomento ne è consapevole.»
Ci salutammo intono quasi amichevole. D racconto che feci a don Juan di come ero riuscito ad avvicinare il professor Lorca provocò una strana reazione: il vecchio sciamano mi parve preoccupato e sollevato al tempo stesso.
«Ho l’impressione che il tuo professore non sia quello che vorrebbe far credere» mi disse. «Dal punto di vista degli sciamani, naturalmente. Farse è meglio lasciar perdere adesso, prima che ti senta troppo coinvolto. Una delle arti elevate degli sciamani è sapere il momento in cui bisogna fermarsi. Credo che tu abbia ottenuto dal tuo professore tutto il possibile.»
Reagii subito con una sfilza di difese e accuse a favore del mio insegnante. Don Juan provò a calmarmi, assicurandomi che non era sua intenzione criticare o giudicare nessuno, ma che, per quanto ne sapeva lui, ben poche persone capivano quando era il momento di arrendersi ed erano ancora meno numerose quelle che sapevano come sfruttare realmente la loro conoscenza.
Nonostante i suoi avvertimenti, non lasciai perdere e divenni invece lo studente più fedele del professor Lorca, suo seguace e ammiratore. Il docente sembrava provare un genuino interesse nei confronti del mio lavoro, anche se si sentiva frustrato a causa della mia riluttanza e incapacità di formulare concetti precisi sul sistema cognitivo del mondo degli sciamani.
Un giorno il professore formulò appositamente per me il concetto dello studioso in visita in un altro mondo cognitivo. Era disposto a mantenere una certa apertura mentale e a valutare, in qualità di studioso della società, la possibilità di un sistema cognitivo diverso. Arrivò a elaborare una vera e propria ricerca nell’ambito della quale avremmo raccolto e analizzato protocolli. I problemi legati alla cognizione sarebbero stati elaborati e passati poi agli sciamani che conoscevo, in modo da misurarne, per esempio, la capacità di focalizzare la loro cognizione su due diversi aspetti del comportamento.
Secondo lui, la prova sarebbe potuta iniziare con un semplice paradigma nell’ambito del quale essi dovevano cercare di capire e ricordare un testo scritto che avrebbero letto mentre erano impegnati a giocare a poker. La difficoltà della prova sarebbe poi aumentata, in modo da misurare per esempio la loro capacità di focalizzare la cognizione su frasi complesse, che qualcuno avrebbe detto loro mentre dormivano. Il professor Lorca voleva far eseguire un’analisi linguistica sulle cose dette dagli sciamani; si aspettava inoltre una valutazione precisa delle loro reazioni in base a velocità e precisione e altre variabili che sarebbero divenute predominanti con il progredire del progetto.
Quando gli riferii i metodi con cui il mio docente voleva misurare la cognizione degli sciamani, don Juan scoppiò in una risata irrefrenabile.
«ll tuo professore mi è davvero simpatico» disse. «Ma non vorrai misurare sul serio la nostra cognizione? A cosa può mai servirgli valutare le nostre reazioni? Si convincerà che siamo un branco di impostori, perché lo siamo davvero. Noi non possiamo essere più intelligenti e veloci di un uomo nodale. In effetti, non è certo colpa sua se è convinto di poter confrontare tipi di cognizione di mondi diversi. La colpa è solo tua, perché non sei riuscito a spiegargli che quando si parla del mondo cognitivo degli sciamani dell'antico Messico, si fa riferimento a cose di cui non esiste l’equivalente nel mondo della vita quotidiana.
«Per esempio, percepire l’energia direttamente così come fluisce nell’universo, è un’unità di misura della cognizione degli sciamani, che vedono come fluisce l’energia e ne seguono l’onda. Se tale flusso viene ostacolato, essi si mettono a fare qualcos’altro. Gli sciamani vedono le linee dell’universo; la loro arte, o il loro lavoro, consiste nello scegliere la linea che li porterà, grazie alla percezione saggia, in regioni che non hanno nome. Puoi dire che gli sciamani reagiscono immediatamente alle linee dell’universo;
vedono gli uomini come palle luminose e cercano in essi il loro flusso di energia. Naturalmente reagiscono subito a questa visione e tutto ciò fa parte della loro cognizione.»
Spiegai a don Juan che non potevo parlare di queste cose con il mio docente perché non avevo mai fatto niente del genere. La mia cognizione era rimasta immutata.
«Ah!» esclamò. «In realtà non hai ancora avuto il tempo di comprendere gli elementi di cognizione del mondo degli sciamani.»
Lasciai la casa di don Juan più confuso che mai. Dentro di me c’era una voce che mi chiedeva virtualmente di porre fine a tutti i miei sforzi con il professor Lorca. Mi rendevo conto che don Juan aveva avuto ragione quando mi aveva detto che le questioni pratiche a cui si interessavano gli scienziati portavano alla creazione di macchine sempre più complesse. 'Tali aspetti pratici non erano in grado di cambiare l’esistenza di un uomo dal profondo del suo essere e non servivano a comprendere la vastità dell’universo da una prospettiva personale ed esperienziale. Le splendide macchine già esistenti, al pari di quelle in costruzione, erano faccende culturali, la cui realizzazione doveva essere assaporata in maniera indiretta persino dai loro stessi creatori: per loro l’unica ricompensa possibile era di carattere finanziario.
Facendomi notare tutti questi fatti, don Juan era riuscito a rendermi ancora più curioso. Cominciai a mettere in discussione le idee del professor Lorca, cosa che non avevo mai fatto fino ad allora. Nel frattempo il mio docente continuava a sentenziare nuove stupefacenti verità sulla cognizione: le sue dichiarazioni erano sempre più rigorose delle precedenti e quindi più incisive.
Al termine del secondo semestre avevo raggiunto una posizione di stallo, perché mi risultava del tutto impossibile unire la linea di pensiero di don Juan e quella del professor Lorca, che correvano su binari paralleli. Capivo la spinta di quest'ultimo a qualificare e quantificare lo studio della cognizione. In quel periodo la cibernetica era appena dietro l’angolo e l’aspetto pratico dello studio della cognizione era una realtà. Ma era reale anche il mondo di don Juan, che non poteva però essere misurato con strumenti normali; avevo avuto il privilegio di vederlo, nelle azioni del vecchio sciamano, ma non lo avevo vissuto in prima persona. Avevo l’impressione che fosse proprio tale mancanza a rendere impossibile il contatto di quei due mondi.
Ne parlai con don Juan in occasione di una delle mie visite e mi rispose che non era esatto dire che quello che consideravo un mio difetto era la causa che impediva di trovare il punto di contatto: secondo lui il problema era qualcosa di più vasto, che non si limitava alle semplici circostanze riguardanti un singolo individuo.
«Farse ricordi ciò che ti ho detto in merito a uno dei più grandi difetti di noi esseri umani» mi disse.
Non ricordavo niente in particolare, dato che mi aveva indicato un’infinità di difetti e la mia mente non riusciva a contenerli tutti.
«Tu vuoi qualcosa di specifico, ma non saprei cosa risponderti.»
«Il grosso difetto a cui mi riferisco è qualcosa che dovresti tenere a mente in ogni secondo della tua esistenza. Ritengo sia la questione fondamentale e te la ripeterò fino a quando non ti uscirà dalle orecchie» disse.
Dopo averci pensato a lungo, mi arresi.
«Noi siamo esseri destinati a morire» dichiarò. «Non siamo immortali, ma ci comportiamo come se lo fossimo. Questo è l’errore che ci condanna a livello individuale e un giorno ci condannerà anche come specie.»
Secondo don Juan, gli sciamani, al contrario dell’uomo normale, hanno il vantaggio di sapere che sono esseri destinati a morire e non si permettono di deviare da tale conoscenza. Per dedurre e mantenere tale verità come una certezza totale è necessario uno sforzo enorme. «Per quale motivo ci risulta così difficile ammettere qualcosa di profondamente vero?» gli chiesi, sbalordito dalla vastità della nostra contraddizione.
«In realtà non è colpa dell’uomo» mi spiegò in tono conciliante. «Un giorno ti dirò di più sulle forze che lo spingono a comportarsi come un idiota.»
Non c’era altro da dire. Il silenzio che seguì era a dir poco sinistro. Non volevo nemmeno sapere quali fossero le forze a cui si riferiva.
«Non mi è affatto difficile valutare a distanza il tuo professore» riprese don Juan. «E uno scienziato immortale, non morirà mai. E per quanto riguarda le preoccupazioni legate alla morte, sono certo che se ne è già occupato. Ha comperato il loculo dove verrà sepolto e ha stipulato una polizza assicurativa che si prenderà cura della sua famiglia. Dopo aver sbrigato queste due formalità, non pensa più alla morte e si concentra solo sul suo lavoro. Quando il professor Lorca parla, le sue affermazioni hanno senso perché sa scegliere con cura le parole. Ma non è pronto a considerare se stesso come un uomo che deve morire. Essendo immortale, non sa come regolarsi. Qualunque macchina gli scienziati possano creare, non ha alcuna importanza, perché le macchine non sono in grado di aiutare nessuno ad affrontare l’appuntamento inevitabile, quello con l’infinito.»
«Il nagual Julian mi parlava sempre dei generali dell’ antica Roma» continuò. «Quando tornavano in patria vittoriosi, si organizzavano enormi parate per onorarli. I conquistatori sfilavano sui loro carri, mettendo in mostra i tesori rubati e le persone che avevano ridotto in schiavitù. Accanto a loro c’era sempre uno schiavo che aveva il compito di sussurrare all’orecchio che la fama e la gloria sono transitorie. Se noi siamo in qualche modo vittoriosi, non abbiamo nessuno che ci ricorda come i nostri successi siano momentanei. Sapendo di essere destinati a morire, gli sciamani sono invece facilitati, hanno sempre qualcuno che sussurra loro all’orecchio che tutto è effimero: la morte, il consigliere infallibile, l’unico che non racconta mai bugie.»
Il Dire grazie
«I guerrieri-viaggiatori non si lasciano mai alle spalle debiti non pagati» dichiarò don Juan.
«A cosa ti riferisci?» gli chiesi.
«E giunto per te il momento di saldare certi debiti che hai contratto nell’arco della tua esistenza» mi disse. «Questo non significa che potrai mai pagarli del tutto, ma solo che devi compiere il gesto, qualcosa di simbolico che ti permetta di espiare, in modo da compiacere l’infinito. Mi hai parlato di Patricia Turner e Sandra Flanagan, due amiche che hanno contato molto per te: adesso devi andare a cercarle e fare a ognuna un regalo che ti costerà tutto ciò che possiedi. Devi fare loro due doni che ti lasceranno senza un soldo. Ecco il gesto.»
«Ma non so dove siano» protestai.
«Trovarle è la tua sfida. Nella tua ricerca non puoi trascurare alcuna traccia. Ciò che vuoi fare è molto semplice e al tempo stesso quasi impossibile: devi oltrepassare la soglia dell’obbligo personale e, con un solo gesto, ritrovarti libero, per poter avanzare. Se non riesci a varcare tale soglia, non ti servirà continuare con me.»
«Come ti è venuto in mente di affidarmi questo incarico?» gli domandai. «Te lo sei inventato perché lo ritieni giusto?»
«Io non invento nulla» ribattè lui, con noncuranza. «Ho ricevuto questo compito dall’infinito stesso. Non è facile per me dirti queste cose. Se credi che io mi diverta ad assistere ai tuoi guai, ti sbagli. D successo della tua missione è più importante per me che non per te. Se fallisci, hai ben poco da perdere, solo i nostri incontri; io invece perderei te e questo significa perdere la continuità della mia stirpe o la possibilità che tu la chiuda con una chiave d’oro.»
Don Juan rimase in silenzio. Sapeva sempre quando la mia mente ribolliva.
«Ti ho detto più volte che i guerrieri-viaggiatori sono pragmatici. Non si lasciano coinvolgere dal sentimentalismo, dalla nostalgia o dalla malinconia. Per loro esiste solo la lotta, che non ha mai fine. Se credi di essere arrivato fin qui per trovare pace, o che questo possa essere un momento di calma nella tua esistenza, ti sbagli. D compito di saldare i tuoi debiti non è guidato da sentimenti che conosci, ma solo dal più puro dei sentimenti: è il sentimento di un guerriero-viaggiatore che sta per tuffarsi nell’infinito e appena prima di compiere tale balzo, si gira a ringraziare coloro che l’hanno aiutato.
«Devi affrontare questo incarico con tutta la solennità che merita» continuò. «E la tua ultima fermata prima che l’infinito ti inghiotta. In effetti, a meno che un guerriero-viaggiatore non si trovi in uno stato di grazia, l’infinito non lo toccherà nemmeno con un bastone lungo trenta metri. Cerca quindi di non risparmiarti e non lesinare gli sforzi. Prosegui senza sosta, ma con eleganza, fino alla fine.»
Avevo incontrato le due persone a cui si riferiva don Juan quando frequentavo le superiori. In quel periodo vivevo nell’appartamento sopra il garage dei genitori di Patricia Turner. In cambio di vitto e alloggio tenevo pulita la piscina, raccoglievo le foglie secche, mettevo fuori l’immondizia e preparavo la colazione per Patricia e me. Ero il tuttofare della famiglia e facevo anche l’autista: accompagnavo la signora Turner a fare spese e acquistavo gli alcolici per il marito, portandoli di nascosto in casa nel suo studio.
Il signor Turner era un dirigente nel ramo assicurativo e amava bere in solitudine. In seguito a questa sua smodata passione si erano verificate numerose liti in famiglia ed egli aveva promesso che non avrebbe mai più toccato una bottiglia. Mi confessò che, pur avendo diminuito in maniera notevole il consumo di alcolici, aveva bisogno di farsi un goccetto di tanto in tanto. Il suo studio era vietato a tutti tranne che a me: in teoria andavo a fare le pulizie, mentre in realtà nascondevo le bottiglie in una trave che pareva sostenere un arco sul soffitto, ma era invece vuota. Dovevo far entrare di nascosto le bottiglie nuove e togliere quelle vuote, che portavo poi al mercato.
Diplomata in musica e arte drammatica, Patricia era una cantante fantastica, che sognava di esibirsi nei musical di Broadway. Inutile dire che ero innamorato di lei alla follia. Era snella e atletica, una brunetta dai lineamenti duri, alta almeno dieci centimetri più di me (il fatto che una donna fosse più alta di me mi faceva letteralmente impazzire).
Sembravo soddisfare il suo bisogno di occuparsi di qualcuno, una necessità che si fece ancora più intensa dopo che si rese conto che suo padre si fidava di me. Divenne così la mia mammina. Non potevo nemmeno aprire la bocca senza il suo consenso, mi teneva d’occhio come un falco, mi scriveva i compiti di fine corso, e leggeva i miei testi per poi farmi i riassunti. A me tutto ciò piaceva, non perché volessi essere accudito: credo che una simile esigenza non abbia mai fatto parte della mia cognizione. Semplicemente, mi piaceva che lei lo facesse e amavo la sua compagnia.
Mi portava al cinema tutti i giorni. Poteva entrare gratuitamente nei più grandi cinema di Los Angeles grazie ai lasciapassare che certi pezzi grossi dell'ambiente regalavano a suo padre. Il signor Turner non li usava mai, perché riteneva che per un uomo come lui fosse un comportamento per nulla dignitoso. Gli addetti alla cassa rilasciavano sempre una ricevuta a coloro che presentavano tali permessi; a Patricia non dava fastidio firmare, ma a volte ne capitava qualcuno particolarmente odioso che voleva la firma del signor Turner, e dopo che io avevo firmato pretendeva anche di vedere la mia patente. Una volta un ragazzotto sfacciato si permise un commento che fece ridere entrambi, ma mandò su tutte le furie Patricia.
«Io credo che tu sia il signor Turd [Ndr. 'Turd significa stronzo] e non il signor Turner» mi disse con il sorriso più cattivo che si possa immaginare. Avrei potuto ignorare la sua frecciata, ma ci umiliò ancora di più impedendoci di entrare a vedere Hercules revisited con Steve Reeves.
Di solito andavamo dappertutto con Sandra Flanagan, la migliore amica di Patricia, che viveva con i genitori nella casa accanto. Sandra era l'opposto di Patricia: era alta quanto lei, ma aveva la faccia rotonda, con le guance rosee e la bocca sensuale ed era sana come un pesce. Non le interessava cantare, badava solo ai piaceri sensuali del corpo. Poteva bere, mangiare e digerire qualunque cosa e dopo aver finito il suo piatto riusciva a spazzolare anche il mio, cosa che mi conquistò del tutto dato che non ero mai riuscito a fare niente del genere in vita mia, essendo piuttosto esigente per quanto riguarda l’alimentazione. Era anche molto atletica, ma in un modo forte e sano. Avrebbe potuto sferrare pugni come un uomo e tirare calci come un mulo.
In segno di gentilezza nei confronti di Patricia, svolgevo anche per i genitori di Sandra le stesse incombenze che sbrigavo per i suoi: tenevo pulita la piscina, toglievo le foglie dal prato, portavo fuori l’immondizia nei giorni in cui passavano a ritirarla e bruciavo i giornali vecchi e la spazzatura. In quel periodo l’inquinamento atmosferico di Los Angeles veniva aumentato dall’uso degli inceneritori casalinghi, situati in genere nei cortili sul retro.
Farse fu per via della stretta vicinanza o della disponibilità di quelle due donne, ma finii per innamorarmi alla follia di tutte e due.
Chiesi consiglio a Nicholas van Hooten, un mio giovane amico molto strano che aveva due fidanzate e viveva con entrambe in uno stato di pura beatitudine, almeno all’apparenza. Cominciò fornendomi quello che definiva il più semplice dei suggerimenti e cioè come comportarsi al cinema quando si hanno due fidanzate. Mi spiegò che in casi del genere lui si concentrava sempre su quella che stava seduta alla sua sinistra. Dopo un po’ le due ragazze andavano in bagno e, al ritorno, Nicholas chiedeva loro di scambiarsi i posti: Anna si sedeva al posto di Betty ed erano tutti felici e contenti. In teoria quello era il primo passo del lungo processo che, avrebbe portato le due ragazze ad accettare il triangolo. Essendo piuttosto sdolcinato, Nicholas ricorreva all'ormai banale espressione francese ménage à trois.
Seguii il suo consiglio e andai a vedere un film muto in Fairfax Avenue con Patricia e Sandy feci sedere Patricia alla mia sinistra e riversai su di lei tutta la mia attenzione. A un certo punto andarono in bagno e quando tornarono chiesi loro di scambiarsi i posti. Quindi mi misi a fare quello che mi aveva suggerito Nicholas van Hooten, ma Patricia non ne volle sapere: si alzò di scatto e se ne andò come una furia, offesa e umiliata. Volevo correrle dietro per scusarmi, ma Sandra mi fermò.
«Lasciala andare» mi disse con un sorriso velenoso. «Dopo tutto è adulta, ha i soldi per pagarsi il taxi e tornare a casa.»
Mi lasciai convincere e rimasi là a baciarla, nervoso e oppresso dai sensi di colpa. Ero nel bel mezzo di un bacio appassionato quando mi sentii afferrare i capelli e tirare all’indietro. Era Patricia, che riuscì a far cadere la mia fila di poltroncine che non era fissata a terra, saltando agilmente fuori prima che finisse sulla fila appena dietro, quella in cui si trovava lei. Sentii il grido di terrore di due spettatori seduti nei posti in fondo, proprio di fianco al corridoio.
Il suggerimento di Nicholas van Hooten si rivelò ben poco efficace. Patricia, Sandra e io tornammo a casa nel silenzio più assoluto. In un mare di lacrime e scambiandoci strane promesse riuscimmo ad appianare la situazione. Il risultato della nostra relazione a tre fu che per poco non distruggemmo noi stessi. Non eravamo preparati a un simile sforzo. Non sapevamo come risolvere i problemi di affetto, moralità, etica e dovere. Non me la sentivo di lasciare una per scegliere l’altra, così come entrambe non riuscivano a lasciare me. Un giorno, al culmine di una terribile discussione, in preda alla disperazione, ce ne andammo ognuno in una direzione diversa e non ci rivedemmo mai più.
Ero a pezzi. Niente di quello che feci riuscì a cancellare l’importanza che avevano avuto quelle due donne nella mia esistenza. Lasciai Los Angeles e mi dedicai a una miriade di cose diverse, cercando di placare la mia nostalgia. Senza esagerare, posso dire di aver patito i tormenti dell’inferno, dei quali credevo che non mi sarei mai più liberato. Se non fosse stato per l’influenza che don Juan ebbe in seguito sulla mia vita e sulla mia persona, non avrei mai superato i miei demoni privati. Dissi a don Juan che sapevo di essermi comportato male e che non avevo il diritto di coinvolgere persone meravigliose come loro in una faccenda così stupida e sordida, che non ero riuscito ad affrontare.
«L’unica cosa sbagliata era il fatto che voi tre eravate completamente persi nell’ego. La vostra presunzione vi ha quasi distrutti, ma se togliete la presunzione, vi restano solo i sentimenti. Cerca di accontentarmi e prova a fare questo semplice esercizio che per te potrebbe avere un’enorme importanza: cancella dal ricordo di quelle due ragazze qualunque frase del tipo: “Lei mi ha detto questo o quello e lei ha urlato e l’altra ha strillato a Me!” e mantieniti al livello delle tue emozioni. Se tu non fossi stato così pieno di boria, che cosa ti sarebbe rimasto?»
«L’amore che provo per entrambe» gli risposi, sentendomi soffocare.
«Ed è meno grande oggi rispetto ad allora?» mi chiese don Juan.
«No, non lo è» gli risposi in tutta sincerità, riprovando la stessa angoscia che mi aveva tormentato per anni. «Questa volta, abbracciale dal tuo silenzio» mi suggerì. «Non essere stupido. Abbracciale in maniera completa per l’ultima volta, con l’intento che questa sarà l’ultima volta che lo farai qui, sulla faccia della terra. L’intento deve provenire dalla tua oscurità. Se vali davvero qualcosa, quando consegnerai loro i doni riassumerai per due volte la tua intera esistenza. Gesti di questa natura rendono i guerrieri simili all’aria, quasi vaporosi.»
Seguendo le istruzioni di don Juan, mi impegnai a fondo. Mi ero infatti reso conto che se non ne fossi uscito vincitore, il vecchio sciamano non sarebbe stato l’unico a perdere qualcosa. Io stesso avrei perso qualcosa e, quale che fosse, sarebbe stata per me importante quanto ciò di cui lui mi aveva tanto parlato: mi sarei infatti lasciato sfuggire l’opportunità di affrontare l’infinito e di esserne consapevole.
n ricordo di Patricia Turner e Sandra Flanagan mi fece precipitare nello sconforto. n senso devastante di una perdita irreparabile che mi aveva perseguitato per tutti quegli anni era più vivo che mai. Quando don Juan rese ancora più intenso quel sentimento, ebbi l’assoluta certezza che ci sono cose che restano con noi per la vita e forse anche oltre. Dovevo trovare Patricia Turner e Sandra Flanagan. L'ultima raccomandazione di don Juan fu che, se ci fossi riuscito, non avrei dovuto restare con loro; avrei avuto soltanto il tempo di fare ammenda delle mie colpe e abbracciare ciascuna di loro con tutto l’affetto che provavo, mettendo a tacere le voci rabbiose della recriminazione, dell'autocommiserazione o dell’egocentrismo.
Mi imbarcai così nell’impresa immane di scoprire che fine avevano fatto e dove si trovavano. Cominciai interrogando la gente che conosceva i loro genitori, che si erano però trasferiti e non vivevano più a Los Angeles: nessuno seppe fornirmi una traccia della loro nuova residenza e non sapevo con chi parlare. Pensai di mettere un annuncio su un giornale, ma cambiai subito idea perché era possibile che non vivessero nemmeno più in California. Alla fine dovetti ricorrere a un investigatore privato che grazie ai suoi contatti con qualche ufficio statale e con non so chi altro riuscì a rintracciarle in un paio di settimane.
Vivevano a New York, a poca distanza una dall’altra e la loro amicizia era stretta come un tempo. Andai a New York e affrontai per prima Patricia Turner. Non era diventata una stella di Broadway come avrebbe voluto, ma faceva comunque parte di una produzione. Non cercai di scoprire se si esibiva come artista o lavorava invece nel settore amministrativo. Andai a trovarla nel suo ufficio. Quando mi vide rimase sconvolta, e non mi disse cosa faceva. Ci sedemmo vicini, tenendoci per mano e piangendo. Non le dissi neanch’io cosa facevo. Mi limitai a spiegarle che l’avevo cercata per farle un dono che avrebbe dovuto esprimerle la mia gratitudine e che stavo per partire per un viaggio da cui non avevo intenzione di tornare.
«Perché dici queste cose orrende?» mi chiese con aria sinceramente preoccupata. «Che cosa hai in mente di fare? Hai forse qualche malattia? Eppure non sembri malato...»
«È solo una metafora» mi affrettai a rassicurarla. «Sto per tornare in Sudamerica, dove ho intenzione di cercar fortuna. La competizione è feroce e la situazione complessa. Se voglio avere successo, devo concentrarmi al massimo.»
Sollevata, mi abbracciò. Sembrava uguale a com’era un tempo, ma appariva molto più grande, forte, matura ed elegante. Le baciai le mani, sopraffatto da un’ondata d’affetto. Don Juan aveva ragione: se non lasciavo spazio alle recriminazioni non mi restavano altro che i miei sentimenti.
«Voglio farti un regalo, Patricia Turner» le dissi. «Chiedimi quello che vuoi e se è alla mia portata, te lo comprerò.»
«Sei diventato ricco?» esclamò, mettendosi a ridere. «La cosa più bella di te è che non hai mai avuto niente e non l’avrai mai. Sandra e io parliamo di te quasi tutti i giorni e immaginiamo che ti guadagni da vivere parcheggiando le macchine, facendoti mantenere dalle donne o roba del genere. Mi dispiace ma ti vogliamo ancora bene, non possiamo farci nulla ...» ,
Le chiesi di nuovo di dirmi cosa voleva e lei si mise a piangere e ridere allo stesso tempo.
«Hai intenzione di comperarmi una pelliccia di visone?» mi domandò tra i singhiozzi.
Scompigliandole i capelli le risposi che l’avrei fatto.
«Se non ti piace, puoi riportarla al negozio e farti dare in cambio i soldi.»
Ridendo mi sferrò un pugno, come era solita fare un tempo. Dato che doveva tornare al lavoro, ci separammo dopo che le ebbi promesso che sarei tornato a vederla. Se non ci fossi riuscito, volevo comunque che sapesse che la forza della mia esistenza mi stava spingendo in una direzione diversa, ma io avrei conservato il suo ricordo per tutta la vita e forse anche oltre.
Tornai, ma solo per assistere da lontano alla consegna della pelliccia. Sentii i suoi urli di gioia. Quella parte del mio compito era finita. Me ne andai, ma non mi sentivo affatto vaporoso come diceva don Juan: avevo infatti riaperto una vecchia ferita che aveva ripreso a sanguinare. Non stava esattamente piovendo, ma una nebbia umida mi stava penetrando nelle ossa.
Poi mi recai da Sandra Flanagan, che viveva in un sobborgo di New York raggiungibile in treno. Bussai alla sua porta e quando venne ad aprirmi impallidì e mi guardò come se fossi stato un fantasma. Era più bella che mai, forse perché si era fatta più rotonda, e sembrava grande come una casa.
«Tu, tu, tu...» balbettava, incapace di pronunciare il mio nome.
Singhiozzava e per un momento mi sembrò arrabbiata, come se volesse rimproverarmi qualcosa. Non le diedi la possibilità di continuare. Il mio silenzio fu totale e alla fine fece effetto su di lei, perché mi lasciò entrare e ci sedemmo in soggiorno.
«Che ci fai qui?» mi chiese quando si fu calmata. «Non puoi restare! Sono una donna sposata! Ho tre figli e il mio matrimonio è molto felice.»
Parlando a scatti e veloce come una mitragliatrice, mi spiegò che suo marito era affidabile e buono anche se non molto fantasioso e per nulla sensuale e che lei doveva stare attenta perché, quando facevano l’amore, si stancava facilmente, al punto che a volte non riusciva poi ad andare al lavoro. Anche se quell’uomo si ammalava spesso, erano comunque riusciti ad avere tre splendidi bambini. Dopo la nascita del terzo figlio, il marito, che a quanto pareva si chiamava Herbert, aveva interrotto i loro rapporti sessuali, ma a lei non importava.
Cercai di tranquillizzarla, spiegandole più volte che ero andato semplicemente a trovarla e non avevo alcuna intenzione di cambiarle l’esistenza o infastidirla in qualunque maniera. Le raccontai quanto era stato difficile rintracciarla.
«Sono venuto a salutarti e a dirti che sei l’amore della mia vita. Vorrei farti un regalo simbolico che rappresenti la mia gratitudine e il mio affetto eterno.»
Colpita dalle mie parole, mi rivolse un ampio sorriso, com’era solita fare. La fessura tra i denti le dava un’aria infantile. Le dissi che era più bella che mai e ne ero profondamente convinto.
Scoppiò a ridere e mi rispose che stava per iniziare una dieta molto rigida e che se avesse immaginato che sarei andato a cercarla, l’avrebbe cominciata molto tempo prima. Si sarebbe messa subito al lavoro e, in occasione della mia prossima visita, l’avrei trovata snella come un tempo. Ricordò poi l’orrore della nostra vita comune e il modo profondo in cui era stata ferita. Nonostante fosse una fervente cattolica, era giunta a pensare al suicidio, ma in seguito aveva trovato nei figli il conforto che le serviva. Tutto quello che avevamo combinato non era altro che un effetto della gioventù, qualcosa che avremmo dovuto nascondere sotto il tappeto, senza spazzarlo via.
Quando le chiesi se c’era un regalo particolare che desiderava e che avrei potuto farle per dimostrare la gratitudine e l’affetto che provavo nei suoi confronti, scoppiò a ridere e mi rispose esattamente come Patricia Turner, dicendo che non avevo neppure un vaso dove pisciare e non l’avrei mai avuto, perché ero fatto proprio così. Dovetti insistere a lungo per farla cedere.
«Puoi comperarmi una station wagon dove ci sia posto per i miei figli?» mi chiese, divertita. «Vorrei una Pontiac o una Oldsmobile, con tutti gli accessori.»
Lo disse sapendo nel profondo del cuore che io non avrei mai potuto farle un dono del genere e invece glielo feci.
ll giorno dopo il concessionario consegnò la station wagon fuori dalla porta di casa. Rimasi nascosto in macchina, che era parcheggiata a una certa distanza, e sentii la sorpresa di Sandra che, in sintonia con la sensualità che la caratterizzava, non fu all’insegna della gioia ma si manifestò invece con una reazione fisica, un singhiozzo di angoscia e incredulità. Scoppiò in lacrime: io sapevo che non piangeva per il regalo ma per il desiderio che trovava eco in me. Crollai sul sedile della macchina.
Sul treno che mi riportava a New York e durante il volo di ritorno a Los Angeles, venni assalito dalla sensazione che la mia vita mi stesse sfuggendo, come un mucchio di sabbia che mi scorreva tra le dita. Dopo aver detto grazie e addio non mi sentivo affatto libero o cambiato: al contrario, il peso di quello strano attaccamento mi opprimeva più che mai. Avevo voglia di piangere. Nella mia mente continuavano ad apparire i titoli che il mio amico Rodrigo Cummings aveva inventato per libri che non furono mai scritti. Si era specializzato nella creazione di titoli; il suo favorito era Moriremo tutti a Hollywood e poi c’era anche Non cambieremo mai. Il mio preferito, che avevo acquistato per dieci dollari, era Vita e peccati di Rodrigo Cummings. Tutto quei titoli si agitavano nella mia mente. Ero Rodrigo Cummings, bloccato nel tempo e nello spazio, amavo due donne più della mia stessa vita e tutto ciò non sarebbe mai cambiato. E come il resto dei miei amici, sarei morto a Hollywood.
Confidai ogni cosa a don Juan, raccontandogli quello che consideravo il mio pseudo-successo. Con notevole sfacciataggine lui tagliò corto, dicendo che quello che provavo era solo il risultato di un eccessivo compiacimento nei miei confronti, oltre che di una notevole dose di autocommiserazione e che per poter dire con convinzione grazie e addio, sostenendo tale decisione, gli sciamani dovevano ricostruirsi.
«Cancella subito l’autocommiserazione» mi ordinò. «Elimina l’idea che sei stato ferito e che cosa ti resta?» Mi rimaneva la sensazione di aver fatto il mio ultimo dono a entrambe. E non per rinnovare qualcosa o ferire qualcuno, me compreso, ma nello spirito che don Juan aveva cercato di mostrarmi ... l o spirito di un guerriero-viaggiatore la cui sola virtù (così mi aveva detto don Juan) consiste nel mantenere vivo il ricordo di tutto ciò che l’ha toccato e il cui unico modo di dire grazie e addio è quell’atto di magia che gli consente di conservare nel suo silenzio qualunque cosa abbia amato.
OLTRE LA SINTASSI
II cerimoniere
Ero a casa di don Juan, a Sonora, e dormivo profondamente quando lui venne a svegliarmi. Ero rimasto alzato quasi tutta la notte, a rimuginare sui concetti che mi aveva illustrato.
«Hai riposato abbastanza» dichiarò con fermezza, quasi bruscamente, mentre mi scuoteva per la spalla. «Non indulgere nella sensazione della stanchezza. Più che stanchezza, il tuo è desiderio di non essere disturbato. Te la prendi se ti infastidiscono. Ma è essenziale che tu esasperi questo aspetto fino a distruggerlo. Andiamo a camminare.»
Don Juan aveva ragione. C’era una parte di me che detestava in modo estremo essere disturbata. Avrei voluto dormire per giorni e giorni e non pensare più ai concetti sciamanici di don Juan. Completamente contro la mia volontà, mi alzai e lo seguii. Don Juan aveva preparato da mangiare. Divorai ogni cosa come se non toccassi nulla da giorni, poi uscimmo di casa e ci dirigemmo a est, verso le montagne. Il mio stordimento era tale che non mi resi conto che era mattina presto finché non vidi il sole, appena al di sopra della catena montuosa orientale. Avrei voluto raccontare a don Juan come avessi dormito tutta la notte senza muovermi, ma lui mi mise fretta. Stavamo per andare tra le montagne, mi spiegò, in cerca di alcune piante.
«Che cosa ne farai delle piante che raccoglieremo, don Juan?» gli chiesi, non appena ci mettemmo in marcia.
«Non sono per me» rispose con un sogghigno. «Sono per un amico, botanico e farmacista. Le utilizza per preparare pozioni.»
«È uno Yaqui, don Juan? Vive qui a Sonora?» domandai.
«No, non è uno Yaqui e non vive a Sonora. Prima o poi lo conoscerai.»
«È uno sciamano, don Juan?»
«Sì» fu la secca risposta.
Gli domandai allora se potevo raccogliere alcune piante da far esaminare al Giardino Botanico dell’UCLA.
«Certo» replicò lui.
Avevo già avuto modo di scoprire che dicendo «certo» don Juan intendeva esattamente il contrario. Era evidente che non aveva intenzione di fornirmi dei campioni di piante. Incuriosito dal suo amico sciamano gli chiesi di dirmi qualcosa di più sul suo conto. Dove abitava? E come lo aveva conosciuto?
«Ehi ehi ehi!» fece don Juan, come si fa quando si vuole fermare un cavallo. «Ferma! Ferma! Chi sei? Il professor Lorca? Hai in mente di studiare il suo sistema cognitivo?»
Intanto, ci inoltravamo sempre di più tra le aride pendici dei monti. Camminammo per ore e stavo cominciando a pensare che il compito della giornata fosse semplicemente quello di camminare, quando don Juan finalmente si fermò. Sedette su un pendio in ombra.
«È tempo che tu dia inizio a uno dei più grandi progetti dello sciamanesimo» annunciò a quel punto.
«E quale sarebbe questo progetto, don Juan?» feci io.
«Si chiama ricapitolazione. Per gli antichi sciamani era la narrazione degli eventi della vita e, all’inizio, non era che una semplice tecnica, uno stratagemma per non dimenticare ciò che facevano e che insegnavano ai discepoli. Aveva la stessa funzione anche per questi ultimi: consentiva loro di ricordare quanto i maestri avevano detto e fatto. Furono necessari terribili sconvolgimenti sociali, ripetuti assoggettamenti e sconfitte, prima che gli antichi sciamani capissero che quella tecnica aveva effetti ben più vasti.»
«Ti riferisci alla conquista spagnola?»
«No» rispose don Juan. «Quella non fu che la ciliegina sulla torta. Di sconvolgimenti ce ne furono molti, altri in precedenza, ben più devastanti. All’arrivo degli spagnoli, i vecchi sciamani non esistevano più e i discepoli di quelli che erano sopravvissuti si erano fatti cauti. Sapevano badare a se stessi. Fu questa nuova generazione di sciamani a ribattezzare l'antica tecnica con il nome di ricapitolazione.»
«Per gli sciamani in generale, il tempo è di grande importanza» continuò. «La sfida che mi si propone sta nel trasmetterti tutto ciò che c’è da sapere sullo sciamanesimo in modo astratto e in un’unità di tempo estremamente ridotta, ma per riuscirei, devo prima costruire dentro di te lo spazio necessario.»
«Quale spazio? Di che cosa stai parlando, don Juan?»
«ll presupposto degli sciamani è che per introdurre qualcosa deve esserci lo spazio necessario ad accoglierlo» mi spiegò. «Se sei pieno fino all’orlo di cose che riguardano la vita quotidiana, non rimane lo spazio per niente di nuovo. In questo caso, lo spazio va creato. Capisci che cosa intendo? Gli sciamani dei tempi più remoti credevano che fossa la ricapitolazione della vita a creare questo spazio. E così è, e molto di più, naturalmente.
«L’approccio scelto dagli sciamani per effettuare la ricapitolazione è estremamente formale» continuò. «Consiste nello stendere un elenco di tutte le persone che hanno conosciuto, risalendo fino agli inizi della loro vita. Una volta compilato l’elenco, prendono la prima persona che vi compare e ricordano sul suo conto quanto più possibile. E intendo proprio tutto, ogni dettaglio. È meglio fare la ricapitolazione partendo dal presente perché i ricordi del presente sono freschi e, in questo modo, si affinano le proprie capacità mnemoniche. Chi pratica questa tecnica, lo fa tramite il ricordo e la respirazione. Inspira lentamente e coscientemente, muovendo la testa da destra a sinistra con un movimento quasi impercettibile ed espira nello stesso modo.»
Don Juan aggiunse poi che inspirazione ed espirazione devono essere naturali. Se troppo rapide, si entrava in una situazione che lui definì di respiri faticosi : respiri a cui doveva necessariamente seguire una respirazione normale per allentare la tensione muscolare.
«Che uso vuoi che faccia di queste nozioni, don Juan7» domandai.
«Comincerai oggi a stendere il tuo elenco» mi disse. «Scegli pure il criterio di divisione che preferisci, ma fa’ in modo che sia sequenziale; deve iniziare con le persone che hai conosciuto più recentemente per finire con tuo padre e tua madre. Dopodiché, ricorda tutto quello che puoi sul conto di ciascuno di loro. Questo è tutto. Mentre esegui l’esercizio, capirai ciò che stai facendo.»
Durante la mia visita successiva dissi a don Juan che avevo meticolosamente rivisitato tutti gli avvenimenti della mia vita e che trovavo estremamente difficile rispettare la formula da lui indicatami e occuparmi a una a una delle persone della lista. Di norma, lasciavo che fosse la ricapitolazione a indicarmi la via, che fossero gli eventi a decidere la direzione del ricordo. Ciò che facevo in modo deliberato era aderire a un’unità generale di tempo. Per esempio, avevo cominciato con le persone della facoltà di antropologia, ma lasciai che fossero i ricordi a trasportarmi a casaccio indietro nel tempo, fino al giorno in cui ero arrivato all’UCLA.
Raccontai a don Juan di una stranezza che mi tornò in mente e che avevo completamente dimenticato: non avevo neanche idea che l’UCLA esistesse, fino alla sera in cui andai a prendere all’aeroporto la compagna di stanza della mia ragazza, che all’UCLA avrebbe studiato musicologia. L'aereo arrivò in prima serata e lei mi chiese di accompagnarla al campus, per dare un’occhiata al luogo in cui avrebbe trascorso i successivi quattro anni. Anche se sapevo dove era il campus, dato che ero passato un’infinità di volte davanti all’ingresso su Sunset Boulevard mentre andavo alla spiaggia, non vi ero mai entrato.
Tutto ciò accadeva durante le vacanze del semestre. Le poche persone che incontrammo ci indicarono come arrivare alla facoltà di musicologia. D campus era deserto, ma ciò che vidi fu, dal mio punto di vista, la cosa più splendida in cui mi fossi imbattuto. Un’autentica delizia per i miei occhi. Gli edifici sembravano vivi e vibranti di una loro particolare energia. Ciò che era iniziato come una visita superficiale e frettolosa si trasformò in un giro completo dell’intero campus. Mi innamorai dell’UCLA. A don Juan raccontai che l’unica cosa che guastò la mia estasi fu l’irritazione della mia ragazza davanti alla mia insistenza per vedere tutto il campus.
«Ma che diavolo pensi di trovarci?» aveva sbraitato lei. «Si direbbe che tu non sia mai stato in un campus universitario. Una volta che ne hai visto uno, li hai visti tutti. Io penso che tu stia semplicemente cercando di impressionare la mia amica facendo sfoggio della tua sensibilità.»
Non era così e spiegai con foga come fossi genuinamente impressionato dalla bellezza di quanto mi circondava. In quegli edifici percepivo speranze e promesse e tuttavia non ero in grado di esprimere il mio stato soggettivo. «Ho passato a scuola quasi tutta la mia vita!» sibilò la mia ragazza tra i denti. «E sono stufa. Non c’è nulla da scoprire qui! Sono fandonie e le fandonie non ti preparano a far fronte alle responsabilità della vita.»
Quando accennai al mio desiderio di studiare lì, si infuriò ancora di più. «Trovati un lavoro!» gridò. «Trovati un lavoro, organizzati una vita dalle otto alle cinque e piantala con le stronzate! La vita è questa: un lavoro dalle otto alle cinque, quaranta ore la settimana! Guardami... Io ormai sono superacculturata, eppure non sono ancora pronta per un lavoro.»
Ma tutto quello che sapevo era che non avevo mai visto un posto più bello. Promisi a me stesso che avrei frequentato l’UCLA, a qualsiasi costo e in qualunque modo. Il mio era un desiderio che mi riempiva completamente anche se non era il bisogno di una gratificazione immediata a spingermi. Rientrava piuttosto nel dominio di un timore reverente.
Raccontai a don Juan come l’irritazione della mia ragazza mi avesse turbato al punto da indurmi a guardarla sotto una luce diversa. Per quanto ricordassi, quella era la prima volta che una discussione suscitava in me reazioni tanto violente. Colsi aspetti del suo carattere che non avevo mai notato prima e che mi spaventarono a morte.
«Temo di averla giudicata in modo terribilmente negativo» dissi a don Juan. «Dopo la visita al campus, ci allontanammo sempre di più. Era come se l’UCLA si fosse insinuato tra noi come una sorta di cuneo. So che è stupido pensare in questo modo.»
«Non lo è affatto» mi contraddisse lui. «La tua fu una reazione assolutamente valida. Sono certo che, mentre camminavi per il campus, hai sperimentato un accesso di intento. Eri determinato a essere lì e non potevi che abbandonare tutto ciò che si opponeva al tuo intento.»
«Ma non eccedere» continuò. «Il tocco dei guerrieri-viaggiatori è leggerissimo, benché raffinato. La mano di un guerriero-viaggiatore dalla stretta inizialmente ferrea si trasforma nella mano di un fantasma, una mano fatta di garza. I guerrieri-viaggiatori non lasciano tracce né impronte. È questa la sfida che gli vene proposta.»
Il suo commento mi sprofondò in uno stato di cupa autocommiserazione: quel poco che avevo ricordato bastava a farmi capire che agivo in modo pesante, ossessivo e dominante. Gli parlai di queste mie riflessioni.
«Il potere della ricapitolazione» assentì don Juan, «è che rimescola tutti i rifiuti di una vita e li porta in superficie.»
Dopodiché passò a illustrare le complessità della consapevolezza e della percezione, le basi della ricapitolazione.
Cominciò col dire che avrebbe delineato uno schema di concetti che in nessun caso avrei dovuto considerare come teorie sciamaniche, in quanto si trattava di uno schema formulato dagli sciamani dell'antico Messico come risultato della loro capacità di vedere l’energia direttamente così come fluisce nell’universo. Disse inoltre che mi avrebbe illustrato le caratteristiche di quello schema senza tentare di classificare i concetti o di catalogarli in base a standard predeterminati.
«Le classificazioni non mi interessano» proseguì. «Tu, invece, hai passato la vita intera a classificare ogni cosa. Ma ora sarai costretto a cambiare il tuo atteggiamento. Il altro giorno, quando ti ho chiesto che cosa sapevi delle nuvole, me ne hai fornito i nomi, nonché la percentuale di umidità che è lecito aspettarsi da ogni tipo. Hai parlato come un vero meteorologo, ma quando ti ho domandato se sapevi che cosa avresti potuto fare personalmente con le nuvole, non hai neppure capito di che cosa stessi parlando.»
«Le classificazioni hanno un loro ambito» continuò. «Quando si comincia a classificare ogni cosa, la classificazione prende vita e finisce per dominarci. Ma dato che le classificazioni non sono mai state fonti di energia, rimarranno sempre soltanto aride elencazioni. Non sono alberi, ma solo ceppi.»
Mi spiegò che gli sciamani dell'antico Messico vedevano l’universo composto da campi di energia che hanno la forma di filamenti luminosi. Ne vedevano a miliardi, ovunque si voltassero. Vedevano inoltre che questi campi di energia si dispongono in correnti di fibre luminose come flussi incessanti e forze perenni nell’universo e che il flusso di filamenti legato alla ricapitolazione era stato da essi battezzato l’oscuro mare della consapevolezza, e anche l'Aquila.
Disse inoltre che quegli sciamani avevano scoperto come ogni creatura dell’universo fosse collegata all’oscuro mare della consapevolezza in un punto rotondo di luminosità che diventava visibile quando la creatura in questione veniva percepita come energia. Circa quel punto di luminosità, che essi avevano chiamato il punto di unione, don Juan disse che la percezione veniva trasformata in unità da un aspetto misterioso dell'oscuro mare della consapevolezza.
Don Juan asserì che su quel punto di unione degli esseri umani, miliardi di campi di energia provenienti dall’universo tutto sotto forma di filamenti luminosi, convergevano per poi attraversarlo. Questi campi di energia si convertono in dati sensoriali, che a loro volta vengono interpretati e percepiti nel mondo così come noi lo conosciamo. Mi spiegò inoltre che l’oscuro mare della consapevolezza trasforma le fibre luminose in dati sensoriali. Gli sciamani vedono questa trasformazione e la definiscono il bagliore della consapevolezza, una cortina luminosa che si espande come un alone intorno al punto di unione. Fu allora che mi avvertì che stava per fare un’affermazione che, dal punto di vista dello sciamanesimo, era essenziale per la comprensione del campo d’azione della ricapitolazione.
Ponendo grande enfasi sulle sue parole, disse che ciò che negli organismi chiamiamo i sensi, altro non sono che gradi di consapevolezza. Se accettassimo che i sensi sono l’oscuro mare della consapevolezza, continuò, dovremmo ammettere che l’interpretazione dei dati sensoriali fatta dai sensi è anch’essa l’oscuro mare della consapevolezza. Mi spiegò in modo dettagliato che affrontare il mondo circostante nei termini in cui lo facciamo è il risultato del sistema di interpretazione di cui ogni essere umano è dotato. Ogni organismo deve avere un sistema di interpretazione che gli permetta di agire nell’ambiente con cui è in relazione.
«Gli sciamani venuti dopo gli apocalittici sconvolgimenti di cui ti ho parlato» continuò, «vedevano come, al momento della morte, l’oscuro mare della consapevolezza aspirasse, per così dire, attraverso il punto di unione, la consapevolezza delle creature viventi. Vedevano inoltre che l’oscuro mare della consapevolezza aveva, diciamo, un momento di esitazione quando si confrontava con sciamani che avevano fatto una ricapitolazione della propria vita. Anche senza saperlo, alcuni l’avevano fatta in maniera così esaustiva che l’oscuro mare della consapevolezza, pur prendendo la loro consapevolezza nella forma delle loro esperienze di vita, non ne intaccava la forza vitale. Gli sciamani avevano scoperto un’immensa verità sulle forze dell’universo: l’oscuro mare della consapevolezza vuole solo le nostre esperienze di vita, non la nostra forza vitale.»
Le premesse delle spiegazioni di don Juan apparivano incomprensibili. O forse sarebbe più esatto dire che ero confusamente anche se profondamente conscio di quanto funzionali fossero.
«Secondo gli sciamani, con la ricapitolazione portiamo in superficie tutti i rifiuti della nostra esistenza» proseguì. «Prendiamo coscienza delle nostre incoerenze, delle nostre ripetizioni, ma qualcosa in noi oppone una fortissima resistenza a questo processo. Gli sciamani sostengono che la strada è libera solo dopo un immane sconvolgimento; dopo la comparsa sul nostro schermo del ricordo di un evento che scuota le fondamenta del nostro essere, con la sua terrificante chiarezza di dettagli. È l’evento che ci riporta a tutti gli effetti al momento in cui lo abbiamo vissuto. Gli sciamani lo definiscono il cerimoniere perché, da quel momento in poi, ogni avvenimento che prendiamo in considerazione viene rivissuto e non semplicemente ricordato.
«Camminare è un modo infallibile per risvegliare i ricordi» disse ancora don Juan. «Gli antichi sciamani credevano che tutte le esperienze di vita vengano immagazzinate sotto forma di sensazioni nella parte posteriore delle gambe. È lì che si conserva la storia personale di un uomo. E ora mettiamoci in cammino.» Camminammo fin quasi al crepuscolo.
«Credo che ora basti» disse don Juan quando riprendemmo la via del ritorno. «Ora sei pronto a iniziare la pratica magica che consiste nel trovare un cerimoniere, un evento della tua vita che ricorderai con tale chiarezza da poterlo utilizzare come un riflettore per illuminare, con analoga chiarezza, ogni altro aspetto della tua ricapitolazione. Farai ciò che gli sciamani chiamano ricapitolazione delle tessere di un puzzle. Qualcosa ti porterà a ricordare l’evento che fungerà da cerimoniere.»
Poi si congedò con un ultimo ammonimento.
«Impegnati al massimo» mi disse. «Fa’ del tuo meglio.»
Per un momento rimasi completamente zitto, forse a causa del silenzio che mi circondava. Sentii poi una vibrazione, una sorta di scossa al petto. Avevo difficoltà a respirare ma improvvisamente qualcosa nel mio petto si aprì per consentirmi di inspirare profondamente. Nello stesso istante, mi venne in mente un episodio dimenticato della mia infanzia, come se solo allora fosse stato liberato dopo una lunga prigionia.
Ero nello studio di mio nonno e giocavo a biliardo con lui. Avevo quasi nove anni. ll nonno era un abile giocatore e mi aveva compulsivamente insegnato tutte le mosse che conosceva, fino a farmi diventare un avversario degno di lui. Dedicavamo moltissime ore al biliardo e divenni così padrone del gioco che un giorno sconfissi il nonno. Da quel giorno, non riuscì più a vincere. Spesso perdevo apposta, tanto per essere gentile, ma lui finiva sempre per capirlo e allora si infuriava. Una volta, se la prese al punto da colpirmi in testa con la stecca. Con suo grande sgomento e delizia, a nove anni ero ormai in grado di fare una carambola dietro l’altra. La frustrazione del nonno crebbe al punto che in una occasione scaraventò a terra la sua stessa stecca dicendomi di giocare da solo. La mia natura compulsiva faceva sì che mi sentissi perfettamente a mio agio nel gareggiare con me stesso ed ero capace di esercitarmi in un tiro fino a raggiungere la perfezione.
Un giorno, il proprietario di una sala da biliardo venne a trovare il nonno. Era un uomo conosciuto in città per i suoi agganci col mondo del gioco d’azzardo. I due uomini stavano parlando e giocando a biliardo quando entrai nella stanza. Feci per ritirarmi, ma il nonno fu pronto ad afferrarmi e a trascinarmi dentro.
«Questo è mio nipote» disse al suo ospite.
«Felice di conoscerti» replicò quello. Mi guardò con serietà, quindi mi tese la mano, grande due volte quella di un uomo normale. Ero terrorizzato e la sua tonante risata mi disse che era perfettamente consapevole dell’effetto che esercitava su di me. Disse di chiamarsi Falelo Quiroga e, in risposta, balbettai il mio nome.
Falelo era alto ed elegantissimo. Quel giorno indossava un doppiopetto in gessato blu con i pantaloni dalla linea impeccabilmente affusolata. Doveva avere superato da poco i cinquanta, ma era in perfetta forma, fatta eccezione per il ventre leggermente prominente. Non era grasso; piuttosto, aveva l’aspetto di un uomo ben nutrito e in grado di soddisfare tutte le sue necessità. Nella mia città c’era tanta gente che soffriva la fame, gente che lavorava sodo per guadagnarsi da vivere e non aveva tempo per le raffinatezze. Falelo Quiroga dava l’impressione esattamente contraria; tutto in lui suggeriva un uomo che aveva tempo solo per le raffinatezze.
Gradevole, con il viso ben rasato e occhi azzurri dall’espressione gentile, aveva l’aspetto e la sicurezza di un medico. In città molti dicevano che era bravissimo a mettere gli altri a proprio agio e che avrebbe dovuto fare il prete, l’avvocato o il medico, invece che il giocatore. Dicevano anche che col gioco guadagnava più di quanto guadagnassero tutti i medici e gli avvocati della città.
Quiroga cercava di nascondere l’incipiente calvizie riportando sulla fronte i capelli neri, ben pettinati. Aveva la mascella quadrata e un sorriso accattivante; i grandi denti bianchi, perfettamente curati, costituivano un’eccezione in una zona in cui i problemi odontoiatrici assumevano dimensioni monumentali. Di lui mi colpirono anche i piedi enormi e le scarpe di pelle nera cucite a mano. Abituato allo scricchiolio che sempre annunciava l’arrivo del nonno, mi stupì constatare che le sue scarpe non facevano alcun rumore mentre camminava avanti e indietro.
«Mio nipote gioca bene a biliardo» disse il nonno con fare noncurante. «Mi piacerebbe vederlo giocare con te.»
«Questo bambino gioca a biliardo?» si stupì Quiroga con una risata.
«Proprio così. Ovviamente non bene come te, Fàlelo. Perché non lo metti alla prova? Per rendere il gioco più interessante e perché lui non abbia la sensazione di venire trattato con condiscendenza, potremmo piazzare una piccola scommessa.»
Con un sorriso quasi di sfida, posò sul tavolo un fascio di banconote accartocciate.
«Santo cielo. Così tanto, eh?» fece Fàlelo, guardandomi con aria interrogativa. Poi aprì il portafoglio e ne estrasse alcuni biglietti accuratamente ripiegati. Anche quel particolare mi sorprese. Mio nonno aveva l’abitudine di cacciare il denaro in tutte le tasche e, quando doveva pagare qualcosa, doveva lisciare i biglietti per poterli contare.
Fàlelo Quiroga non lo disse, ma io sapevo che in quel momento si sentiva una specie di rapinatore. Sorrise al nonno e, certo per rispetto nei suoi confronti, posò il denaro sul tavolo. Il nonno, che fungeva da arbitro, stabilì il numero di carambole, quindi lanciò in aria una moneta. Toccò a Fàlelo cominciare.
«Farai bene a impegnarti al massimo» lo sollecitò il nonno. «Non farti scrupoli ad annientare questo sciocchino, se vuoi intascare i miei soldi!»
Seguendo il suo consiglio, Falelo Quiroga giocò con impegno, ma a un certo punto mancò per un soffio una carambola. Toccò a me prendere la stecca. Ero sicuro che sarei svenuto, ma la gioia del nonno (che stava saltando su e giù) mi calmò almeno quanto mi irritò vedere Quiroga scoppiare a ridere quando impugnai la stecca. Data la mia altezza, non potevo protendermi sul tavolo, ma il nonno, con pazienza e determinazione scrupolose, mi aveva insegnato una posizione alternativa: il braccio teso per tutta la sua lunghezza e la stecca leggermente sollevata rispetto alla spalla.
«Come fa quando deve arrivare al centro del tavolo?» volle sapere Fàlelo Quiroga, senza smettere di ridere.
«Sale sul bordo» replicò il nonno senza scomporsi. «È permesso, sai.» Poi mi si avvicinò e, parlando tra i denti, sibilò che se avessi perso per cortesia, mi avrebbe spaccato tutte le stecche sulla testa. Sapevo che non parlava sul serio; era solo il suo modo per esprimere la fiducia che aveva in me. Vinsi senza difficoltà. Il nonno ne fu entusiasta e, abbastanza stranamente, lo fu anche Falelo Quiroga. Rise mentre girava intorno al tavolo menando grandi pacche ai bordi. Il nonno mi portò alle stelle; rivelò all'amico il mio colpo migliore e, scherzando, disse che la mia abilità era merito suo, che aveva saputo individuare l’esca giusta: caffè e pasticcini.
«Non dirmelo, non dirmelo!» continuava a ripetere Quiroga. Finalmente si congedò. Il nonno intascò i soldi della vincita e l’episodio fu dimenticato. Il nonno aveva promesso di portarmi a festeggiare nel ristorante migliore della città, ma non lo fece mai. Era molto tirchio e di lui si sapeva che spendeva con generosità solo con le donne.
Un paio di giorni più tardi, all’uscita da scuola, fui abbordato da due tizi enormi, uomini di Quiroga.
«.Falelo Quiroga vuol vederti» mi informò uno di loro con voce gutturale.
«Vuole che fu vada a casa sua per un caffè e pasticcini.»
Se non avesse pronunciato quella frase, probabilmente me la sarei data a gambe, ma ricordavo che il nonno aveva parlato a Quiroga della mia sviscerata passione per il caffè con i pasticcini, così non esitai a seguirti. E dato che non riuscivo a camminare abbastanza in fretta, uno di loro, che rispondeva al nome di Guillermo Falcón, finì col prendermi in braccio. Rise mostrando una chiostra di denti storti.
«Goditi la passeggiata, ragazzo» disse. Il suo alito puzzava. «Mai stato portato in braccio da nessuno? Direi di no, a giudicare da come ti dimeni.» Ed esplose in una risata.
Fortunatamente, Falelo Quiroga non abitava lontano dada scuola. Il signor Falcón mi depositò su un divano di un ufficio. Quiroga sedeva a un’enorme scrivania. Al mio arrivo si alzò per stringermi la mano. Fece subito portare caffè con dei pasticcini deliziosi e cominciammo a chiacchierare amabilmente dell’allevamento di polli di mio nonno. Quando mi chiese se volevo altri dolci, risposi che non mi sarebbe dispiaciuto. Allora rise e uscì per andare a prendere un intero vassoio di pasticcini incredibilmente squisiti.
Quando mi fui ingozzato a sufficienza, Quiroga mi chiese se quella sera ero disposto a giocare un paio di partite amichevoli con persone di sua conoscenza. Sarebbe circolato parecchio denaro, aggiunse con fare noncurante e, dopo aver espresso la sua fiducia nelle mie capacità, si disse pronto a passarmi una percentuale sulle vincite. Naturalmente disse di sapere come la pensava la mia famiglia: i miei non avrebbero giudicato conveniente che io accettassi denaro da lui, anche se si trattava di denaro guadagnato. Lo avrebbe depositato in banca su un conto speciale o, se preferivo, avrebbe pagato tutti gli acquisti che avessi fatto nei negozi della città e il cibo che avessi consumato nei ristoranti.
Non credetti a una parola di ciò che disse. Sapevo che Fàlelo Quiroga era un ladro e uno strozzino, ma l’idea di giocare a biliardo con degli sconosciuti mi attirava e finimmo per arrivare a un accordo.
«Mi offrirà di nuovo il caffè e i pasticcini come oggi?» volli sapere. «Ma certo, ragazzo mio» rispose lui. «Se giocherai per me, ti comprerò l’intero forno! Fàrò in modo che il fornaio prepari i suoi dolci solo per te. Hai la mia parola.»
A quel punto gli spiegai che l’unico ostacolo era il fatto che non potevo uscire di casa. Avevo troppe zie che mi sorvegliavano come falchi e, come se non bastasse, la mia camera era al secondo piano.
«Non c’è problema» mi assicurò Quiroga. «Sei molto piccolo e il signor Fàlcón non avrà difficoltà a prenderti se salti dalla finestra. È grosso come una casa! L’unico consiglio che ti do è di andare a letto presto. Sarà il signor Fàlcón a svegliarti fischiando e gettando qualche sassolino contro la tua finestra. Non farlo aspettare troppo, però! È un tipo impaziente.»
'Tornai a casa fuori di me per l’eccitazione. Quella sera non riuscii a prendere sonno ed ero sveglio quando sentii il fischio del signor Fàlcón e il rumore dei sassolini contro il vetro. Aprii la finestra; lui era proprio ll sotto.
«Saltami in braccio, ragazzo» disse con una voce rauca che tentava inutilmente di modulare in un sussurro. «Se non miri giusto, ti lascerò cadere e morirai. Ricordatelo e non farmi correre di qua e di là. Fai in modo di cadermi proprio fra le braccia. Salta!» Saltai e lui mi prese con la stessa facilità di chi prende una balla di cotone. Quindi mi mise a terra e mi disse di correre. Dato che mi ero appena svegliato da un sonno profondo, spiegò, bisognava che corressi se volevo arrivare completamente sveglio alla sala da biliardo.
Quella notte mi cimentai in un paio di partite e le vinsi entrambe. Mi vennero offerti il caffè e i pasticcini più squisiti che si possano immaginare. Ero al settimo cielo. Quando tornai a casa, verso le sette del mattino, nessuno si era accorto della mia assenza ed era ormai ora di andare a scuola. Insomma, era tutto normale, non fosse che faticai a tenere gli occhi aperti per tutto il giorno. Ero esausto.
Da allora, Falelo Quiroga mandò il signor Falcón a prendermi due o tre volte la settimana e io vinsi tutte le partite che giocai. Quanto a lui, fedele alla promessa fatta, pagava le mie spese, in particolare i pasti che quasi ogni giorno consumavo nel mio ristorante cinese preferito. A volte invitavo i miei amici e mi divertivo a mortificarli dandomela a gambe non appena veniva presentato il conto. Non finivano di stupirsi del fatto che i proprietari del locale non chiamassero la polizia.
Il vero cimento, per me, era il dovermela vedere con le speranze e le aspettative di quelli che scommettevano sulla mia vittoria. La prova più dura la affrontai quando un famoso giocatore di una città vicina sfidò Falelo Quiroga per una cifra enorme. La serata cominciò sotto i peggiori auspici. Il nonno si era ammalato e non riusciva a dormire. L’intera famiglia era in subbuglio e sembrava che nessuno avesse in mente di andare a letto. Dubitavo di riuscire a sgattaiolare fuori, ma i fischi e il lancio dei sassolini del signor Falcón furono così insistenti che decisi di correre il rischio e ancora una volta saltai dalla finestra per atterrare fra le sue braccia.
Sembrava che tutti gli uomini della città si fossero riuniti nella sala da biliardo. Volti angosciati mi supplicavano silenziosamente di non perdere. Alcuni mi dissero di aver scommesso su di me la casa e tutti i loro averi. Scherzando solo a metà, un tizio mi rivelò di aver scommesso sua moglie; se non avessi vinto, prima che la notte finisse, sarebbe diventato un cornuto o un assassino. Non specificò se avesse in mente di uccidere la moglie o me, se perdevo.
Fàlelo Quiroga camminava nervosamente avanti e indietro. Per farmi giocare nelle condizioni migliori, aveva addirittura ingaggiato un massaggiatore. Questi mi posò alcuni asciugamani caldi sulle braccia e sui polsi e degli altri, freddi, sulla fronte. Mi infilò ai piedi le scarpe più comode e morbide che avessi mai portato, con un supporto plantare e tacchi alla militare. Fàlelo Quiroga mi diede anche un berretto, perché i capelli non mi cadessero sugli occhi, e un paio di pantaloni larghi con una cintura.
Metà delle persone radunate intorno al tavolo provenivano da un’altra città. Mi guardavano con odio, comunicandomi la sgradevole sensazione che sarebbero stati felici di vedermi morto.
Fàlelo Quiroga gettò una moneta in aria per stabilire l’ordine di gioco. Il mio avversario era un brasiliano di origine cinese, giovane, con la faccia rotonda, tutto azzimato e molto sicuro di sé. Toccò a lui cominciare e riuscì a fare un numero eccezionale di carambole. Il colore del viso di Quiroga suggeriva che stava per avere un attacco cardiaco, come quelli che avevano scommesso ogni cosa su di me.
Giocai molto bene quella sera e, a mano a mano che mi avvicinavo al numero di carambole segnato dal mio rivale, l’eccitazione degli scommettitori cresceva. Fàlelo Quiroga era il più agitato di tutti. Sbraitava senza sosta e pretese perfino che qualcuno aprisse le finestre perché il fumo delle sigarette rendeva l’aria irrespirabile per me. Poi volle che il massaggiatore mi lavorasse braccia e spalle. Alla fine li feci smettere e in fretta e furia feci le otto carambole necessarie per strappare la vittoria. L’euforia di quelli che avevano scommesso su di me raggiunse livelli indescrivibili. Per quanto mi riguardava, quasi non me ne accorsi; era già mattina e
dovettero portarmi a casa il più velocemente possibile.
Quel giorno mi gravò addosso una stanchezza abissale. Molto cortesemente, Falelo Quiroga mi lasciò tranquillo per un'intera settimana, ma un pomeriggio trovai il signor Falcón fuori della scuola. Alla sala da gioco, trovai Falelo Quiroga. Era serissimo e non mi offrì il caffè con i pasticcini. Invece, fece uscire tutti dalla stanza e andò diritto al punto. Spinse la sua sedia vicino a me. «Ho depositato in banca un sacco di soldi a tuo nome» cominciò in tono solenne. «Come vedi, sono un uomo che mantiene le promesse. Hai la mia parola che avrò sempre cura di te. Ora, se farai quello che sto per dirti, guadagnerai talmente tanto che potrai fare a meno di lavorare per tutta la vita. Voglio che tu perda la prossima partita per una carambola. So che puoi farcela. Ma dovrai perdere per un soffio. Più drammatica renderai la partita, meglio sarà.»
Io ero sconcertato. Non riuscivo a capire che cosa intendesse. Falelo Quiroga ripetè la sua richiesta e mi spiegò che contava di scommettere anonimamente contro di me tutti i suoi averi.
«ll signor Falcón ti sorveglia da mesi» concluse. «Non ho dovuto far altro che dirgli di usare la sua forza per proteggerti, ma potrebbe fare altrettanto bene il contrario.»
La minaccia non avrebbe potuto essere più chiara e di sicuro lesse sul mio viso il terrore, perché scoppiò a ridere e parve più rilassato.
«Ma non devi preoccuparti» volle rassicurarmi. «Noi due siamo fratelli.» Era la prima volta che mi trovavo in una situazione insostenibile. Desideravo con tutte le mie forze fuggire da Falelo Quiroga e dalla paura che mi suscitava, ma al tempo stesso e, altrettanto intensamente, volevo restare. Volevo la possibilità di comprare tutto quello che volevo nei negozi della città e, soprattutto, di poter mangiare in qualunque ristorante volessi, senza pagare. Ma non fui costretto a scegliere.
Del tutto inaspettatamente, almeno per me, il nonno si trasferì in un’altra zona della città, molto distante. Quasi sapesse quello che stava accadendo, volle che mi recassi nella nuova casa prima di tutti gli altri componenti della famiglia. Dubito che sapesse davvero qualcosa; probabilmente agì spinto da una delle sue solite intuizioni.
n ritorno di don Juan mi strappò ai miei ricordi. Avevo perso la cognizione del tempo ma, traboccante di un’energia irrequieta, non avevo affatto appetito. Don Juan accese una lampada a cherosene e la appese a un chiodo conficcato nella parete. La luce fioca proiettava nella stanza bizzarre ombre danzanti. I miei occhi impiegarono qualche istante ad abituarsi alla semioscurità. Allora, sprofondai in uno stato di profonda tristezza. Era una sensazione stranamente distaccata, una sorta di nostalgia che nasceva dalla penombra o forse dall’impressione di essere in trappola. Ero talmente stanco che avrei voluto andarmene, ma al tempo stesso e con la stessa intensità, volevo restare. La voce di don Juan mi restituì almeno in parte il controllo. Sembrava conoscere il motivo e la profondità del mio disagio e parlò con toni adatti alla circostanza. La sua severità mi aiutò a riacquistare il dominio su uno stato che avrebbe potuto trasformarsi facilmente in una reazione isterica alla fatica e alla stimolazione mentale.
«Per gli sciamani, raccontare gli avvenimenti è una pratica magica» mi disse.
«Non si tratta semplicemente di narrare delle storie, bensì di vedere la trama che sta al di sotto degli eventi. Ecco perché questa pratica ha un’importanza e un significato tanto vasti.»
Dietro sua richiesta gli raccontai ciò che avevo ricordato.
«Molto appropriato» commentò lui con una risatina. «L’unica osservazione che posso fare è che i guerrieri-viaggiatori seguono la corrente. Vanno in qualunque luogo l’impulso li conduca. n loro potere sta nello stare all’erta, nell’ottenere il massimo effetto dal minimo impulso e, soprattutto, sta nel non interferire. Gli avvenimenti hanno un’energia, una forza di gravità propria e i viaggiatori sono semplici viaggiatori. Tutto ciò che li circonda è destinato solo ai loro occhi. In questo modo, elaborano il significato di ogni situazione, senza mai chiedersi perché si sia verificata secondo questa o quella modalità.»
«Oggi hai ricordato un avvenimento che riassume tutta la tua vita» seguitò.
«Ti trovi sempre davanti a una situazione identica a quella che non hai mai risolto. Non hai mai dovuto realmente decidere se accettare l’ambiguo patto di Falelo Quiroga o rifiutarlo.L’infinito ci mette costantemente nella terribile condizione di dover scegliere. Noi vogliamo L’infinito, ma nello stesso tempo vogliamo fuggire da esso. Tu hai una gran voglia di mandarmi al diavolo, ma contemporaneamente sei costretto a restare. Sarebbe infinitamente più facile per te essere semplicemente costretto a restare.»
Viaggi attraverso l’oscuro mare della consapevolezza
«È bene che parliamo un po’ più chiaramente del silenzio interiore» annunciò don Juan.
Le sue parole mi colsero di sorpresa. Per tutto il pomeriggio non aveva fatto altro che parlarmi dei patimenti sofferti dagli indiani Yaqui in seguito alle grandi guerre degli anni Venti, quando il governo messicano li aveva strappati alla terra natia, lo stato di Sonora, nel Messico meridionale, per portarli a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero nell’area centro-meridionale dello stato. I conflitti tra governo e indiani Yaqui si erano protratti per anni. Don Juan mi raccontò sbalorditive vicende di intrighi politici e tradimenti, di privazioni e miseria umana.
Avevo la sensazione che mi stesse preparando a qualcosa, perché sapeva bene come quelle storie fossero, per così dire, proprio quello che andavo cercando. All’epoca avevo infatti un senso esagerato di giustizia sociale ed equità. «Le circostanze hanno reso possibile che tu avessi una maggiore energia» seguitò. «Hai iniziato la ricapitolazione della tua vita; per la prima volta hai guardato i tuoi amici come se fossero esposti in una vetrina; da solo, spinto dalle tue necessità, sei arrivato al punto di rottura. Hai dimenticato i tuoi affari e, soprattutto, hai accumulato silenzio interiore a sufficienza. Tutto questo ti ha consentito di affrontare un viaggio attraverso l’oscuro mare della consapevolezza.»
«Quel viaggio è stato incontrarmi in questa città che abbiamo scelto» seguitò.
«So che una questione cruciale è quasi emersa in te e che per un istante ti sei chiesto se io fossi effettivamente venuto a casa tua. Non è stato un sogno. Ero reale, non è vero?»
«Reale come più non avresti potuto» annuii.
Avevo quasi dimenticato quegli avvenimenti, ma ora ricordai che mi era sembrato strano che avesse trovato il mio appartamento. Ma avevo messo da parte lo stupore, limitandomi a pensare che avesse chiesto a qualcuno il mio nuovo recapito, benché sapessi che non c’era nessuno che avrebbe potuto darlo.
«Vediamo di chiarire questo punto» riprese don Juan. «Nella mia interpretazione, che è poi quella degli sciamani dell'antico Messico, io ero del tutto reale e, dal mio silenzio interiore, sono effettivamente venuto a casa tua per parlarti dell’esigenza dell’infinito e avvisarti che 0 tuo tempo stava per scadere. A tua volta, dal tuo silenzio interiore, ti sei recato nella città che abbiamo scelto per dirmi che eri riuscito a soddisfare l’esigenza dell’infinito.»
«Nella tua interpretazione, che è quella dell’uomo medio, in entrambi i casi si è trattato solo di un’esperienza onirico-fantastica. Hai sognato che ero venuto a casa tua senza conoscere l’indirizzo e poi che venivi a trovarmi. Per me, che sono uno sciamano, ciò che tu consideri l’esperienza onirico-fantastica del nostro incontro in quella città era reale quanto siamo reali noi due adesso, mentre parliamo.»
Gli confessai che in nessun modo avrei potuto sistemare quegli avvenimenti in un modello di pensiero accettabile per un occidentale. Pensarli in termini di sogno-fantasia, dissi, significava creare una falsa categoria che non avrebbe retto a un esame più approfondito e l’unica spiegazione vagamente accettabile era un altro aspetto della sua conoscenza: il sognare.
«No, non si è trattato di sognare» reagì lui con foga. «Ma di qualcosa di più diretto, di più misterioso. Oggi ho da proporti una nuova definizione di sognare, più in sintonia con il tuo stato d’essere. Sognare è l'atto di modificare il punto di collegamento con l’oscuro mare della consapevolezza. Se la vedi in questo modo, è un concetto molto semplice e una pratica altrettanto semplice. Dovrai impegnare tutto te stesso per capirlo, ma non è impossibile e non ci sono nubi mistiche a occultarlo.»
«li termine sognare mi ha sempre infastidito enormemente» riprese, «perché indebolisce un atto di grande potenza. Lo fa apparire arbitrario, gli conferisce una dimensione fantastica che, di fatto, è l’unica che non gli appartiene. Io stesso ho cercato di trovare un termine alternativo, ma ha radici troppo profonde. Farse un giorno sarai proprio tu a farlo, benché, come sempre avviene in magia, quando ci riuscirai, probabilmente non te ne importerà più nulla, perché un nome non farà per te più alcuna differenza.»
Nel corso del nostro rapporto, don Juan mi aveva spiegato con grande ricchezza di dettagli che sognare era un’arte scoperta dagli sciamani dell'antico Messico, mediante la quale i sogni comuni si trasformavano in accessi a diversi mondi di percezione. Con tutto se stesso auspicava l’avvento di un qualcosa che chiamava vigilanza sognante, ossia la capacità di prestare un’attenzione speciale, o una speciale forma di consapevolezza, agli elementi costitutivi dei sogni ordinari.
Da parte mia, avevo seguito meticolosamente le sue indicazioni, e così facendo ero riuscito a fissare la mia consapevolezza sugli elementi di un sogno. L’idea di don Juan non era quella di arrivare a sognare ciò che si desiderava, ma di focalizzare la propria attenzione sulle componenti dei sogni che si presentavano, quali che fossero.
Poi don Juan aveva parlato con grande enfasi di ciò che gli sciamani dell'antico Messico consideravano l’origine stessa del sognare, lo spostamento del punto di unione. D punto di unione, aveva detto, si spostava naturalmente durante il sonno, ma vedere tale spostamento era difficile, perché richiedeva uno stato d’animo aggressivo; proprio su questo particolare stato d’animo si era focalizzata la predilezione degli antichi sciamani. Grazie ad esso, secondo don Juan, avevano individuato i presupposti fondamentali della loro arte.
«È una condizione altamente predatoria» seguitò. «Entrarvi non è affatto difficile, dato che l’uomo è un predatore per natura. E possibile vedere, in modo aggressivo, tutti gli abitanti di questo villaggio e forse anche persone più lontane, mentre dormono. Chiunque può andar bene; l’importante è raggiungere uno stato di completa indifferenza. Sei in cerca di qualcosa e lavori per trovarla. Come un felino, come un animale da preda, stai in agguato, in attesa di qualcuno su cui piombare.»
Divertito dal mio sgomento, don Juan aveva detto che la difficoltà di questa tecnica stava nello stato d’animo e che non avrei potuto restare passivo mentre vedevo, perché ciò che vedevo non era qualcosa da osservare, ma era qualcosa su cui agire. Sarà stato per il suo grande potere di suggestione, ma dopo averlo ascoltato quel giorno mi sentii sorprendentemente aggressivo. Non c’era muscolo del mio corpo che non traboccasse di energia e, durante la pratica del sognare, inseguii qualcuno. Non mi interessava scoparne l’identità. Avevo bisogno di qualcuno che dormisse e una forza di cui ero consapevole, senza tuttavia esserne pienamente conscio, mi aveva guidato fino a lui.
Non seppi mai di chi si trattasse, ma mentre lo vedevo, avvertivo la presenza di don Juan. Era una strana sensazione, una vaga impressione di prossimità che percepivo a un livello di consapevolezza che prescindeva da tutte le mie esperienze passate. Tutto ciò che potevo fare era concentrare la mia attenzione sull'individuo addormentato. Sapevo che era un maschio, ma non avrei saputo dire come facessi a saperlo. Sapevo che dormiva perché la sfera di energia che costituisce l’essere umano era un po’ appiattita; si espandeva lateralmente. E poi vidi il punto di unione, in una posizione diversa da quella consueta: spostato sulla destra e un po’ più in basso. Poiché sapevo che abitualmente si trova a destra, dietro le scapole, calcolai che si era forse spostato a lato delle costole. Notai inoltre che mancava del tutto di stabilità. Fluttuava in modo irregolare, poi riacquistò bruscamente la posizione normale. Fui allora certo che la mia presenza e quella di don Juan avessero destato l’individuo. Subito dopo sperimentai una profusione di immagini vaghe, indistinte e finalmente mi svegliai per ritrovarmi là dove tutto era iniziato.
Don Juan mi aveva sempre detto che gli sciamani si dividevano in due gruppi: i sognatori e i cacciatori. I sognatori erano in grado di spostare con grande facilità il punto di unione. I cacciatori, invece, potevano altrettanto facilmente mantenerlo in quella nuova posizione. Sognatori e cacciatori si completavano a vicenda e lavoravano in coppia, così da utilizzare entrambe le capacità. Don Juan mi aveva assicurato che lo spostamento e la «fissazione» del punto di unione potevano essere realizzati volontariamente tramite la ferrea disciplina degli sciamani. Quelli della sua stirpe credevano che all’interno della sfera luminosa (che è l'essenza dell’uomo) esistessero almeno seicento punti e che ciascuno di essi, quando veniva raggiunto dal punto di unione, potesse donarci un mondo intero. In altre parole, se il punto di unione venisse collocato in uno di quei punti e lì rimanesse percepiremmo un mondo non meno completo di questo, ma diverso.
Inoltre, don Juan mi aveva spiegato che l’arte sciamanica consiste nel manipolare il punto di unione e fargli cambiare posizione sulla sfera luminosa. Il risultato di tale manipolazione è un mutamento del punto di contatto con l'oscuro mare della consapevolezza, la qual cosa fa sì che un diverso insieme di miliardi di campi energetici, sotto forma di filamenti luminosi, converga sul punto di unione. La conseguenza di questa confluenza di nuovi campi energetici sul punto di unione è l'emergere di una consapevolezza diversa da quella necessaria a percepire il mondo quotidiano, consapevolezza che trasforma i nuovi campi energetici in dati sensoriali. A loro volta, questi vengono interpretati e percepiti come un mondo diverso, perché i campi energetici da cui provengono sono diversi da quelli consueti.
Secondo don Juan, una buona definizione della pratica sciamanica può essere la seguente: lo sciamanesimo è la manipolazione del punto di unione con lo scopo di modificare il suo punto focale di contatto con l’oscuro mare della consapevolezza, così da rendere possibile la percezione di altri mondi.
L’arte dei cacciatori, aveva detto, entra in gioco successivamente allo spostamento del punto di unione. Mantenerlo fisso nella sua nuova posizione permette agli sciamani di percepire il nuovo mondo in cui penetrano nella sua assoluta completezza, proprio come noi facciamo con il mondo consueto. Per gli sciamani della sua stirpe, il mondo quotidiano non era altro che un risvolto di un mondo molto più vasto, formato da almeno seicento risvolti diversi. Don Juan tornò all’argomento in discussione: i miei viaggi attraverso l'oscuro mare della consapevolezza. Ciò che avevo realizzato partendo dal mio silenzio interiore era molto simile a ciò che si verifica nel sognare. Ciononostante, nel corso di tale viaggio non c’erano state interruzioni causate dal sonno, né tentativi di controllare l’attenzione durante l’attività onirica. D viaggio attraverso l’oscuro mare della consapevolezza comportava invece una reazione immediata: una schiacciante sensazione del qui e dell’ora. Don Juan si lamentò del fatto che alcuni sciamani incompetenti avessero dato a questo atto di raggiungere direttamente il mare della consapevolezza il nome di risveglio dal sognare, rendendo ancora più ridicolo il termine sognare.
«Tu hai pensato di aver avuto il sogno-fantasia di raggiungere quella città che abbiamo scelto» continuò, «ma di fatto avevi collocato il tuo punto di unione in una posizione specifica sull'oscuro mare della consapevolezza che consente il viaggio. Dopodiché, l’oscuro mare della consapevolezza ti ha fornito tutto il necessario per compiere il viaggio. E impossibile scegliere quel luogo con la volontà. Gli sciamani sostengono che il silenzio interiore sceglie in modo infallibile. Semplice, non è vero?»
Mi spiegò quindi la complessità della scelta. Per i guerrieri-viaggiatori non si trattava effettivamente di scegliere, bensì di accettare con stile le sollecitazioni dell’infinito.
«E l’infinito a scegliere» asserì. «L’arte del guerriero-viaggiatore consiste nell’abilità di cogliere anche le allusioni più sottili; l’arte di accondiscendere a ogni ordine dell’infinito. Per questo, un guerriero-viaggiatore ha bisogno di valore, di forza e, sopra ogni altra cosa, di sobrietà. Queste tre qualità insieme danno come risultato lo stile.»
Dopo un momento di pausa, tornai sulla questione che più mi affascinava.
«Eppure, è incredibile pensare che io mi sia effettivamente recato in quella città in corpo e anima» osservai.
«E incredibile, ma non impossibile» fu la sua risposta. «L'universo non ha limiti e le possibilità che sono in gioco sono davvero incommensurabili. Quindi, non cadere vittima dell'assioma “credo solo a ciò che vedo”, perché è l’atteggiamento più ottuso che si possa assumere.»
La delucidazione di don Juan era stata chiarissima. Aveva un senso, ma non sapevo in che ambito; certo non nel mio mondo quotidiano. Don Juan mi assicurò quindi, risvegliando in me una grande trepidazione, che per gli sciamani c’era solo un modo per gestire tutto questo sapere: viverlo attraverso l’esperienza, perché la mente è incapace di accogliere una simile entità di stimoli.
«Che cosa vuoi che faccia?» chiesi allora.
«Devi intraprendere volontariamente il viaggio attraverso l’oscuro mare della consapevolezza» mi rispose. «Ma non saprai mai come questo avverrà. Diciamo che è il silenzio interiore a renderlo possibile, seguendo vie inesplicabili, che non possono essere comprese, ma solo battute.»
Mi fece quindi sedere sul letto e assumere la posizione che favoriva il silenzio interiore. Di solito, questo bastava perché mi addormentassi all’istante, ma ciò non era possibile in presenza di don Juan. Invece, entrai in uno stato di quiete totale. Questa volta, dopo un istante di silenzio, mi scoprii a camminare. Don Juan mi guidava per un braccio.
Non eravamo più a casa sua, ma camminavamo per le strade di una città Yaqui a me sconosciuta. Sapevo della sua esistenza; parecchie volte mi ero trovato nei paraggi, ma l’ostilità dei suoi abitanti mi aveva sempre allontanato. Per uno straniero era quasi impossibile entrare in quella città. Gli unici ad avervi libero accesso erano i supervisori della Banca Federale, dato che era la banca ad acquistare i raccolti dei contadini locali. Le interminabili trattative dei contadini Yaqui ruotavano intorno alla possibilità di ottenere anticipi in contanti, sulla base di un processo quasi speculativo relativo ai raccolti futuri.
Riconobbi la città dalle descrizioni della gente che ci era stata. Come per aumentare il mio sbalordimento, don Juan mi bisbigliò all’orecchio che ci trovavamo proprio lì. Avrei voluto chiedergli come ci eravamo arrivati, ma non riuscii ad articolare le parole. Vidi parecchi indiani che discutevano in toni accesi; gli animi sembravano pronti a esplodere. Non capivo una parola di quello che dicevano, e nell’istante in cui concepii il pensiero che non potevo capire, accadde qualcosa. Fu come se una nuova luce fosse intervenuta a illuminare la scena. Ogni cosa si fece improvvisamente netta e definita, e benché non parlassi la loro lingua, le loro parole mi divennero perfettamente comprensibili, non singolarmente, ma a gruppi, come se di colpo la mia mente avesse acquistato la capacità di cogliere interi schemi di pensiero.
Ma a scioccarmi non fu tanto la scoperta di questa nuova capacità, quanto il contenuto dei loro discorsi. Quegli uomini erano guerrieri e nulla avevano a che spartire con gli occidentali. Le loro erano dichiarazioni di guerra, di lotta, di strategia. Valutavano la loro forza, la loro capacità di aggressione e si lamentavano di non poter assestare i loro colpi. Il mio corpo registrò l’angoscia della loro impotenza. Contro le armi tecnologiche non avevano che bastoni e pietre. Lamentavano soprattutto la mancanza di leader e anelavano, con un’intensità per noi inimmaginabile, l’arrivo di un combattente carismatico in grado di galvanizzarli.
Udii poi la voce del cinismo; uno di loro espresse un concetto che parve devastare tutti, me compreso, perché in qualche modo ero una parte invisibile di loro. Disse che erano sconfitti al di là di ogni possibile salvezza, perché se anche fosse comparso qualcuno con il carisma necessario a ergersi fra tutti e mettersi alla loro testa, sarebbe stato tradito dalla gelosia, dall’invidia e dal rancore. Avrei voluto commentare con don Juan ciò che stava accadendo, ma parlare mi era impossibile. Solo lui era in grado di farlo.
«La meschinità degli Yaqui non è una loro caratteristica esclusiva» mi disse all’orecchio. «È uno stato in cui tutti gli esseri umani sono intrappolati. Una condizione che non è neppure umana, ma imposta dall’esterno.»
Sentii la mia bocca che si apriva e si chiudeva involontariamente, mentre mi sforzavo con ogni mezzo di formulare una domanda che non potevo neppure concepire. Avevo la mente vuota. Mi trovavo al centro di un cerchio di persone con don Juan, ma nessuno sembrava essersi accorto di noi. Non notai alcun movimento, alcuna reazione o occhiata che indicasse il fatto che si fossero accorti della nostra presenza.
L'istante successivo mi trovai in una città messicana costruita intorno a una stazione, situata a circa due chilometri dall'abitazione di don Juan. Eravamo in mezzo alla strada prospiciente la Banca Governativa, e lì assistetti a uno degli spettacoli più bizzarri in cui mi fossi mai imbattuto da quando ero entrato nel mondo di don Juan. Vedevo l’energia così come fluisce nell’universo, ma non vedevo esseri umani come grumi di energia sferici o oblunghi. Mi circondavano persone dall’aspetto normalissimo che un istante dopo si tramutavano in strane creature. La sfera di energia diventava trasparente, simile a un alone intorno a un nucleo, la cui forma ricordava quella di un insetto. Quel nucleo non aveva affatto la sagoma di un primate. Non c’erano ossa e non vedevo le persone come si vedono ai raggi X. Nel loro nucleo c’erano invece forme geometriche, composte di qualcosa che sembrava vibrazione di materia. Quel nucleo era simile alle lettere dell'alfabeto, la struttura centrale sembrava una T maiuscola; di fronte a essa era sospesa una spessa L invertita; un delta greco, che arrivava fino a terra, stava in fondo alla barra verticale della T e sembrava sostenere l’intera struttura. In cima alla T, vidi un filamento simile a una fune, del diametro forse di due centimetri e mezzo; passava attraverso la sommità della sfera luminosa: era come se stessi vedendo un pendente formato da una perla gigantesca.
Una volta don Juan aveva usato una metafora per descrivere l’unione energetica di filamenti degli esseri umani. Aveva detto che gli sciamani dell'antico Messico parlavano di questi filamenti come di una tenda fatta di perle infilate in un filo. Io avevo preso la metafora alla lettera, a significare che il filo penetrava il conglomerato di campi energetici che ci compongono. Ma il filo che io vedevo in quel momento assomigliava più a un pendente. Ciononostante, non vedevo nessun altro essere vivente appeso al medesimo filo. Ogni creatura che vedevo era un essere di forma geometrica con quel filo nella parte superiore dell'alone sferico. Il filamento mi ricordava terribilmente i segmenti vermiformi che a volte vediamo dietro le palpebre semiabbassate per proteggere gli occhi dal sole.
Insieme a don Juan attraversai la città da un capo all’altro e vidi un numero enorme di creature dalla forma geometrica. La mia capacità visiva era estremamente instabile. Le vedevo per un istante, poi non le vedevo più e al loro posto c’erano persone normalissime.
Presto mi sentii esausto e allora vidi soltanto esseri umani.
Don Juan disse allora che era arrivato il momento di rientrare e, ancora una volta, qualcosa dentro di me perse il senso della continuità e fui di nuovo a casa di don Juan, senza la minima idea di come avessimo coperto quella distanza. Sdraiato sul letto, mi sforzai disperatamente di ricordare, di sondare le profondità del mio essere nel tentativo di capire come avessi raggiunto la città Yaqui prima e poi la cittadina ferroviaria. Non ero incline a giudicarle fantasie oniriche, perché le scene erano state troppo particolareggiate per non essere reali, ma com’era possibile che fossero reali?
«Stai sprecando tempo» rise don Juan. «Ti garantisco che non saprai mai come siamo arrivati da qui alla città Yaqui, da lì alla stazione ferroviaria e quindi a casa. C’è stata un'interruzione nella continuità temporale. È questa la funzione del silenzio interiore.»
Pazientemente, mi spiegò che l’interruzione del flusso di continuità che rende il mondo comprensibile agli uomini è un atto di magia. Quel giorno, disse, avevo viaggiato attraverso L'oscuro mare della consapevolezza e avevo visto gli uomini prima così com’erano, impegnati nelle loro ordinarie attività. Dopodiché avevo visto il filo di energia che unisce specifiche linee di esseri umani. Più e più volte mi ribadì che avevo assistito a un evento particolare e inesplicabile. Avevo compreso ciò che quella gente stava dicendo senza conoscerne la lingua e avevo visto il filo di energia che collegava alcuni esseri umani ad altri: non solo, avevo selezionato quegli aspetti mediante un atto di intendimento. Non si era trattato di un agire consapevole o volontario; L’intendimento era stato a un livello più profondo ed era stato determinato dalla necessità. Avevo bisogno di acquisire consapevolezza di alcune delle possibilità implicite nel viaggiare attraverso l’oscuro mare della consapevolezza, e il mio silenzio interiore aveva guidato l’intento — una forza universale eterna — perché soddisfacesse tale necessità.
Consapevolezza inorganica
A un certo momento del mio apprendistato, don Juan mi rivelò la complessità della sua situazione. Con mio grande sgomento, aveva continuato a sostenere di vivere nella baracca nello stato di Sonora, in Messico, perché quella baracca illustrava il mio stato di consapevolezza. Io non credevo che mi giudicasse davvero così privo di capacità, né credevo che avesse altri luoghi in cui vivere, come invece affermava.
Venne fuori che aveva ragione su entrambi i fronti. ll mio stato di consapevolezza era effettivamente bassissimo e lui aveva effettivamente altri luoghi in cui vivere, molto più confortevoli della baracca in cui aveva avuto luogo il nostro primo incontro. Né era lo sciamano solitario che io avevo creduto, bensì il capo di un gruppo di quindici guerrieri-viaggiatori: dieci donne e cinque uomini. La mia sorpresa non conobbe limiti quando mi condusse nel Messico centrale, nella casa in cui abitava con i compagni.
«Era solo per causa mia che vivevi a Sonora, don Juan?» domandai, restio ad assumermi una simile responsabilità, una responsabilità che mi riempiva di colpa, di rimorso, nonché di un vivo senso di indegnità.
«Be’, di fatto non ci ho mai vissuto» mi rispose ridendo. «Mi sono limitato a incontrarvi te.»
«Ma - ma - ma non potevi sapere quando sarei venuto a incontrarti, don Juan» obiettai. «Non avevo alcun modo per comunicartelo!»
«Se ricordi correttamente, sono state molte le volte in cui non mi hai trovato. Hai dovuto metterti a sedere e aspettarmi pazientemente, anche per giorni interi.»
«Sei venuto in volo da qui a Guayamas?» chiesi poi, persuaso che il modo più veloce di viaggiare fosse in aereo.
«No, non sono arrivato in volo a Guayamas» mi rispose con un ampio sorriso.
«Ho volato direttamente alla baracca in cui tu aspettavi.»
Stava dicendomi qualcosa che la mia mente che funzionava con la logica lineare non era in grado di capire né di accettare, qualcosa che mi sconcertava enormemente. D mio livello di consapevolezza era più basso e mi tormentava senza sosta una domanda fatale: «E se tutto ciò che don Juan dice fosse vero?»
Non volevo chiedergli altro perché il tentativo di colmare il divario fra i nostri due percorsi di pensiero e di azione mi precipitava invariabilmente nello smarrimento.
In quel nuovo ambiente, don Juan iniziò scrupolosamente a istruirmi su un aspetto più complesso della sua conoscenza, un aspetto che richiedeva tutta la mia attenzione e per cui una semplice sospensione del giudizio non era sufficiente. FU quello il periodo in cui dovetti sprofondare negli abissi della sua conoscenza. Dovetti cessare di avere una visione oggettiva delle cose e, al tempo stesso, dovetti abbandonare la soggettività.
Un giorno, lo stavo aiutando a ripulire alcune canne di bambù sul retro della casa. Don Juan mi aveva fatto infilare i guanti da lavoro perché, affermò, le schegge di bambù erano aguzze e spesso provocavano infezioni. Mi insegnò poi a maneggiare il coltello per ripulire le canne. Finii per concentrarmi talmente sul mio compito, che, quando lui cominciò a parlarmi, dovetti interrompermi per potergli prestare la dovuta attenzione. Don Juan mi disse che avevo lavorato abbastanza e che era tempo di rientrare in casa.
Mi invitò a sedermi su una comoda poltrona nel soggiorno ampio e quasi vuoto. Mi offrì noci, albicocche e fette di formaggio, disposte ordinatamente su un piatto. Protestai dicendo che volevo finire di pulire le canne di bambù e che non avevo fame. Senza badarmi, lui mi consigliò di mangiare con calma, perché avrei avuto bisogno di una certa scolta di cibo per dedicare la necessaria attenzione a quanto stava per dirmi.
«Sai già che esiste nell’universo una forza eterna che gli sciamani dell'antico Messico chiamavano l’oscuro mare della consapevolezza. Quando erano al culmine del loro potere di percezione vedevano qualcosa che li avrebbe fatti tremare nei pantaloni, se li avessero portati. Vedevano che l’oscuro mare della consapevolezza non è solo responsabile della consapevolezza degli organismi, ma anche di quelle entità che sono prive di organismo.»
«Entità prive di organismo ma dotate di consapevolezza?» ripetei sbalordito. Era la prima volta che mi illustrava quel concetto.
«Gli antichi sciamani avevano scoperto che l’intero universo è composto da forze gemelle, forze che sono opposte e complementari. Il nostro mondo non può che essere un mondo gemello e quello ad esso opposto e complementare è un mondo popolato da esseri dotati di consapevolezza ma non di organismo. Per questa ragione, gli antichi sciamani li chiamavano esseri 'inorganici.»
«Dov’è questo mondo?» domandai, masticando distrattamente un pezzo di albicocca.
«E qui, dove sediamo tu e io» replicò don Juan con noncuranza, ma palesemente divertito dalla mia agitazione. «Ti ho detto che è il nostro mondo gemello e di conseguenza non può non essere intimamente collegato a noi. Gli sciamani dell'antico Messico non pensavano in termini di spazio e di tempo come fai tu, ma esclusivamente in termini di consapevolezza. Due tipi di consapevolezza possono coesistere senza ostacolarsi l’un l’altro, perché sono profondamente diversi. Gli antichi sciamani affrontavano il problema della coesistenza senza preoccuparsi del tempo e dello spazio. Per loro, il grado di consapevolezza degli esseri organici e quello degli esseri inorganici erano talmente diversi che la convivenza era possibile senza che si verificasse alcuna interferenza.»
«Noi siamo in grado di percepire gli esseri inorganici» domandai ancora.
«Certamente» mi rispose. «Gli sciamani possono riuscirei con un atto di volontà. Anche l’uomo medio lo fa, ma senza saperlo, perché ignora l’esistenza di un mondo gemello. Quando pensano a un mondo gemello, gli uomini entrano in una specie di spirale di masturbazioni mentali, ma è mai venuto loro in mente che le loro fantasie abbiano origine da una conoscenza subliminale che tutti condividiamo: non siamo soli.»
Ero stupefatto e improvvisamente mi scoprii anche terribilmente affamato. Sentivo un senso di vuoto alla bocca dello stomaco. Tutto quello che potevo fare era ascoltare con la massima attenzione e mangiare.
«Per te, la difficoltà nasce dal fatto che ti accosti alle cose in termini di spazio e di tempo» riprese don Juan, «è che, così facendo, ti accorgi di qualcosa solo quando approda nello spazio e nel tempo a te accessibili e che sono necessariamente molto limitati. Gli sciamani, invece, dispongono di un campo molto vasto su cui registrare l’arrivo di qualcosa di estraneo. Innumerevoli entità provenienti dall’universo, entità che possiedono consapevolezza ma non organismo, atterrano nel campo di consapevolezza del nostro mondo, o del suo gemello, senza che l’uomo medio ne abbia nemmeno sentore. Sono entità appartenenti ad altri mondi. L’universo nella sua globalità è pieno fino all’orlo di mondi di consapevolezza, organici e inorganici.»
Questi sciamani, disse ancora, sapevano quando nel nostro campo di consapevolezza entrava una consapevolezza inorganica proveniente da altri mondi. E, come fanno tutti gli uomini, creavano continue classificazioni dei diversi tipi di questa energia dotata di consapevolezza, a cui attribuivano il termine generico di esseri inorganici.
«Questi esseri inorganici hanno una vita così come l’abbiamo noi?» chiesi.
«Se per te avere la vita significa essere consapevoli, allora certamente sì» fu la sua risposta. «Se la vita è da valutarsi in base all’intensità, alla penetrazione e alla durata di questa consapevolezza, allora si può tranquillamente dire che sono più vivi di me e di te.»
«E muoiono?»
Don Juan ridacchiò prima di rispondere. «Se definisci morte la fine della consapevolezza, allora sì, muoiono. La loro consapevolezza termina. La loro morte è molto simile alla morte di un essere umano e al tempo stesso non lo è, perché la morte degli uomini prevede un’opzione segreta. Qualcosa di simile a una clausola scritta a caratteri piccolissimi, quasi invisibili, su un documento legale. Per leggerla bisogna usare la lente d'ingrandimento e tuttavia è la clausola più importante dell’intero documento.»
«Che cos’è l’opzione segreta, don Juan?»
«L’opzione segreta della morte è pertinenza esclusiva degli sciamani. Per quanto ne so, sono stati gli unici ad aver decifrato quei minuscoli caratteri. Per loro, l’opzione è pertinente e funzionale. Per l’uomo comune, la morte equivale alla conclusione della consapevolezza, alla fine organica. Per gli esseri inorganici è lo stesso: anche per essi la morte è la fine della consapevolezza. In entrambi i casi, morire equivale all’essere risucchiati nell’oscuro mare della consapevolezza. La consapevolezza individuale, colma delle esperienze di vita, abbatte i propri confini e si riversa, in forma di energia, nell’oscuro mare della consapevolezza.»
«Ma qual è l’opzione segreta di morte accessibile solo agli sciamani, don Juan?» chiesi ancora.
«Per uno sciamano la morte è un fattore unificante. Invece di disintegrare l’organismo, come accade normalmente, la morte lo unifica.»
«Com’è possibile che la morte unifichi qualcosa?» protestai.
«Per uno sciamano, la morte pone fine al predominio degli stati d’animo individuali nel corpo. Gli antichi sciamani credevano che fosse appunto il dominio delle diverse parti del corpo a determinare gli uomini e le azioni del corpo nella sua interezza; le pari che diventano disfunzionali trascinano anche il resto nel caos, come succede per esempio quando si sta male per aver mangiato del cibo avariato. In quel caso, lo stato dello stomaco condiziona tutto il resto. La morte sradica il dominio di queste parti individuali e unifica la loro consapevolezza in un’unità.»
«Vuoi dire che gli sciamani restano consapevoli anche dopo la morte?»
«Per essi, la morte è un atto di unificazione che coinvolge interamente la loro energia. Tu pensi alla morte come a un cadavere in cui la decomposizione è già in atto. Per gli sciamani, quando l’unificazione ha luogo, non c’è alcun cadavere. Non c’è decomposizione. I loro corpi nella loro interezza si sono trasformati in energia, un’energia dotata di consapevolezza non frammentaria. I limiti stabiliti dall’organismo, limiti che vengono infranti dalla morte, perdurano nel caso degli sciamani, benché non più visibili a occhio nudo.»
«So qual è la domanda che muori dalla voglia di farmi» continuò con un sorriso. «Vuoi sapere se ciò di cui sto parlando è l’ascesa dell’anima in cielo o la sua caduta all’inferno. No. Non si tratta dell’anima. Quando uno sciamano sceglie questa opzione segreta, si trasforma in un essere inorganico estremamente sofisticato, dotato di una prodigiosa capacità di percezione. Entra allora in ciò che gli antichi sciamani chiamavano il viaggio supremo. l’infinito diventa il suo campo d’azione.»
«Mi stai dicendo che diventano eterni?»
«In quanto sciamano, la sobrietà mi dice che la loro consapevolezza ha un termine, proprio come accade agli esseri inorganici, ma io non l’ho mai visto accadere. Non ho conoscenze di prima mano al riguardo. Gli antichi sciamani credevano che la consapevolezza di questi esseri inorganici durasse quanto la terra stessa. La terra è la loro matrice. Finché essa prevale, la loro consapevolezza continua. E, per quanto mi riguarda, la trovo un’affermazione del tutto ragionevole.»
Giudicai perfetta la sequenzialità della sua spiegazione. Non avevo alcun contributo da offrire. Mi lasciò con una sensazione di mistero nonché di aspettative inespresse che attendevano di essere esaudite.
Durante la mia visita successiva, feci a don Juan una delle domande che più mi tormentavano.
«E possibile che spettri e apparizioni esistano realmente?»
«Ciò che tu definiresti fantasma o apparizione, quando è investigato da uno sciamano, si riduce a un’unica questione: è possibile che queste apparizioni siano conglomerati di campi energetici dotati di consapevolezza e che noi trasformiamo in cose che conosciamo. Se questo è il caso, allora le apparizioni hanno energia. Gli sciamani le definiscono configurazioni generatrici di energia. In alternativa, non emanano alcuna energia, nel qual caso sono creazioni fantasmagoriche, di solito proiettate da un individuo molto forte, e intendo forte in termini di consapevolezza.»
«Un episodio che mi ha sempre intrigato moltissimo» seguitò don Juan, «è quello che mi hai raccontato in merito a tua zia. Lo ricordi?»
A quattordici anni ero andato a vivere presso la sorella di mio padre. Mia zia abitava in una casa enorme con tre patii suddivisi in unità abitative camere da letto, soggiorni eccetera. Il primo patio, pavimentato a ciottoli, era estremamente austero. Un tempo era una casa coloniale, mi dissero, dove entravano le carrozze. Il secondo era uno splendido frutteto in cui si intersecavano sentieri di mattoni in stile moresco. Il terzo era sormontato da piante appese ai cornicioni e popolato di uccelli in gabbia; al centro stava una fontana in stile coloniale e non mancava un'ambita zona chiusa da una rete metallica, in cui stava la passione di mia zia: i suoi galli da combattimento.
La zia mi aveva assegnato un intero appartamento antistante il frutteto. Ero convinto che lì me la sarei spassata: potevo mangiare tutta la frutta che volevo. In casa nessun altro toccava quei frutti, per motivi che non mi furono mai rivelati. Mia zia, la padrona di casa, era una signora sulla cinquantina, alta e grassoccia e col viso rotondo, molto gioviale, grande narratrice e piena di stranezze che celava dietro un contegno formale e un’ostentata religiosità. Poi c’era il maggiordomo, un uomo alto, imponente, poco più che quarantenne, che nell’esercito era stato sergente maggiore e in seguito aveva preferito impiegarsi, con una buona retribuzione, come maggiordomo, guardia del corpo e uomo tuttofare. Sua moglie, una donna giovane e bella, era la dama di compagnia, la cuoca e la confidente di mia zia. La coppia aveva una figlia, una bambina grassottella esattamente uguale a mia zia. La somiglianza era talmente marcata che lei aveva finito per adottarla legalmente.
Erano le persone più tranquille che avessi mai conosciuto. Conducevano una vita estremamente quieta, punteggiata solo dalle bizzarrie di mia zia che, all’improvviso, decideva magari di intraprendere un viaggio o di comprare nuovi galli da combattimento e addestrarli, per utilizzarli poi in incontri in cui circolavano cifre enormi. Circondava i galli di cure amorevoli, accudendoli a volte per tutto il giorno. Portava spessi guanti di pelle e, per evitare che gli animali la ferissero con gli speroni, rigidi gambali in pelle.
Passai lì due mesi meravigliosi. D pomeriggio, la zia mi impartiva lezioni di musica e mi raccontava storie interminabili sui nostri antenati. Era un accomodamento ideale per me, libero com’ero di uscire con i miei amici senza doverne rendere conto a nessuno. A volte, la notte, mi succedeva di restare sveglio per ore. Tenevo la finestra aperta per lasciare entrare il profumo dei fiori d’arancio e sempre, nel corso di quelle lunghe veglie, sentivo dei passi nel corridoio che si snodava lungo tutto il lato nord della casa e collegava i vari patii. Aveva degli splendidi archi e il pavimento di piastrelle. Lo illuminavano solo quattro lampadine a bassissimo voltaggio, che venivano accese ogni sera alle sei e spente alle sei del mattino.
Chiesi a mia zia se fosse il maggiordomo a camminare di notte e a fermarsi in corrispondenza della mia finestra, perché era quello il punto che il misterioso viandante aveva scelto per girarsi e tornare sui suoi passi, diretto all’ingresso principale.
«Non darti pena per simili sciocchezze, tesoro» mi rispose lei sorridendo. «Probabilmente è il maggiordomo che fa il giro di controllo. Non ti sarai spaventato?»
«Certo che no» replicai. «Ero solo curioso di sapere perché quell’uomo si ferma proprio davanti alla mia stanza. A volte i suoi passi mi svegliano.»
Lei liquidò la questione in poche parole, dicendo che il maggiordomo era stato un militare ed era abituato alle ronde, una spiegazione che non faticai ad accettare.
Un giorno, però, mi lamentai con il maggiordomo del suo passo pesante e gli chiesi di fare più attenzione per non svegliarmi.
«Non so di che cosa tu stia parlando» protestò lui in tono brusco.
«Mia zia mi ha detto che di notte sorvegli la casa.»
«Mai fatto niente del genere» negò l’uomo con aria disgustata.
«Ma allora chi cammina vicino alla mia finestra?»
«Nessuno. Ti immagini le cose. 'Torna a dormire e non agitare le acque. Lo dico per il tuo bene.»
In quegli anni per me non c’era nulla di peggio che sentirmi dire che qualcosa veniva fatto per il mio bene. Quella notte, non appena udii i passi, uscii dalla camera e mi nascosi dietro al muro che portava all’ingresso del mio appartamento. Quando calcolai che il misterioso visitatore fosse più o meno all’altezza della seconda lampadina, misi fuori la testa. I passi si fermarono di colpo, ma non vidi nessuno. Il corridoio in penombra era deserto. E tuttavia lo sconosciuto non poteva avere avuto il tempo di nascondersi, soprattutto perché di nascondigli non ce n’erano. C’erano solo pareti spoglie. Ero così spaventato che cominciai a urlare, destando tutti. Mia zia e il maggiordomo cercarono di calmarmi dicendo che avevo immaginato ogni cosa, ma ero talmente agitato che finirono per confessare: c’era in effetti una presenza sconosciuta che ogni notte si aggirava per la casa.
Secondo don Juan era mia zia a compiere quelle passeggiate notturne; più precisamente, un aspetto della sua consapevolezza su cui lei non aveva alcun controllo. Credeva che il fenomeno fosse da attribuire a una certa propensione di lei alla giocosità e al mistero. Secondo don Juan, non era affatto azzardato pensare che, a livello subliminale, mia zia fosse capace di manipolazioni della consapevolezza ben più complesse. Tuttavia, aggiunse, per amore di giustizia si sentiva tenuto ad ammettere la possibilità che quei passi fossero il prodotto di consapevolezze inorganiche.
Don Juan disse inoltre che gli sciamani della sua stirpe consideravano gli esseri inorganici che popolavano il nostro mondo gemello come nostri congiunti. Pensavano tuttavia che fosse futile stabilire con loro un rapporto amicale: le rivendicazioni di una simile amicizia risultavano sempre esorbitanti per noi. Quel tipo di essere inorganico, specificò, i nostri primi cugini, comunica con noi senza sosta, ma è una comunicazione che non si svolge sul piano della consapevolezza conscia. In altre parole, noi sappiamo di loro in modo subliminale, mentre loro ci conoscono in modo deliberato e conscio.
«L’energia proveniente dai nostri primi cugini è un ostacolo» continuò. «Sono fottuti come noi. Potremmo dire che gli esseri organici e inorganici dei nostri mondi gemelli sono figli di due sorelle che vivono porta a porta: sono esattamente identici, benché appaiano diversi. Non possono aiutarci e noi non possiamo aiutare loro. Farse avremmo potuto coalizzarci e avviare una fantastica azienda a conduzione familiare, ma non è mai accaduto. Entrambi i rami della famiglia sono estremamente suscettibili e si offendono per nulla, una situazione più che comune tra primi cugini. Secondo gli sciamani dell'antico Messico, il punto cruciale è che sia gli esseri umani sia gli esseri inorganici dei mondi gemelli sono centrati nell’ego al massimo grado.
Secondo don Juan, in base a un’altra classificazione fatta dagli antichi sciamani, gli esseri inorganici erano definiti scout o esploratori e con ciò gli sciamani intendevano gli esseri inorganici provenienti dalle profondità dell’universo, con una consapevolezza infinitamente più rapida e acuta di quella dell’uomo.
Don Juan disse che gli antichi sciamani avevano dedicato intere generazioni a elaborare i loro criteri di classificazione, arrivando alla conclusione che certi tipi di esseri inorganici della categoria degli scout o esploratori sono, a causa della loro vivacità, molto simili agli uomini. Con gli uomini potrebbero di conseguenza stabilire legami e anche una relazione simbiotica. Di conseguenza, li avevano chiamati gli alleati. Ma in questo caso, mi spiegò don Juan, il loro errore era stato quello di attribuire caratteristiche umane a un’energia impersonale, e di credere di poterla imbrigliare. Consideravano queste forme di energia bloccata come loro assistenti e si affidavano a essi senza comprendere che, essendo costituiti di pura energia, non avevano alcun potere di sostenere i loro sforzi.
«Ti ho detto tutto quello che c’è da sapere sugli esseri inorganici» concluse piuttosto bruscamente. «L’unico modo per verificare la veridicità di queste informazioni sta nell'esperienza diretta.»
Non gli chiesi che cosa volesse da me. Mi aveva invaso un timore profondo, avevo il corpo scosso da spasmi nervosi, che esplodevano come un'eruzione vulcanica dal plesso solare, per diffondersi fino alla punta delle dita e in tutta la parte superiore del torace.
«Oggi andremo in cerca di esseri inorganici» annunciò a quel punto don Juan. Mi ordinò di sedermi sul letto e di assumere di nuovo la posizione che favoriva il silenzio interiore. Obbedii con insolita tranquillità. Di solito, infatti, ero un po’ restio, anche se mi sforzavo di non mostrare la mia riluttanza.
Mentre mi sedevo, ebbi la vaga sensazione di trovarmi già in uno stato di silenzio interiore. I miei pensieri non erano più lucidi. Avvertivo intorno a me un’oscurità impenetrabile e la sensazione era simile a quella che si prova quando si è sul punto di addormentarsi. Il mio corpo era assolutamente immobile, forse perché non ero intenzionato a ordinargli di muoversi, o forse perché non ero neppure in grado di formulare certi ordini.
Un istante più tardi mi ritrovai con don Juan nel deserto di Sonora. Riconobbi il posto: c’ero stato con lui talmente tante volte che ne avevo memorizzato ogni caratteristica. Era il tramonto e la luce del sole mi gettò in uno stato di disperazione. Camminavo automaticamente, cosciente delle sensazioni fisiche a cui, però, non si accompagnavano pensieri. Avrei voluto parlarne a don Juan, ma il desiderio di comunicargli quelle mie sensazioni svanì quasi subito.
Con voce lenta e grave, lui disse che il letto asciutto del fiume su cui camminavamo era un luogo appropriato per ciò che ci proponevamo. Mi disse poi di sedermi su un piccolo macigno, mentre lui ne avrebbe occupato un altro, a una quindicina di metri di distanza. Non gli chiesi, come avrei fatto in qualunque altro momento, che cosa avrei dovuto fare. Lo sapevo. Di lì a poco sentii un rumore di passi tra i radi cespugli che ci circondavano. Nel deserto l’aria era troppo secca per favorire lo sviluppo della vegetazione e, fra un cespuglio e l’altro, c’era una distanza di più di dieci metri.
Vidi due uomini che si avvicinavano. Sembrava gente del posto, forse indiani provenienti da una delle vicine città Yaqui. Si fermarono accanto a me e, con fare noncurante, uno mi domandò come stessi. Avrei voluto sorridergli, ridere, ma non potei. Avevo il volto rigido, benché nel mio intimo ribollissi. Avrei voluto saltare su e giù, ma non ero in grado di fare neppure questo. Risposi che stavo bene, poi domandai chi fossero. Pur non conoscendoli, sentivo con loro una straordinaria familiarità. Nello stesso tono noncurante, uno dei due mi rispose che erano miei alleati.
Li fissai, cercando di memorizzare i loro lineamenti, ma lì vidi mutare, come liquefarsi, sotto il mio sguardo. Non c’erano pensieri; solo sensazioni viscerali. Li guardai abbastanza a lungo da cancellare completamente i loro tratti e, in ultimo, mi trovai di fronte due grumi di luminosità vibrante. I grumi non avevano contorni e la forza di coesione sembrava scaturire dall’interno. A tratti si facevano piatti e più ampi, poi si dilatavano di nuovo in verticale, fino a raggiungere l'altezza di un uomo.
Improvvisamente sentii il braccio di don Juan agganciarsi al mio e trascinarmi via dal macigno. Disse che era ora di andare. Subito dopo, ero di nuovo nella sua casa in Messico, più stupefatto che mai.
«Oggi hai trovato la consapevolezza inorganica e l’hai vista come realmente è» mi disse lui. «L’energia è l’irriducibile residuo di ogni cosa. Per un essere umano, vedere direttamente l’energia è il limite ultimo. Farse al di là di esso c’è dell’altro, ma noi non vi abbiamo accesso.»
Ribadì questo concetto più volte, e ogni volta che lo ripeteva le sue parole sembravano acquistare una maggiore concretezza. Gli raccontai tutto quello che avevo visto e sentito. Don Juan mi spiegò che quel giorno ero riuscito a trasformare la forma antropomorfica degli esseri inorganici nella loro essenza: energia impersonale consapevole di sé.
«Devi capire che è proprio la nostra conoscenza, che è in sostanza un sistema di interpretazione, a limitare le nostre risorse. È il nostro sistema di interpretazione a dirci quali sono i parametri delle nostre possibilità e, dato che non c’è circostanza della vita in cui non lo utilizziamo, non possiamo contrastarne i dieta.»
«L’energia di questi esseri inorganici ci incita» continuò, «e noi interpretiamo tale incitamento a seconda del nostro stato d’animo. La cosa più lucida che uno sciamano possa fare è confinare queste entità a un livello astratto. Meno interpretazioni si danno, meglio è.»
«D’ora in poi» continuò, «ogni volta che ti troverai di fronte a un’apparizione, mantieniti saldo e guardala con atteggiamento inflessibile. Se è un essere inorganico, la tua interpretazione di esso verrà a cadere come una foglia morta. Se non accade nulla, allora capirai che è solo una stronzata della tua mente che, per altro, non è affatto tua.»
La visione nitida
Per la prima volta in vita mia non sapevo che punti di riferimento scegliere per sapere quale comportamento adottare nel mondo. Ero smarrito. Il mondo che mi circondava non era cambiato; la colpa era certamente mia. L'influenza di don Juan e tutte le attività che derivavano dalle sue pratiche e nelle quali mi aveva coinvolto tanto intensamente, cominciavano a esigere il loro prezzo, rendendomi incapace di trattare con il mio prossimo. Esaminai questa mia difficoltà e conclusi che il problema stava nella mia compulsività a valutare chiunque usando don Juan come parametro.
A mio avviso, don Juan era un essere che viveva la propria vita nel modo più professionale, in ogni accezione del termine: tutte le sue azioni, anche le più insignificanti, avevano un peso. Ero circondato da persone convinte di essere immortali, che si contraddicevano a ogni piè sospinto; esseri le cui azioni non avevano mai una seria giustificazione. Il confronto era quindi tutto a loro svantaggio. Mi ero abituato all'inalterabile comportamento di don Juan, alla sua totale mancanza di presunzione e all’insondabile portata del suo intelletto, mentre pochissime erano le persone di mia conoscenza che fossero anche solo consapevoli dell’esistenza di un altro schema di comportamento in grado di alimentare quelle qualità. La maggior parte conosceva solo lo schema comportamentale dell’autoriferimento, che rende gli uomini deboli e contorti. Di conseguenza, i miei studi universitari stavano attraversando un momento di particolare difficoltà. Li stavo, per così dire, perdendo di vista. Cercavo disperatamente di trovare una giustificazione ai miei sforzi accademici. Ad aiutarmi e a darmi un legame, per quanto debole, col mondo accademico, fu soltanto un'osservazione che don Juan aveva fatto tempo addietro: i guerrieri-viaggiatori devono amare la conoscenza, in qualunque forma essa si presenti.
Don Juan aveva definito il concetto di guerrieri viaggiatori dicendo che si riferiva agli sciamani che, in qualità di guerrieri, viaggiavano nell’oscuro mare della consapevolezza. Aveva aggiunto che gli esseri umani erano viaggiatori dell’oscuro mare della consapevolezza e questa terra non era altro che una tappa del loro viaggio; per motivi esterni, che in quel periodo non desiderava divulgare, essi avevano poi interrotto il loro viaggio. Erano finiti, mi spiegò, intrappolati in una sorta di vortice: una corrente che si muoveva circolarmente dando loro l’impressione di muoversi mentre, di fatto, stavano fermi. Gli sciamani erano i soli a opporsi alla forza, qualunque essa fosse, che teneva prigionieri gli uomini e, attraverso la disciplina, si liberavano dalla sua stretta per continuare il viaggio.
A portare definitivamente il caos nella mia attività accademica fu l’incapacità da parte mia di concentrarmi su tematiche antropologiche che non mi dicevano nulla; non perché mancassero di fascino, ma perché erano in prevalenza argomenti in cui le parole e i concetti andavano manipolati, come in un documento legale: lo scopo era ottenere un certo risultato che confermasse i precedenti. Si diceva che la conoscenza umana era strutturata in questo modo e che l’impegno di ciascun individuo equivaleva a uno dei blocchi che avrebbero contribuito a costruire un sistema di conoscenza. L esempio che mi veniva fatto era quello del sistema legale sotto cui viviamo e che è per noi di importanza vitale. Ciononostante in quel periodo il mio atteggiamento romantico mi impediva di vedermi come un avvocato dell’antropologia. Avevo acquistato a scatola chiusa il concetto che l’antropologia dovrebbe essere la matrice di ogni sforzo umano, oppure la misura dell’uomo.
Don Juan, pragmatista all’estremo, un autentico guerriero-viaggiatore dell’ignoto, pensava che avessi in testa un sacco di idee sciocche. Secondo lui, poco importava che le tematiche antropologiche che mi avevano proposto fossero esercitazioni di parole e concetti: ciò che contava era l’esercizio della disciplina.
«Non fa differenza» mi disse una volta, «essere o meno un buon lettore, né quanti libri meravigliosi si leggono. L’importante è avere la disciplina necessaria per leggere ciò che non si vuol leggere. Per gli sciamani, il fulcro della pratica dello studio sta in ciò che si rifiuta, non in ciò che si accetta.»
Decisi di prendermi una pausa e mi impiegai nell’ufficio artistico di un'azienda produttrice di decalcomanie. Il nuovo lavoro finì per impegnare tutto il mio tempo e i miei pensieri. La sfida stava nel portare a termine i compiti assegnatemi nel modo più perfetto e più rapido possibile. Montare i fogli di vinile con le immagini destinate a essere trasformate in decalcomanie era una procedura standard che non ammetteva alcuna innovazione e l’efficienza dell'operatore si valutava in base alla precisione e alla velocità. Divenni uno stacanovista e mi divertivo moltissimo.
Ben presto divenni amico del direttore dell’ufficio artistico, che finì col prendermi sotto la sua protezione. Si chiamava Ernest Lipton e io lo ammiravo e lo rispettavo infinitamente. Era un artista e un magnifico artigiano; il suo principale difetto era l'eccessiva gentilezza, una considerazione per gli altri tale da sconfinare nella passività.
Un giorno, per esempio, stavamo lasciando il parcheggio del ristorante in cui avevamo pranzato. Con molta cortesia, Ernest diede la precedenza a un’altra auto che stava uscendo a sua volta. Il conducente, che evidentemente non ci aveva visto, fece marcia indietro ad alta velocità. Invece di avvertirlo suonando il clacson, Ernest rimase fermo, con un sorriso da idiota, mentre l'automobile ci veniva addosso. Quindi si volse per scusarsi con me.
«Perbacco, avrei potuto suonare il clacson» disse, «ma è così maledettamente rumoroso che mi mette in imbarazzo.»
l’altro automobilista era furioso e bisognò calmarlo. «Non si preoccupi» disse Ernest, «la sua auto non ha subito alcun danno. E a me ha fracassato solo i fari, che contavo di cambiare comunque.»
Un’altra volta, ci trovavamo nello stesso ristorante in compagnia di alcuni giapponesi, clienti della società. I nostri ospiti parlavano animatamente, tempestandoci di domande. Arrivò il cameriere con le ordinazioni e tolse alcuni piatti di insalata per fare posto sul tavolo stretto ai grandi vassoi caldi della portata principale. Uno dei clienti aveva bisogno di più spazio. Spinse in avanti il suo piatto che andò a urtare quello di Ernest. Lui lo vide scivolare verso il bordo del tavolo e ancora una volta, invece di avvertire l’altro, rimase fermo e sorridente finché il piatto non gli cadde in grembo.
In un’altra occasione, andai a casa sua per aiutarlo a montare nel patio certi travicelli su cui contava di far crescere una vite per ricavarne ombra e frutta. Montammo i travicelli in un’enorme struttura e quindi ne sollevammo un lato per inchiodarla alle travi. Ernest era un uomo alto e forte, e utilizzando un pezzo di legno di due pollici per quattro, sollevò l’altro capo per consentirmi di infilare i bulloni nei fori che avevamo precedentemente praticato nelle travi di supporto. Proprio in quel momento, sentimmo bussare e Ernest mi chiese di andare a vedere chi fosse. Lui sarebbe rimasto lì a sorreggere la struttura.
Era sua moglie, carica di pacchetti della spesa. La donna mi coinvolse in una lunga conversazione e io mi dimenticai di Ernest. L’aiutai addirittura a mettere via la spesa. Stavo sistemando il sedano quando mi ricordai improvvisamente di lui. Conoscendolo, ero certo che fosse ancora lì, forte della convinzione che tutti trattassero lì prossimo con il suo stesso rispetto. Mi precipitai nel cortile posteriore, dove lo trovai a terra. Era crollato per la stanchezza. Sembrava una bambola di stracci e dovetti chiamare alcuni suoi amici perché mi dessero una mano. Ernest non era più in grado di lavorare e fu costretto a mettersi a letto. Ero certo che gli fosse venuta un’ernia.
Ma il culmine lo raggiunse quando un fine settimana partì con degli amici per un’escursione sulle montagne di San Bernardino. Si erano accampati per la notte e tutti stavano dormendo quando Ernest si alzò per soddisfare un bisogno fisiologico. Rispettoso come sempre, volle allontanarsi dal campo per non disturbare nessuno, ma nel buio scivolò e rotolò giù per il pendio. Come raccontò in seguito agli amici, era sicuro che si sarebbe schiantato sul fondo della vallata. Per sua fortuna, riuscì ad aggrapparsi a una sporgenza con la punta delle dita e rimase per ore in quella posizione, tastando nell’oscurità alla ricerca di un appoggio per i piedi, perché le braccia minacciavano di cedere... se fosse caduto, sarebbe morto.
Allungando le gambe il più possibile, trovò finalmente delle minuscole sporgenze rocciose su cui posare i piedi. Rimase così, attaccato alla roccia come le decalcomanie che produceva, finché la luce del giorno non gli rivelò che era sospeso a pochi centimetri da terra.
«Avresti potuto gridare aiuto!» protestarono i suoi amici.
«Perbacco, non pensavo che sarebbe servito» fu la sua risposta. «Chi mi avrebbe sentito? Credevo di essere rotolato in basso per più di un chilometro. E poi, dormivano tutti.»
Ernest Lipton mi inflisse il colpo finale quando decise di comprare un’auto a basso consumo, un Maggiolone Volkswagen. Ernest, infatti, perdeva due ore al giorno a fare la spola tra casa e negozio. Dopo l'acquisto, volle calcolare quanti chilometri faceva con un gallone di benzina. Restai sorpreso quando una mattina mi annunciò di aver coperto ben cento chilometri con un solo gallone. Certo, aggiunse puntigliosamente, non aveva guidato quasi mai in città, ma soprattutto in autostrada, benché nelle ore di punta, quando era costretto ad accelerare e rallentare di continuo. Una settimana dopo mi disse di essere arrivato ai quattrocento chilometri con un gallone. Quella prodigiosa escalation continuò fino allo stupefacente traguardo di più di mille chilometri con un gallone. Gli amici gli dissero che avrebbe dovuto informare la Volkswagen, perché il record venisse adeguatamente documentato. Ernest era compiaciutissimo, non stava più nella pelle; continuava a ripetere che non sapeva che cosa avrebbe fatto se avesse raggiunto il primato dei mille e seicento chilometri. Gli amici risposero che a quel punto avrebbe dovuto gridare al miracolo.
Questa idilliaca situazione si protrasse fino al mattino in cui Ernest scoprì che proprio quegli amici da mesi lo imbrogliavano con il trucco più vecchio del mondo. Ogni giorno, uno di loro travasava nel serbatoio della sua auto tre o quattro tazze di benzina in modo che l’indicatore non segnasse mai rosso.
Quella volta Ernest Lipton fu a un passo dall’arrabbiarsi. Il suo duro commento fu: «Perbacco! E voi lo trovate divertente?» Io ero al corrente dello scherzo da settimane, ma non ero intervenuto, pensando che non fossero affari miei. Ernest conosceva quegli uomini da tutta una vita, mentre io ero un nuovo arrivato. Tuttavia, nel vedere la sua espressione di risentimento e di delusione e la sua palese incapacità di arrabbiarsi, sentii un’ondata di colpa e di ansia. Ecco che ancora una volta mi trovavo ad affrontare un vecchio nemico. Disprezzavo Ernest Lipton ma, al tempo stesso, lo apprezzavo infinitamente. Era senza difese.
La verità era che Ernest assomigliava a mio padre. Gli occhiali dalle lenti spesse, la calvizie incipiente, i peli ispidi e grigi della barba, mai perfettamente rasata, mi riportavano alla mente mio padre. Ernest aveva lo stesso naso dritto, appuntito e lo stesso mento a punta. Ma fu la sua incapacità di arrabbiarsi e prendere quei burloni a pugni sul naso a stringere la somiglianza tra i due, portandola oltre il limite di sicurezza.
Ricordai come mio padre fosse pazzamente innamorato della sorella del suo migliore amico. Un giorno, la vidi in una località turistica, mano nella mano con un ragazzo. Li accompagnava la madre dr lei, nel ruolo di chaperon. I due si guardavano rapiti e la ragazza sembrava al settimo cielo. Insomma, era l’amore giovanile nella sua forma perfetta. Quando vidi mio padre gli dissi che la sua ragazza aveva un vero fidanzato, assaporando ogni istante del mio racconto con tutta la malizia dei miei dieci anni. Lui ne rimase turbatissimo. Non voleva crederci.
«Ma tu le hai mai detto nulla?» esplosi alla fine. «Lei lo sa che ne sei innamorato?»
«Non essere sciocco, piccolo verme!» proruppe lui. «Io non ho bisogno di raccontare alle donne stronzate del genere.»
Mi guardò con l’aria petulante di un ragazzino viziato, con le labbra che gli tremavano per la rabbia. «Lei è mia! Dovrebbe sapere che è la mia donna senza che io debba dirglielo!»
Pronunciò quelle parole con la sicurezza di un bambino che ha avuto sempre tutto, senza mai dover lottare.
A quel punto, pronunciai la mia battuta. «Be’» dissi, «io credo che lei stesse aspettando qualcuno che glielo dicesse, e quel qualcuno ti ha battuto sul tempo.»
Ero pronto a scappar via, sicuro che avrebbe tentato di prendermi a ceffoni, invece lui crollò. Scoppiò a piangere e, singhiozzando incontrollabilmente, mi chiese se, visto che ero capace di tutto, fossi disposto a spiare la ragazza per suo conto e dirgli cosa succedeva.
Disprezzavo mio padre oltre ogni dire, ma al tempo stesso lo amavo, con un amore pervaso da una tristezza incomparabile. Mi maledissi per aver portato quella vergogna su di lui.
Ernest Lipton mi ricordava mio padre al punto che, con la scusa di riprendere gli studi, lasciai il lavoro. Non volevo aggravare il fardello che già portavo sulle spalle. Non mi ero mai perdonato per l’angoscia che avevo causata a mio padre, né avevo mai perdonato lui per la sua viltà.
Tornai all’università e mi accinsi all’immane compito di riprendere le fila dei miei studi di antropologia. A rendere ancor più difficile il mio reinserimento fu il fatto che la persona con cui avrei lavorato con maggior facilità e piacere, purtroppo non apparteneva alla mia facoltà: era un archeologo. Questo studioso aveva un tocco ammirevole, una curiosità audace e la volontà di estendere la sua conoscenza senza farsi confondere e senza difendere tesi insostenibili. Era stata la sua influenza a suscitare in me l'interesse per ll lavoro di raccolta diretta dei dati sul campo. Farse perché lui stesso scavava, nel senso più letterale della parola, alla ricerca di nuove informazioni, la sua concretezza era per me un’autentica oasi. Era stato l’unico a incoraggiarmi a intraprendere ll lavoro antropologico sul campo, sostenendo che non avevo nulla da perdere.
«Perdi questa occasione, e avrai perso tutto» mi disse una volta, e questo è certo il consiglio più valido che abbia mai ricevuto in ambito accademico. Se avessi seguito il consiglio di don Juan e lavorato per correggere la mia ossessione per l’autoriferimento, non avrei davvero avuto nulla da perdere e tutto da guadagnare. Ma questa opportunità era ancora di là da venire.
Quando raccontai a don Juan le difficoltà incontrate nel trovare un docente con cui collaborare, rimasi sgradevolmente colpito dalla sua reazione. Mi dette del piccolo scorreggione e mi appellò con nomi perfino peggiori. Mi disse quello che già sapevo: se non fossi stato tanto teso, avrei potuto collaborare con chiunque, in ambito universitario come in quello professionale.
«I guerrieri-viaggiatori non si lamentano» proseguì. «Accettano come una sfida qualunque cosa l’infinito gli offra. Una sfida è una sfida. Non è una questione personale. Non può essere presa come una maledizione o una fortuna. Un guerriero-viaggiatore o vince la sfida o è distrutto da essa. E vincere è più eccitante, quindi vinci!»
Ribattei che dirlo era facile, ma che metterlo in pratica era tutt’altra faccenda; e che i miei patimenti erano insuperabili perché nascevano dalla mancanza di coerenza dei miei simili.
«In difetto non sono quelli che ti circondano» replicò lui. «Loro non possono evitare di essere quello che sono. Tu sei in difetto, perché invece di aiutare te stesso preferisci giudicare loro. Ma solo gli idioti giudicano. Giudicandoli, non farai altro che tirare fuori il loro lato peggiore. Siamo tutti prigionieri ed è questa prigionia a indurci ad agire con tanta meschinità. La tua sfida sta nel prendere gli altri così come sono. Lasciali in pace.»
«Questa volta ti sbagli, don Juan» protestai. «Credimi, non ho alcun interesse a giudicarli né ad avere a che fare con loro.»
«Sai benissimo cosa voglio dire» insistette lui. «Se non sei consapevole del tuo desiderio di giudicarli, allora sei in una situazione perfino peggiore di quanto credessi. È questo l’ostacolo che incontrano i guerrieri-viaggiatori quando cominciano a ricapitolare il loro viaggio. Si fanno arroganti, incontrollabili.»
Finii col riconoscere che le mie lamentele erano davvero meschine. Gli dissi che ogni giorno dovevo vedermela con avvenimenti che avevano la nefasta capacità di fiaccare la mia determinazione, e che mi imbarazzava la prospettiva di raccontargli gli episodi che mi opprimevano.
«Coraggio» mi sollecitò don Juan. «Spara! Non avere segreti con me. Io sono un recipiente vuoto. Qualunque cosa tu mi dica verrà proiettata nell’infinito.»
«Le mie non sono che miserabili lamentele» cominciai. «Non sono diverso da tutte le persone che conosco. È impossibile parlare con qualcuno senza ritrovarsi ad ascoltare lamentele più o meno celate.»
Gli spiegai come, anche nelle conversazioni più semplici, i miei amici riuscissero a infilare un numero infinito di lamentele. Volli fargli un esempio.
«Come va, Jim?»
«Oh, bene, bene Cal.» Seguiva un lungo silenzio, che mi sentivo obbligato a rompere con un: «Qualcosa non va, Jim?»
«No! Va tutto benissimo. Ho qualche problema con Mel, sai com’è Mel egoista e stronzo. Ma bisogna prendere gli amici così come sono, giusto? Certo, lui potrebbe avere un po’ più di rispetto. Ma che cazzo. È fatto così. Ti scarica sempre tutto il peso addosso devi prenderlo com’è, oppure niente. Lo fa da quando avevamo dodici anni, quindi si può dire che la colpa sia mia. Perché cavolo lo sopporto?»
«Be’, hai ragione, Jim. Mel è difficile da sopportare, proprio così.»
«Diavolo, parlando di stronzi tu non sei molto meglio di lui, C al. Non posso mai contare su di te» e così via.
Un altro dialogo tipico era:
«Come te la passi, Alex? Come va la vita da sposato?»
«Ah, una meraviglia. Per la prima volta mangio agli orari giusti, cibi cucinati in casa, ma sto ingrassando. Non ho altro da fare che guardare la Tv. Un tempo uscivo con voi ragazzi, ma ora non posso. Theresa non me lo permette. Naturalmente potrei dirle di andare a farsi fottere, ma non voglio ferirla. Insomma, sono soddisfatto ma infelice.»
E prima di sposarsi Alex era stato l’uomo più infelice del mondo. La sua battuta tipica agli amici era: «Ehi, accompagnami alla macchina, voglio presentarti la mia cagna».
Lo divertiva moltissimo vedere le nostre espressioni deluse quando in macchina trovavamo un cane di sesso femminile. Presentava la sua «cagna» a tutti gli amici e per me fu un autentico choc quando sposò Theresa, una maratoneta. Si conobbero appunto a una maratona nel corso della quale Alex svenne. Correvano in montagna e Theresa, che voleva rianimarlo a ogni costo, gli pisciò in faccia. Da quel momento, Alex fu il suo schiavo. Lei aveva marcato il suo territorio. Gli amici cominciarono a chiamarlo «il suo piscioso prigioniero». E lei sì, la giudicavano una vera cagna, quella che aveva trasformato lo strano Alex in una grassa nullità.
Risi per qualche istante con don Juan, che poi tornò a farsi serio.
«Questi sono gli alti e bassi del vivere quotidiano» disse. «Si vince e si perde, impossibile sapere quando si vincerà o quando si perderà. Questo è il prezzo che si paga per poter vivere secondo le regole dell’autoriferimento. Non c’è nulla che io possa dirti, e non c’è nulla che tu possa dire a te stesso. Posso solo consigliarti di non sentirti in colpa per essere un imbecille, ma di impegnarti per mettere fine al dominio dell’autoriferimento. Torna all’università. Non è ancora il momento di rinunciare.»
Ma il mio desiderio di restare nel mondo accademico diminuiva a vista d’occhio. Cominciai a vivere come se avessi innestato il pilota automatico. Mi sentivo appesantito, depresso, ma era una condizione che non coinvolgeva la mente. Non calcolavo nulla, non avevo obiettivi né aspettative di alcun genere. Anche se i miei pensieri non erano ossessivi, lo erano le mie emozioni. Mi sforzavo di concettualizzare questa dicotomia tra una mente tranquilla ed emozioni turbolente. Fu in questo stato di vuoto mentale e sovraccarico di sensazioni che un giorno lasciai Haines Hall, dove si trova la facoltà di antropologia, per andare a pranzare al self-service.
Improvvisamente mi invase uno strano tremore. Temendo di svenire, mi misi a sedere su alcuni gradini di mattoni. Puntini gialli mi ballavano davanti agli occhi. Avevo l’impressione di stare roteando ed ero certo che mi sarebbe venuta la nausea. La vista mi si oscurò, finché non vidi più nulla. ll mio disagio fisico era così intenso e totale da non lasciare spazio neppure a un solo pensiero. Avevo solo sensazioni fisiche: paura e ansia miste a euforia e la strana certezza di trovarmi sulla soglia di un evento di enorme portata. Erano sensazioni prive di una controparte di pensiero. A un certo momento non seppi neppure più se ero in piedi o seduto. Ero circondato da un’oscurità impenetrabile. Poi vidi l’energia così come fluiva nell’universo.
Vidi una successione di sfere luminose che avanzava verso di me, o forse si allontanavano. Le vidi una alla volta, così come don Juan mi aveva sempre detto che si vedono. Sapevo che ciascuna di esse corrispondeva a individui diversi, a causa della differenza di dimensioni. Studiai le loro strutture nei particolari: luminosità e forma tondeggiate erano date da fibre, a volte più sottili e a volte più spesse, che sembravano incollate insieme. Quei fitti grovigli davano alle sfere l’aspetto di bizzarri animali luminosi coperti di pelo o di enormi insetti rotondi ricoperti di una peluria luccicante.
Ma a sconvolgermi fu soprattutto il rendermi conto che quegli insetti pelosi li vedevo da sempre. Tutte le occasioni in cui don Juan aveva deliberatamente fatto sì che io li vedessi, mi sembravano essere come un lungo giro che avevo fatto con lui. Ricordai tutte le volte in cui il suo aiuto mi aveva consentito di vedere gli uomini come sfere luminose e fu come se sbiadissero davanti al campo visivo a cui ora avevo accesso. Compresi allora con assoluta certezza che avevo percepito l’energia così come fluisce nell’universo, da solo, senza l'aiuto di nessuno.
Era una presa di coscienza troppo grande. Mi sentii fragile, infinitamente vulnerabile. Avevo bisogno di un rifugio, di nascondermi da qualche parte. Era esattamente come nel sogno che a quasi tutti capita di fare prima o poi, in cui siamo nudi e non sappiamo cosa fare. Io mi sentivo più che nudo; mi sentivo debole, privo di protezione e temevo il ritorno al mio stato di sempre. Intuivo vagamente di essere sdraiato e mi preparai al ritorno alla normalità. Pensavo che mi sarei ritrovato sdraiato sul viottolo di mattoni, in preda alle convulsioni e circondato da un capannello di spettatori.
La sensazione di essere sdraiato si fece via via più marcata. A un certo punto mi resi conto che potevo muovere gli occhi. La luce filtrava attraverso le mie palpebre abbassate, ma ancora non avevo il coraggio di sollevarle. La cosa più sconcertante era che non sentivo neppure un mormorio delle persone che immaginavo intorno a me. Anzi, non sentivo il minimo suono. Finalmente mi azzardai ad aprire gli occhi. Ero a letto, nel mio studio, all’angolo tra Wìlshire e Westwood Boulevard.
La scoperta mi precipitò nell’isteria, ma misteriosamente mi calmai quasi subito. L’attacco isterico lasciò il posto all'indifferenza fisica o forse a uno stato di appagamento corporeo, qualcosa di simile a quello che ci coglie dopo un buon pasto. Comunque fosse, la mia mente era in subbuglio. Era stato uno choc immenso rendermi conto che, per tutta la vita, avevo percepito direttamente l’energia. Come fosse stato possibile, lo ignoravo. Che cosa mi aveva impedito di accedere a quell’aspetto del mio essere? Secondo don Juan, tutti gli uomini sono potenzialmente in grado di vedere direttamente l’energia. Ciò che non aveva detto è che tutti gli esseri umani la vedono già, ma senza saperlo.
Lo chiesi a un mio amico psichiatra, che tuttavia, non fu in grado di far luce sulla questione. Era convinto che la mia reazione fosse da attribuirsi alla stanchezza e a un eccesso di stimoli. Mi prescrisse del Valium e mi consigliò di riposare.
Non avevo trovato il coraggio di dire a nessuno che mi ero svegliato nel mio letto senza sapere come ci fossi arrivato. La mia ansia di rivedere don Juan era quindi più che giustificata. Appena potei, mi recai in aereo a Città del Messico e, da lì, raggiunsi la sua casa con un’auto a noleggio.
«Hai già fatto tutto questo!» rise don Juan, quando gli raccontai la mia stupefacente esperienza. «Le novità sono soltanto due. La prima è che questa volta sei arrivato a percepire l’energia con le tue sole forze. Ciò che hai fatto è stato fermare il mondo e, a quel punto, hai capito d'aver sempre visto l’energia così come fluisce nell’universo e così come la vede ogni essere umano, ma senza saperlo consapevolmente. L’altra novità è che, sempre da solo, sei uscito dal tuo silenzio interiore. Non ho bisogno di dirti che tutto diventa possibile quando ci si distacca dal silenzio interiore. Questa volta, la tua paura e la tua vulnerabilità ti hanno permesso di raggiungere il tuo letto, che di fatto non dista poi molto dal campus dell’UCLA. Se non ti crogiolassi nello sbalordimento, capiresti che ciò che hai fatto non è nulla, nulla di straordinario per un guerriero-viaggiatore. La cosa importante non è sapere che hai sempre percepito direttamente l’energia, né il distacco dal tuo silenzio interiore, bensì una questione che presenta un duplice aspetto. Primo, hai sperimentato quello che gli sciamani dell'antico Messico chiamavano la visione nitida o perdita della forma umana: il momento in cui ogni meschinità umana svanisce, come un banco di nebbia che incombe su di noi e lentamente va dissipandosi. Ma in nessun caso devi credere che si tratti di un fatto compiuto. ll mondo degli sciamani non è immutabile come quello quotidiano, dove ti viene detto che, una volta raggiunto l’obiettivo, si resta vincitori per sempre. Nel mondo degli sciamani, raggiungere un determinato obiettivo significa soltanto avere acquisito strumenti più efficaci per continuare la battaglia che, di fatto, non finisce mai. U altro aspetto è che ti sei trovato di fronte all’interrogativo più inquietante per il cuore dell’uomo. L'hai espresso quando ti sei posto queste domande: “Com’è possibile che io non sapessi di aver percepito l’energia direttamente per tutta la vita? Cosa mi aveva impedito di accedere a questo aspetto del mio essere?”»
Ombre di fango
Sedere in silenzio con don Juan era una delle esperienze più gradevoli che conoscessi. Ce ne stavamo comodamente seduti nel retro della sua casa, su certe sedie imbottite, tra le montagne del Messico centrale. Era il tardo pomeriggio e soffiava una piacevole brezza. Il sole calava dietro la casa alle nostre spalle e la luce morente creava squisite sfumature di verde tra i grandi alberi del cortile posteriore. Gli alberi che crescevano tutt'intorno alla casa e al di là di essa nascondevano la città. Quella distesa verde mi dava sempre l’impressione di trovarmi in mezzo alla natura selvaggia, diversa da quella del brullo deserto di Sonora, ma nondimeno selvaggia.
«Oggi discuteremo un aspetto importantissimo dell’arte magica» annunciò bruscamente don Juan. «Incominceremo parlando del corpo energetico.»
Mi aveva descritto il corpo energetico un’infinità di volte; si trattava di un conglomerato di campi di energia, lo specchio del conglomerato dei campi di energia che costituisce il corpo fisico quando è visto come energia che fluisce nell’universo. Aveva detto che era più piccolo, più compatto e in apparenza più pesante della sfera luminosa del corpo fisico. Mi aveva inoltre spiegato che il corpo e il corpo energetico erano due conglomerati di campi energetici tenuti insieme da qualche sconosciuta forza aggregante. Più volte aveva sottolineato come tale forza fosse, secondo gli sciamani dell'antico Messico, la più misteriosa dell’universo. Don Juan riteneva che si trattasse della pura essenza del cosmo, la somma totale di tutto ciò che esso contiene.
Il corpo fisico e il corpo energetico erano, nell’ambito degli esseri umani, le sole configurazioni di energia che facessero l’una da controparte all’altra. Don Juan non accettava alcun dualismo al di fuori di questo. Quanto al dualismo tra corpo e mente, tra carne e spirito, lo giudicava una semplice congettura della mente, emanata da essa e senza nessun fondamento energetico.
Attraverso la disciplina, aveva asserito don Juan, tutti hanno la possibilità di avvicinare il corpo energetico a quello fisico. Normalmente, fra i due si frappone una distanza enorme. Tuttavia, una volta che il corpo energetico rientra in un certo raggio d’azione, che varia da individuo a individuo, tramite la disciplina chiunque può forgiarlo nell’esatta replica del suo corpo fisico; vale a dire, un essere solido, tridimensionale. Da qui, deriva l’idea dell’altro o doppio, sviluppata dagli sciamani. Per lo stesso motivo, e attraverso le stesse pratiche, chiunque può trasformare il proprio corpo fisico, solido e tridimensionale, in una replica perfetta del corpo energetico vale a dire, una carica eterica di energia, invisibile all’occhio umano come ogni forma di energia.
Quando mi disse questo, la mia reazione era stata di chiedergli se stesse illustrando dei concetti mitologici. Mi aveva risposto che non c’era nulla di leggendario nella pratica magica. Gli sciamani erano esseri pratici e le questioni che affrontavano erano sempre concrete. Secondo don Juan, la difficoltà a comprendere quello che gli sciamani facevano nasceva dal fatto che essi partivano da un sistema cognitivo diverso.
Quel giorno, seduti nel retro della sua casa nel Messico centrale, don Juan disse che il corpo energetico aveva un’importanza cruciale in qualsiasi evento della mia vita. Lin vedeva come una realtà energetica il fatto che il mio corpo energetico, invece che allontanarsi da me, come abitualmente avviene, si stesse avvicinando a grande velocità.
«In che senso, si sta avvicinando?» volli sapere io.
«Nel senso che stai per prenderti una bella batosta» replicò lui con una risatina. «Un altissimo grado di controllo sta per entrare nella tua vita e non sarai tu a esercitarlo, bensì il tuo corpo energetico.»
«Vale a dire che interverrà a controllarmi una forza esterna?»
«In questo momento ci sono infinite forze esterne che ti controllano» mi rispose.
«Il controllo a cui mi riferisco è qualcosa che esula dal dominio del linguaggio. È tuo e, al tempo stesso, non lo è. Non può essere classificato, ma è certo che può essere sperimentato.
Soprattutto, può essere manipolato. Ricorda: può essere manipolato a tuo vantaggio, che, naturalmente, non è esattamente il tuo, ma quello del tuo corpo energetico. In ogni caso è altrettanto vero che tu sei il corpo energetico ... Per descrivere questo processo possiamo in tutta tranquillità ricorrere all’immagine del gatto che si morde la coda. Ma il linguaggio è inadeguato; tutte queste esperienze sono al di là della sintassi.»
Il buio era sceso in fretta e il verde brillante delle chiome degli alberi ora appariva denso e scuro. Don Juan disse che se avessi prestato attenzione all’oscurità del fogliame senza guardala direttamente, ma piuttosto sbirciandola con la coda dell’occhio, avrei visto un’ombra attraverso il mio campo visivo.
«Questa è l’ora giusta del giorno per fare ciò che sto per chiederti» continuò. «Ti ci vorrà solo un momento per impegnare l’attenzione necessaria. Non smettere finché non avrai visto l’ombra scura.»
E così fu: vidi una strana ombra scura proiettata sulle chiome degli alberi. Forse era un’ombra sola che si muoveva avanti e indietro, oppure erano più ombre che si spostavano da sinistra a destra e da destra a sinistra, o ancora verso l'alto. Assomigliavano a giganteschi pesci neri. Era come se un enorme pesce spada stesse volando nell’aria. Quello spettacolo finì per spaventarmi.
Diventò troppo buio per vedere le foglie, ma riuscivo ancora a distinguere le fluttuanti ombre scure.
«Cosa succede, don Juan?» chiesi in ultimo. «Vedevo ombre scure dappertutto.»
«Ah, non è altro che l’universo. Incommensurabile, non lineare, esterno al dominio della sintassi. Gli sciamani dell'antico Messico furono i primi a scorgere quelle ombre e decisero di occuparsene. Le videro come le vedi tu adesso e le videro come energia che fluisce nell’universo. E scoprirono qualcosa di trascendentale.»
Tacque e mi guardò. Le sue pause avevano un tempismo perfetto. Si interrompeva sempre lasciandomi appeso a un filo.
«Che cosa scoprirono, don Juan?» lo sollecitai.
«Scoprirono che abbiamo un compagno che resta con noi per tutta la vita» rispose. «Un predatore che emerge dalle profondità del cosmo e assume 0 dominio della nostra vita. Gli uomini sono suoi prigionieri. Il predatore è nostro signore e maestro e ci ha resi docili, impotenti. Se vogliamo protestare, soffoca le nostre proteste. Se tentiamo di agire in modo indipendente, non ce lo permette.»
L’oscurità ci circondava. Se fosse successo alla luce del giorno, avrei riso fino alle lacrime delle sue parole. Ma al buio, non ne ebbi il coraggio.
«È buio pesto qui», osservò don Juan, «ma se guardi con la coda dell’occhio, vedrai le ombre che ci saltellano intorno.»
Aveva ragione. Riuscivo ancora a vederle. Il loro continuo movimento mi faceva girare la testa, ma quando don Juan accese la luce, ogni cosa mutò.
«Sei arrivato, e con le tue sole forze, a ciò che per gli sciamani dell'antico Messico era la questione suprema» riprese lui. «Per tutto questo tempo non ho fatto che menare il can per l’aia, insinuando in te l’idea di un qualcosa che ci tiene prigionieri. Ed è davvero così! Questo, per gli sciamani dell'antico Messico, era un fatto energetico.»
«Perché questo predatore ci avrebbe sottomessi nel modo che stai descrivendo, don Juan? Dev'esserci una spiegazione logica.»
«Una spiegazione c’è ed è la più semplice che si possa immaginare. I predatori hanno preso il sopravvento perché siamo il loro cibo, la loro fonte di sostentamento. Ecco perché ci spremono senza pietà. Proprio come noi alleviamo i polli nelle stie, i “gallineros”, i predatori ci allevano in stie umane, gli “humaneros”, garantendosi così un’infinita riserva di nutrimento.»
Mi accorsi che stavo scuotendo violentemente la testa da un lato all’altro. Tutto il mio corpo esprimeva il mio disagio e il mio sgomento ed ero incapace di arrestare il tremito che mi squassava.
«No, no, no>> mi sentii dire. «È assurdo, don Juan! Ciò che stai dicendo è mostruoso. Non può essere vero, né per gli sciamani né per l’uomo medio; per nessuno.»
«Perché?» chiese lui, perfettamente calmo. «Perché? Solo perché l’idea ti fa infuriare?»
«Mi fa infuriare, sì» ribattei. «Queste affermazioni sono mostruose.>>
«Ebbene, non è tutto. Aspetta un altro po’ e, ti assicuro, ti sentirai perfino peggio. Ho intenzione di sottoporti a un autentico bombardamento. Sottoporrò la tua mente a una serie di assalti violentissimi e tu non potrai alzarti e andartene perché sei in trappola. Non perché io ti tengo prigioniero, ma perché la tua stessa volontà ti impedirà di andartene, mentre un’altra parte di te raggiungerà il colmo della furia. Preparati, quindi!»
C’era un aspetto di me, lo sentivo, che anelava alla punizione. Don Juan aveva ragione; nessuna forza al mondo mi avrebbe allontanato dalla sua casa. Ma, al tempo stesso, trovavo orribili le assurdità che mi propinava.
«Voglio fare appello alla tua mente analitica» riprese lui. «Rifletti per un momento e dimmi come spiegheresti la contraddizione esistente tra l’intelligenza dell’uomo che costruisce, organizza e la stupidità del suo sistema di credenze, oppure la stupidità del suo comportamento contraddittorio. Secondo gli sciamani, sono stati i predatori a instillarci questi sistemi di credenza, il concetto di bene e di male, le consuetudini sociali. Sono stati loro a definire le nostre speranze e aspettative, nonché i sogni di successo e i parametri del fallimento. Ci hanno dato avidità, desiderio smodato e codardia. Ci hanno resi abitudinari, centrati nell’ego e inclini all’autocompiacimento .»
«Ma come ci riescono, don Juan? » chiesi, sempre più irritato. «Ci sussurrano queste cose all’orecchio mentre dormiamo?»
Sorrise. «Certamente no. Sarebbe idiota! Sono infinitamente più efficienti e organizzati. Per mantenerci obbedienti, deboli e mansueti, i predatori si sono impegnati in un’operazione stupenda, naturalmente, dal punto di vista dello stratega. Orrenda, nell'ottica di chi la subisce. Ci hanno dato la loro mente! Mi ascolti? I predatori ci hanno dato la loro mente, che è diventata la nostra. La mente dei predatori è barocca, contraddittoria, tetra, ossessionata dal timore di essere smascherata. Benché tu non abbia mai sofferto la fame, sei ugualmente vittima dell’ansia da cibo e la tua altro non è che l'ansia del predatore, sempre timoroso che il suo stratagemma venga scoperto e il nutrimento gli sia negato. Tramite la mente che, dopotutto, è la loro, i predatori instillano nella vita degli uomini ciò che più gli conviene, garantendosi un certo livello di sicurezza che va a mitigare la loro paura.»
«Non voglio dire che non sono in grado di accettare quanto mi dici>> obiettai a quel punto. «Farse potrei, ma è talmente orribile da ispirarmi un’autentica ripugnanza e mi costringe a un atteggiamento ambivalente. Se è vero che si nutrono di noi, come fanno?»
Don Juan sorrideva, palesemente molto soddisfatto di sé. Mi spiegò che gli sciamani vedono i neonati come sfere di energia luminosa, interamente coperte da una patina lucente, una specie di pellicola di plastica che aderisce strettamente al bozzolo di energia. È di questa patina luminosa di consapevolezza che si alimentano i predatori, e quando un essere umano raggiunge l’età adulta, tutto ciò che di essa resta è un bordo sottile che va dalla cima della testa alla punta dei piedi. Proprio l’esilità di tale bordo consente al genere umano di continuare a vivere, benché faticosamente.
Come in sogno, lo sentii spiegare che, per quanto sapeva, l’uomo è l’unico essere vivente dotato della patina luminosa di consapevolezza. Di conseguenza, è una facile preda per una consapevolezza di ordine diverso, come quella del predatore.
Fece poi l’affermazione più sconvolgente che avesse mai fatto. Disse che quel sottile bordo di consapevolezza è l’epicentro dell’egocentrismo in cui l’uomo è irrimediabilmente intrappolato. Facendo leva proprio sul nostro egocentrismo, l’unico aspetto consapevole rimastoci, i predatori creano fiammate di consapevolezza che poi procedono spietatamente a consumare. Ci danno problemi futili per forzare tali fiammate a emergere e, in questo modo, ci fanno sopravvivere per continuare a nutrirsi della fiammeggiante energia delle nostre pseudo-preoccupazioni.
Le sue parole mi turbarono a tal punto che mi venne la nausea.
Dopo una breve pausa per riprendermi, gli chiesi: «Ma se gli sciamani dell'antico Messico e quelli attuali vedono i predatori perché non fanno nulla?»
«Non c’è nulla che tu o io possiamo fare» mi rispose con voce triste, grave «se non esercitare l'autodisciplina fino a renderei inaccessibili. Ma pensi forse di poter convincere i tuoi simili ad affrontare tali rigori? Si metterebbero a ridere e si farebbero beffe di te, e i più aggressivi ti picchierebbero a morte. Non perché non ti credano. Nel profondo di ogni essere umano c’è una consapevolezza ancestrale, viscerale, dell’esistenza dei predatori.»
La mia mente analitica si comportava come uno yo-yo. Mi abbandonava, tornava, poi mi lasciava per tornare ancora. Il quadro che don Juan andava delineando era incredibile, grottesco, e al tempo stesso estremamente ragionevole e semplicissimo. Spiegava ogni possibile contraddizione. Ma come facevo a prenderlo sul serio? Don Juan mi stava spingendo sul percorso di una valanga che mi avrebbe travolto.
Sperimentai un’altra acuta sensazione di minaccia, una sensazione che non scaturiva da me, anche se mi apparteneva. Don Juan mi stava facendo qualcosa, qualcosa di misteriosamente positivo e terribilmente negativo al tempo stesso. Lo percepivo come un tentativo di tagliare una sottilissima pellicola che mi stava incollata addosso. Per qualche istante guardò nei miei occhi con uno sguardo fisso e imperturbabile. Poi lo distolse e riprese a parlare.
«Ogniqualvolta i dubbi ti tormenteranno fino a un punto pericoloso» disse, «reagisci facendo qualcosa di pratico. Spegni la luce. Penetra l’oscurità; scopri ciò che puoi vedere.»
Si alzò per spegnere la luce, ma io lo fermai. «No, no, don Juan» lo supplicai. «Non spegnerla.»
Avevo paura del buio, cosa insolita per me. TI solo pensiero dell’oscurità era sufficiente a togliermi il fiato. C’era qualcosa che sapevo a livello viscerale, ma che non osavo sfiorare, né portare in superficie. Non ne avrei mai avuto il coraggio!
«Hai visto le ombre stagliarsi contro gli alberi» disse ancora don Juan. «E questa è un’ottima cosa. Adesso vorrei che tu le vedessi all’interno di questa stanza. Di fatto non stai realmente vedendo nulla; stai semplicemente cogliendo immagini fugaci. Ma hai energia sufficiente per riuscirei.»
Temevo che avrebbe finito ugualmente per alzarsi e spegnere la luce e così fu. Due secondi dopo, urlavo a perdifiato. Non solo vedevo le ombre fluttuanti, ma le sentivo addirittura ronzarmi vicino alle orecchie. Don Juan rideva da tenersi la pancia quando riaccese la luce.
«Che uomo ipersensibile» commentò. «Totalmente scettico da una parte e totalmente pragmatico dall’altra. Devi trovare una soluzione a questo dissidio interiore, se non vuoi gonfiarti come un rospo e scoppiare.»
Poi continuò: «Gli antichi sciamani vedevano il predatore. Lo chiamavano quello che vola, perché si muove a balzi nell’aria. Non è un bello spettacolo. È un’ombra nera di un’oscurità impenetrabile, che salta nell’aria. E poi atterra. Gli sciamani dell'antico Messico non amavano pensare al momento in cui fece la sua comparsa sulla Terra. Credevano che ci fosse stato un tempo in cui l’uomo era un essere completo, con una mirabile vista interiore e una consapevolezza che oggi sembrano leggende mitiche. Poi tutto questo finì e l’uomo è ora un essere indebolito».
Avrei voluto arrabbiarmi e chiamarlo paranoico, ma sentivo che sarebbe stata una reazione non del tutto sincera. Qualcosa in me aveva già superato la fase in cui mi ponevo la mia domanda preferita: e se tutto ciò che dice fosse vero? Quella notte, mentre don Juan mi parlava, sentivo nel profondo del mio essere che quanto diceva corrispondeva a verità, ma nello stesso tempo e con uguale intensità, le giudicavo vere e proprie assurdità.
«Che cosa vuoi dire, don Juan?» domandai con voce flebile. Avevo la gola serrata e faticavo a respirare.
«Voglio dire che ciò che abbiamo di fronte non è un predatore qualunque. È intelligente e organizzato. Segue metodicamente un programma destinato a renderci del tutto impotenti. L’uomo, l’essere che era destinato a essere magico, non lo è più. Si è ridotto a un banale pezzo di carne. Non ci sono più sogni degni dell’uomo, ma ci sono solo i sogni di un pezzo di carne: triti, convenzionali, stupidi.»
Le sue parole stavano suscitando in me una reazione fisica strana, in qualche modo paragonabile alla nausea. Era una nausea che scaturiva dal profondo del mio essere, dal midollo stesso delle ossa. Quando uno spasimo mi attraversò, don Juan mi scosse forte tenendomi per le spalle. Il mio collo si piegò avanti e indietro tanto energica era la sua stretta, ma questa manovra mi calmò all’istante e sentii di aver riacquistato un po’ di controllo.
«Questo predatore» seguitò allora lui, «che è naturalmente un essere inorganico, non è invisibile ai nostri occhi come lo sono altri esseri inorganici. Proprio come fanno i bambini, noi lo vediamo ma poiché ci appare troppo orribile preferiamo non pensarci. Ovviamente, i bambini potrebbero perseverare nel concentrarsi su quanto vedono, ma tutti gli altri cercano di dissuaderli.
«L’unica alternativa possibile per l’umanità è la disciplina. La disciplina è il solo deterrente. Ma parlando di disciplina non mi riferisco a uno stile di vita spartano: alzarsi ogni mattina alle cinque e mezzo e bagnarsi nell’acqua fredda fino a diventare blu. Gli sciamani interpretano la disciplina come la capacità di affrontare in modo sereno eventualità che esulano dalle nostre aspettative. Per loro, la disciplina è un’arte: l’arte di affrontare l’infinito senza vacillare, e non perché siano forti e duri, ma perché sono animati da timore reverenziale. »
«E in che modo la disciplina degli sciamani costituisce un deterrente?» domandai.
«La disciplina rende la patina luminosa di consapevolezza sgradevole al gusto di quello che vola» mi rispose guardandomi attentamente, come per cercare qualche segno di incredulità. «D risultato è che il predatore rimane sconcertato, confuso. Suppongo perché una patina luminosa di consapevolezza non commestibile non fa parte del suo bagaglio conoscitivo. E così, ingannato e smarrito, non ha altra alternativa che sospendere la sua opera nefasta.
Se la nostra patina luminosa di consapevolezza rimane intatta per qualche tempo, ha la possibilità di crescere. Semplificando all’estremo, si può dire che, mediante la disciplina, gli stregoni tengono a bada i predatori quanto basta per permettere alla loro patina luminosa di consapevolezza di superare il livello delle dita dei piedi. Da quel momento, essa riacquista la sua dimensione originaria. Gli sciamani dell'antico Messico dicevano che la patina luminosa di consapevolezza è come un albero: se non viene potata, cresce fino a riacquistare volume e dimensioni naturali. E quando la consapevolezza raggiunge livelli più elevati, anche operazioni che richiedono una percezione di enorme portata diventano naturali e scontate.
«D supremo stratagemma degli sciamani dei tempi antichi consistette nel caricare di disciplina la mente di quello che vola. Scoprirono che affaticando col silenzio interiore la mente di quello che vola, l’installazione estranea fugge, dimostrando così con assoluta certezza la sua origine aliena. Successivamente l’installazione estranea ritorna, ma non più così forte; ha quindi inizio un processo in cui la fuga della mente di quelli che volano diventa routine, fino a quando sparisce definitivamente. Quello è un giorno davvero triste perché si è costretti a contare solo sulle proprie forze, che sono quasi nulle. Non c’è nessuno a dirci che cosa fare. Nessuna mente estranea a imporci le assurdità a cui siamo abituati.
n mio maestro, il nagual Julian, era solito dire ai suoi discepoli che quello era il giorno più duro nella vita di uno sciamano perché, dopo una vita di assoggettamento, la mente che davvero ci appartiene, la summa delle nostre esperienze, è diventata pavida, insicura e mutevole. Personalmente, non esito a dire che la vera battaglia degli sciamani comincia in quel momento. n resto è soltanto preparazione.»
Io ero sempre più inquieto. Avrei voluto saperne di più ma una parte di me si ritraeva. Era una parte che si confrontava con risultati e punizioni oscure, quasi temessi l’ira divina per aver cercato di vedere qualcosa che Dio stesso aveva occultato. Dovetti fare uno sforzo per permettere alla mia curiosità di prendere il sopravvento.
«Ma cosa... cosa intendi dire, parlando di affaticare la mente di quelli che volano»
«La disciplina strema in modo incommensurabile la mente aliena» mi rispose don Juan. «Ed è appunto attraverso la disciplina che gli sciamani sconfiggono l’installazione estranea.>>
Io ero sopraffatto. Non c’erano alternative: o don Juan era completamente pazzo, oppure mi stava dicendo qualcosa di così tremendo da raggelarmi fin nel profondo. Notai, tuttavia, la rapidità con cui mi precipitai a negare tutto quanto.
Dopo un primo momento di panico, cominciai a ridere come se avessi appena ascoltato una barzelletta e mi sentii addirittura dire: «Don Juan, don Juan... sei incorreggibile!»
Dal canto suo, lui sembrava perfettamente consapevole del mio stato d’animo. Scosse la testa e alzò gli occhi al cielo, in una scherzosa pantomima della disperazione.
«Lo sono al punto» disse, «che non esito a dare un’altra scrollata alla mente di quello che vola che ti porti dentro. Voglio rivelarti uno dei segreti più straordinari dell’arte magica, renderti partecipe di una scoperta che gli sciamani hanno impiegato migliaia di anni a verificare e consolidare.»
Mi rivolse un sorriso malizioso. «La mente di quello che vola fugge per sempre, quando uno sciamano riesce ad afferrarsi alla forza vibratoria che ci tiene insieme come un conglomerato di campi di energia. Se riesce a mantenere la presa abbastanza a lungo, la mente di quello che vola è sconfitta, e fugge. E questo è esattamente quello che farai: aggrapparti all’energia che ti tiene insieme.»
La mia reazione fu la meno prevedibile. Qualcosa dentro di me vibrò come se davvero qualcuno mi avesse scrollato con forza. Fui travolto da una sensazione di panico che immediatamente associai alla mia educazione religiosa.
Don Juan mi osservava in silenzio.
«È l’ira di Dio che temi, non è vero?» fece poi. «Stai tranquillo, la paura non è tua, ma di quello che vola, perché sa che tu farai esattamente ciò che ti sto dicendo.»
Ma le sue parole non mi calmarono affatto. Anzi, mi sentii perfino peggio, Mi attraversavano spasmi violenti, che non ero capace di dominare.
«Non preoccuparti» mi esortò ancora don Juan. «So per certo che questi attacchi si concludono in fretta. La mente di quello che vola non ha alcuna capacità di concentrazione.»
E così fu: dopo qualche istante mi calmai. Dire che ero sconcertato sarebbe un eufemismo. Quella era la prima volta in vita mia che, da solo o con don Juan, sperimentavo uno smarrimento così assoluto. Avrei voluto alzarmi e camminare, ma avevo troppa paura. Ero pieno di riflessioni razionali e contemporaneamente di un timore infantile. Cominciai a respirare profondamente mentre un sudore freddo mi copriva il corpo. Chissà come, avevo scatenato uno spettacolo terrificante: ombre scure e fluttuanti che mi saltellavano intorno; ovunque guardassi, erano lì.
Chiusi gli occhi e appoggiai la testa sul bracciolo della poltrona. «Non so che cosa fare, don Juan», confessai. «Stasera sei davvero riuscito a confondermi.»
«Sei lacerato da una lotta interna» mi spiegò lui. «Nel profondo sai di essere incapace di rifiutare l’ accordo in base al quale una parte indispensabile di te, la patina luminosa di consapevolezza, costituisce incomprensibilmente il nutrimento di entità altrettanto incomprensibili. Ma un’altra parte di te lo respinge con tutta la sua forza. U opera rivoluzionaria degli sciamani sta proprio nel loro rifiuto di onorare un accordo a cui non hanno partecipato. Nessuno mi ha mai chiesto se acconsentivo a darmi in pasto a esseri dotati di una diversa consapevolezza. Semplicemente, i miei genitori mi hanno messo al mondo perché fossi cibo, proprio come loro, e questo è quanto.»
Si alzò per stirarsi. «Siamo rimasti seduti per ore. È tempo di rientrare. Devo mangiare. Mangi con me?»
Rifiutai. Avevo lo stomaco in subbuglio.
«Credo che faresti bene a dormire» disse allora don Juan. «Il mio bombardamento ti ha letteralmente devastato.»
Non avevo bisogno di ulteriori sollecitazioni. Crollai sul letto e mi addormentai di colpo.
Di nuovo, a casa, l’idea di quelli che volano finì per diventare una vera e propria fissazione. Arrivai al punto di non dubitare più della giustezza delle osservazioni di don Juan. A dispetto di tutti i miei sforzi, non mi riusciva di screditarne la logica. Più ci pensavo, più osservavo e parlavo con me stesso e i miei compagni, più netta si faceva la convinzione che fosse qualcosa di esterno a renderei incapaci di ogni attività, interazione o pensiero che non fosse incentrato sul sé. La mia preoccupazione, così come quella di tutti coloro con cui entravo in contatto, era il sé. Impossibilitato a trovare una spiegazione per quella universale omogeneità, dovetti persuadermi che la linea di pensiero di don Juan fosse l’unica possibile.
Mi dedicai alla lettura di miti e leggende e così facendo arrivai a una nuova scoperta: nei libri che leggevo, tutti interpretazioni di miti e leggende, si avvertiva in modo quasi palpabile la presenza di un’unica mente. Gli stili differivano, ma la pulsione che stava dietro le parole era sempre la stessa: anche in una tematica astratta com’è quella del moto e della leggenda, gli autori riuscivano sempre a inserire osservazioni su loro stessi. La motivazione autentica di quelle opere non era l’argomento dichiarato, ma l’affermazione del sé. Non me ne ero mai reso conto prima.
Attribuii la mia reazione all’influenza di don Juan. A quel punto, l’inevitabile interrogativo era: è lui che condiziona le mie interpretazioni o c’è davvero una mente aliena che soprintende a ogni nostra azione? Ogni volta negavo questa possibilità, poi, follemente, passavo dal diniego all’accettazione e quindi di nuovo al diniego. I concetti espressi da don Juan erano un fatto energetico, ma una parte di me sapeva con certezza che erano tutte fandonie. Il risultato di questa lotta interiore fu un senso di oscuro presagio; la sensazione che qualcosa di pericoloso mi aspettava al varco.
Effettuai ricerche approfondite sulla presenza di quelli che volano in altre culture, ma non trovai nulla. Don Juan sembrava l’unica fonte di informazione al riguardo. Quando lo rividi, attaccai subito a parlare di quelli che volano.
«Mi sono sforzato di affrontare l’argomento in modo razionale» dissi, «ma non ci riesco. Ci sono momenti in cui concordo pienamente con te in merito ai predatori.»
«Focalizza la tua attenzione sulle ombre fugaci che vedi davvero» mi rispose lui con un sorriso.
Gli confessai che quelle ombre minacciavano di mettere fine alla mia vita razionale. Ormai le vedevo dappertutto. Da quando avevo lasciato casa sua, non riuscivo più a dormire al buio. Le luci non mi disturbavano affatto, mentre mi bastava spegnerle perché intorno a me tutto cominciasse a saltellare. Non vedevo mai forme o sagome intere, ma solo fluttuanti ombre scure.
«La mente di quelli che volano non ti ha lasciato» disse allora don Juan. «Anche se è stata gravemente danneggiata. Ora sta facendo il possibile per ristabilire il rapporto con te, ma dentro di te qualcosa è stato reciso per sempre. Quello che vola lo sa. Il pericolo è che la sua mente riesca a vincere stancandoti e costringendoti ad abbandonare la lotta, giocando sulla contraddizione fra quello che essa dice e quello che dico io.»
«Vedi, la mente di quello che vola non ha rivali» riprese. «Quando si propone qualcosa, non può che concordare con se stessa e indurti a credere di aver fatto qualcosa di meritevole. La mente di quello che vola ti dirà che qualsiasi cosa dica Juan Matus è solo un mucchio di sciocchezze e quindi essa stessa concorderà con la sua affermazione, “ma certo, sono sciocchezze” dirai tu. È così che ci sconfiggono.»
Avrei voluto che parlasse ancora, ma lui disse soltanto: «Il mio bombardamento si è concluso durante il nostro ultimo incontro; non c’è altro da dire sul conto di quelli che volano. È arrivato il momento di un altro genere di operazione».
Quella notte non riuscii a prendere sonno e mi addormentai solo nelle prime ore del mattino, poco prima che don Juan venisse a tirarmi giù dal letto per una passeggiata in montagna. Dove viveva la configurazione del terreno era molto diversa da quella del deserto di Sonora, ma lui mi esortò a non indulgere nei paragoni, sostenendo che dopo mezzo chilometro tutti i luoghi si assomigliano.
«Le gite turistiche sono per chi va in auto» disse.
«Procedono a grande velocità senza alcuno sforzo da parte loro. Le gite turistiche non sono per chi va a piedi. Vista da un'automobile, una montagna può schiacciarti con la sua bellezza. Ma la stessa montagna non ti farà lo stesso effetto se sei a piedi, ti schiaccerà in modo diverso, soprattutto se devi scalarla o aggirarla.»
Era una mattinata caldissima. Camminavamo sul letto di un fiume. Come il deserto del Sonora, la vallata brulicava di milioni di insetti. Mosche e moscerini mi circondavano da ogni parte, simili a bombardieri in picchiata sulle mie narici, occhi e orecchie. Don Juan mi invitò a concentrarmi sul loro ronzio.
«Non cercare di allontanarli con la mano» disse in tono deciso. «Scacciali con il tuo intento. Erigi una barriera di energia intorno a te. Scegli il silenzio e sarà il silenzio stesso a edificare la barriera. Nessuno sa come questo avvenga; è uno di quei fenomeni che gli antichi sciamani chiamavano fatti energetici. Interrompi il tuo dialogo interiore. Non c’è bisogno di altro.
«Voglio illustrarti un concetto insolito» riprese, sempre precedendomi di qualche passo.
Dovetti accelerare per stargli dietro e non perdere neppure una parola.
«Devo premettere che gli opporrai una strenua resistenza» disse. «Ti dico fin da adesso che non ti sarà facile accettarlo. Ma la sua stranezza non deve costituire un deterrente. Tu sei uno studioso della società, quindi la tua mente è aperta a ogni interrogativo. Non è così, forse?»
Si stava sfacciatamente prendendo gioco di me, ma pur essendone consapevole, non ne fui infastidito. Sarà stato perché camminava così velocemente e io dovevo fare uno sforzo enorme per stargli dietro, ma il suo sarcasmo mi scivolò addosso e, invece di rendermi petulante, mi fece ridere. Ero interamente concentrato sulle sue parole e gli insetti non mi tormentavano più, forse perché avevo eretto una barriera di energia intorno a me o forse perché ero talmente occupato ad ascoltare don Juan che non badavo più al loro insistente ronzio.
«ll concetto» seguitò lui lentamente, come per valutare l’effetto delle proprie parole, « è che ogni essere umano di questa terra sembra avere esattamente le stesse reazioni, gli stessi pensieri, gli stessi sentimenti. Insomma, rispondere più o meno nell’identico modo a stimoli identici. Stimoli per così dire offuscati dalle varie lingue, ma se eliminiamo questo ostacolo, scopriamo che ogni uomo sulla terra è assillato dagli stessi problemi. Mi piacerebbe che ti interessassi a questo fenomeno, ovviamente nella tua veste di studioso della società, per vedere se riesci a trovare una spiegazione a tale omogeneità.»
Quella mattina don Juan raccolse parecchie piante. Alcune erano difficilissime da individuare e sembravano più simili ad alghe o a muschio. Io gli tenevo aperta la borsa; non parlammo più. Quando fu soddisfatto, riprese la strada di casa a passo rapido. Disse che voleva pulirle e farne una cernita prima che si seccassero.
Io, intanto, riflettevo sull’incarico che mi aveva affidato. Mi sforzai di ricordare se avevo letto articoli o pubblicazioni al riguardo. Pensai che avrei dovuto svolgere qualche ricerca e decisi di cominciare esaminando tutto il materiale disponibile sul «carattere nazionale». Ben presto mi scoprii entusiasta della questione, e avrei voluto andare subito a casa per mettermi al lavoro, desideroso di dedicarmi al mio compito con il massimo impegno. Ma prima che arrivassimo a destinazione, don Juan si fermò per sedersi su un ripiano roccioso affacciato sulla vallata. Non disse nulla per qualche momento. Quella sosta mi sorprese, perché non sembrava minimamente affaticato.
«ll tuo compito di oggi» esordì in tono quasi minaccioso, «è uno degli aspetti più misteriosi dello sciamanesimo, qualcosa che prescinde il linguaggio, prescinde ogni spiegazione. Oggi abbiamo camminato, abbiamo parlato, perché il mistero dell’arte magica dev’essere assorbito nella vita terrena. Deve scaturire dal nulla e tornare al nulla. È questa l’arte del guerriero-viaggiatore: passare inosservato attraverso la cruna di un ago. Preparati quindi appoggiando la schiena a questa parete rocciosa, il più lontano possibile dalla sporgenza. Sarò al tuo fianco, nell'eventualità che tu svenga o precipiti.»
«Che cosa ti proponi di fare, don Juan?» chiesi, e il mio timore risuonò tanto evidente che d’istinto abbassai la voce.
«Voglio che tu incroci le gambe ed entri nel silenzio interiore» rispose lui. «Diciamo che voglio che tu scopra quali articoli cercare per screditare o confermare quanto ti ho chiesto di fare nel tuo ambito accademico. Entra nel silenzio interiore, ma non addormentarti. Questo non è un viaggio attraverso l’oscuro mare della consapevolezza; si tratta invece di vedere dal silenzio interiore.»
Era difficile per me entrare nel silenzio interiore senza scivolare nel sonno: il desiderio di dormire era quasi invincibile. Ma ci riuscii e mi ritrovai a guardare il fondo della vallata circondato da un’impenetrabile oscurità. Laggiù vidi qualcosa che mi raggelò nel profondo. Vidi un’ombra gigantesca, distante forse quattro metri e mezzo, che spiccava un balzo in aria e quindi atterrava con un tonfo sordo. Percepii quel tonfo fin nelle ossa, ma non furono le mie orecchie a udirlo.
«Sono molto pesanti» mi sussurrò don Juan all’orecchio. Con la mano stringeva con forza il mio braccio sinistro.
Vidi qualcosa che sembrava un’ombra fangosa dimenarsi per terra, poi spiccare un altro enorme salto di una quindicina di metri e di nuovo atterrare producendo lo stesso tonfo minaccioso. Lottai per non perdere la concentrazione, terrorizzato al punto da non poter esprimere in termini razionali il mio terrore. Tenni gli occhi fissi sull’ombra che si muoveva in fondo alla vallata e allora sentii un ronzio stranissimo, insolito, qualcosa tra uno sbattere di ali e il brusio di una radio non perfettamente sintonizzata. Mai avrei potuto dimenticare il tonfo che seguì a quel misterioso rumore. Io e don Juan fummo scossi fin nel profondo: un’enorme ombra di fango nero era appena atterrata ai nostri piedi.
«Non avere paura» fece don Juan in tono imperioso. «Mantieni il tuo silenzio interiore, e se ne andrà.»
Tremavo dalla testa ai piedi. Ero perfettamente consapevole che, se non avessi mantenuto il silenzio interiore, l’ombra sarebbe calata su di me come una coperta, soffocandomi. Senza perdere l’oscurità che mi circondava, urlai a perdifiato. Non mi ero mai sentito così furioso, così frustrato. L’ombra di fango spiccò un balzo verso il fondovalle. Io continuavo a urlare, scrollando freneticamente le gambe. Volevo scuotermi di dosso la cosa che forse si preparava a divorarmi. Ero talmente agitato che persi la cognizione del tempo. :Forse svenni.
Quando tornai in me, ero nel mio letto, a casa di don Juan. Sulla fronte avevo un asciugamano intriso d’acqua fredda e ardevo di febbre. Una delle discepole di don Juan mi frizionò con alcool la schiena, il petto e la fronte, ma senza che ne ricavassi alcun sollievo. Il calore proveniva da dentro di me e a generarlo erano la collera e l’impotenza.
Don Juan rideva come se trovasse tutto incredibilmente buffo. La sua ilarità sembrava non dover avere fine.
«Non immaginavo che ti saresti lasciato turbare tanto dalla vista di uno di quelli che volano» commentò.
Poi mi prese per mano e mi condusse sul retro e lì, completamente vestito, con addosso le scarpe e l’orologio, mi fece immergere in un’enorme vasca piena d’acqua.
«Il mio orologio!» gridai io.
Don Juan si torceva dalle risate. «Non dovresti portarlo quando vieni a trovarmi» disse. «Ora lo hai rovinato.»
Mi sfilai l’orologio e lo posai per terra vicino alla vasca.
Era impermeabile e sapevo che non era stato danneggiato in alcun modo. n bagno mi fece bene e quando don Juan mi tirò fuori, avevo riacquistato un certo controllo.
v
«E stato uno spettacolo sconvolgente!» continuavo a ripetere, incapace di smettere.
n predatore che don Juan mi aveva descritto non aveva nulla di benevolo. Era immensamente grande, osceno, indifferente. Avevo percepito con chiarezza il disprezzo che provava nei nostri confronti. Non c’era da dubitare che tanto tempo addietro quelli della sua specie ci avessero schiacciati, rendendoci, come don Juan aveva detto, deboli, vulnerabili e docili. Mi tolsi gli indumenti bagnati, infilai un poncho, poi mi sedetti e piansi fino a non poterne più. Ma non era per me stesso che piangevo. A difendermi dai predatori avevo la mia collera, il mio inflessibile intento. Piangevo per i miei simili e soprattutto per mio padre. Fino a quel momento non mi ero reso conto di quanto lo amassi.
«Non ha mai avuto una sola possibilità» mi sentii ripetere più volte, come se quelle parole non mi appartenessero. Il mio povero padre, la persona più premurosa che avessi mai conosciuto, così tenero, così gentile, così inerme.
INIZIANDO IL VIAGGIO FINALE
Il salto nell’abisso
C’era una sola pista che portava alla mesa. Una volta lì, mi accorsi che non era così ampia come mi era apparsa quando la guardavo da lontano. La vegetazione non era diversa da quella che cresceva ai piedi della montagna: legnosi cespugli di un verde smorto, con un’ambigua somiglianza con gli alberi.
Non vidi subito l’abisso; solo quando don Juan mi condusse, scoprii che la mesa terminava in un precipizio. La montagna, di forma tondeggiante, era profondamente erosa sui versanti est e sud; a nord e a ovest, invece, sembrava tagliata con un coltello. In piedi sull’orlo, vedevo il fondo del burrone, forse tremila metri più in basso. Era coperto dagli stessi cespugli che crescevano dappertutto lì intorno.
Facendo il giro della mesa, scoprii che si trattava in realtà della cima piatta di una montagna di discrete dimensioni. La fila di rilievi che si allungava a nord e a sud doveva essere stata parte di un canyon gigantesco e antichissimo, scavato da un fiume scomparso da tempo. L’erosione aveva profondamente intaccato i bordi del canyon, in certi punti spianandoli all’altezza del terreno. L’unica area intatta era quella su cui ci trovavamo noi.
«È roccia solida» osservò don Juan, come se avesse letto nei miei pensieri. Con il mento indicò il baratro. «Se qualcosa dovesse cadere laggiù, si fracasserebbe sulle rocce.»
Fu questo l’inizio della conversazione che avemmo quel giorno, sulla vetta della montagna. In precedenza, don Juan mi aveva spiegato che il suo tempo sulla Terra era giunto al termine. Era pronto per il viaggio supremo. Io ne ero rimasto sconvolto. Avevo perso ogni controllo sulla realtà per sprofondare in un misericordioso stato di frammentazione, simile forse a quello che segue un esaurimento nervoso. Ma un frammento centrale era intatto: me stesso bambino. Tutto il resto era incertezza, imprecisione. Ero rimasto in quello stato di frammentarietà così a lungo che tornarci rappresentò per me l’unica via di uscita.
Successivamente, si verificò una stranissima interazione tra livelli diversi della mia consapevolezza. Con don Juan, il suo discepolo don Genaro e i due apprendisti Pablito e Nestor, ci arrampicammo sulla cima della montagna. Pablito, Nestor e io eravamo lì per adempiere al nostro ultimo compito di apprendisti: saltare in un abisso; una faccenda quanto mai misteriosa che don Juan mi aveva illustrato su piani diversi di consapevolezza, ma che fino a quel giorno era rimasta un enigma per me.
Don Juan disse scherzando che avrei dovuto tirar fuori il mio taccuino e prendere appunti su quel nostro ultimo incontro. Mi diede una leggera gomitata alle costole e, soffocando una risata, mi assicurò che sarebbe stato del tutto adeguato, dato che proprio prendendo appunti avevo cominciato la via del guerriero-viaggiatore.
Don Genaro intervenne dicendo che prima di noi, altri guerrieri-viaggiatori erano saliti su quella montagna per affrontare il viaggio nell’ignoto. Don Juan si rivolse a me e a bassa voce disse che presto sarei entrato con le mie sole forze nell’infinito, e che lui e don Genaro erano lì solo per dirmi addio. Di nuovo don Genaro si intromise dicendo che io avrei dovuto fare lo stesso con loro.
«Una volta che sarai entrato nell’infinito» riprese don Juan, «non potrai contare su di noi per il tuo eventuale ritorno. Sarà necessaria una tua decisione. Solo tu potrai decidere se tornare o meno. Devo inoltre avvertirti che solo pochi guerrieri-viaggiatori sopravvivono a questo incontro con l’infinito. L'infinito esercita un’attrazione smisurata. Per un guerriero-viaggiatore, tornare nel mondo del disordine, della compulsione, del rumore e della sofferenza, è quanto mai sgradevole. Non devi pensare all'alternativa tra il tornare o il restare come a una scelta ragionevole, bensì come a una questione di intento.»
«Se sceglierai di non tornare» continuò, «scomparirai come inghiottito dalla terra. Se invece deciderai di tornare, dovrai aspettare come un vero guerriero-viaggiatore finché il tuo compito, qualunque esso sia, non si sarà concluso con una vittoria o una sconfitta.»
Un sottile cambiamento cominciò allora a verificarsi in me. Cominciai a ricordare volti di persone che tuttavia non ero affatto certo di aver effettivamente conosciuto. Nella mia mente si affollavano inspiegabili sensazioni di angoscia e moti d’affetto. Non sentivo più la voce di don Juan e anelavo a persone che dubitavo di aver mai incontrato. Improvvisamente fui pervaso da un amore quasi insostenibile per tutte loro, chiunque fossero. Ciò che provavo nei loro confronti era inesprimibile, e nondimeno continuavo a ignorare chi fossero. Ma percepivo la loro presenza, come se in passato avessi vissuto un’altra vita, o come se cercassi qualcuno in sogno. Mi accorsi che le loro forme esteriori mutavano: da grandi che erano, si fecero piccole. A restare intatta fu la loro essenza e proprio essa generava in me quel grande desiderio di loro.
Don Juan si avvicinò e mi disse: «L’accordo era che tu rimanessi nella consapevolezza del mondo quotidiano.» La sua voce era aspra, autoritaria. «Oggi adempirai a un compito di grande concretezza, l’ultimo anello di una lunga catena ed è indispensabile che lo faccia nella massima lucidità.»
Non era mai successo che mi parlasse in quel tono. Era diventato un altro uomo, ma non per questo meno familiare. Obbedii docilmente e tornai alla consapevolezza del mondo quotidiano. Ciononostante, non sapevo che stavo facendo quello. Per quanto mi riguardava, quel giorno avevo ceduto a don Juan spinto dal timore e dal rispetto.
Quando tornò a rivolgermi la parola, lo fece con il tono usuale. Anche quello che mi disse mi suonò molto familiare. Disse che la spina dorsale di un guerriero-viaggiatore è l’umiltà e l’efficienza; l’agire senza aspettarsi nulla e far fronte a qualunque cosa gli si prospetti.
Arrivai a quel punto attraverso un altro mutamento nel mio livello di consapevolezza. La mia mente si focalizzò su un pensiero, o forse una sensazione di angoscia. Compresi allora di aver stretto con alcune persone il patto di morire insieme e non sapevo chi esse fossero. Sentii, con assoluta certezza, che morire in solitudine sarebbe stato un errore. La mia angoscia si fece intollerabile.
«Siamo soli» disse a quel punto don Juan. «Questa è la nostra condizione, ma morire soli non significa morire in solitudine.»
Respirai a fondo nel tentativo di attenuare la tensione e la mia mente tornò a essere lucida.
«Il grande problema di noi maschi è la fragilità» seguitò lui. «Quando la nostra consapevolezza comincia a crescere, cresce come una colonna, proprio al centro del nostro essere luminoso. Deve raggiungere un’altezza considerevole prima che possiamo fare affidamento su di essa. In questo momento della tua vita come sciamano, perdi con facilità la presa sulla tua nuova consapevolezza. E quando questo accade, dimentichi tutto quello che hai fatto e visto sulla via del guerriero-viaggiatore perché torni alla consapevolezza della vita quotidiana. Ti ho già spiegato che il compito di ogni stregone di sesso maschile è recuperare tutto quanto ha fatto e visto sulla via del guerriero-viaggiatore mentre sperimenta livelli di consapevolezza nuovi.
«Capisco benissimo, don Juan» risposi. «Forse questa è la prima volta che mi rendo pienamente conto del perché dimentico tutto, per ricordare di nuovo tutto in un secondo tempo. Ho sempre creduto che queste fluttuazioni fossero da attribuirsi a una condizione patologica del tutto personale; ora invece ne conosco il vero motivo, anche se non so tradurlo a parole.»
«Non preoccuparti per questo. A tempo debito, saprai tradurre a parole tutto ciò che vorrai. Oggi, devi agire sul tuo silenzio interiore, su ciò che sai senza sapere. Sai perfettamente che cosa devi fare, ma è una conoscenza che non ha ancora trovato una piena formulazione nei tuoi pensieri.»
Sul piano delle sensazioni e dei pensieri concreti, tutto quello che avevo era la vaghissima impressione di sapere qualcosa che non faceva parte della mia mente. Poi percepii nettissima la sensazione di aver fatto un enorme passo verso il basso, come se dentro di me qualcosa fosse precipitato. Fu quasi un sobbalzo e compresi di essere entrato in un altro livello di consapevolezza.
Don Juan mi disse che per un guerriero-viaggiatore era indispensabile congedarsi per sempre da tutti quelli che si preparava a lasciare. E doveva farlo con voce alta e chiara, così che il suo grido e i suoi sentimenti si imprimessero per l’eternità su quelle montagne.
Esitai a lungo, non perché non sapevo a chi rivolgere quel mio ringraziamento finale. Avevo interiorizzato alla perfezione il concetto degli sciamani secondo cui i guerrieri-viaggiatori non devono nulla a nessuno.
Don Juan mi aveva instillato in profondità l’assioma: «I guerrieri-viaggiatori pagano con generosità, stile e con ineguagliata facilità ogni favore che viene loro reso. In questo modo, si affrancano dal fardello dell'essere in debito.»
Avevo ripagato, o lo stavo facendo, tutti coloro che mi avevano onorato della loro attenzione e sollecitudine. Avevo spinto la ricapitolazione della mia vita al punto che non restava più nulla da verificare. In quei giorni pensavo veramente di non dover niente a nessuno. Espressi a don Juan il mio convincimento e la mia esitazione.
Era senz’altro vero che la ricapitolazione della mia vita era stata esauriente, concordò lui, ma ero ben lungi dall’aver pagato ogni debito.
«Che mi dici dei tuoi fantasmi?» aggiunse poi. «Quelli che non puoi più toccare?»
Parlava a ragion veduta. Nel corso della ricapitolazione gli avevo riferito tutti gli accadimenti della mia vita. Dalle molte centinaia, lui aveva isolato tre debiti che mi portavo dietro dall’infanzia e a essi aveva aggiunto quello che avevo nei confronti della persona che ci aveva fatti incontrare. Avevo ringraziato a profusione il mio amico, ricavandone la sensazione che qualcosa, là fuori, aveva preso debito atto della mia riconoscenza. Quanto agli altri tre episodi, invece, non avevo preso iniziative di sorta.
Il primo riguardava un uomo che avevo conosciuto da bambino, il signor Leandro Acosta. Era il nemico per eccellenza di mio nonno, che più volte lo aveva accusato di trafugare polli dal suo allevamento. Pur senza essere un vagabondo, Acosta non aveva un lavoro preciso. Era un ribelle, un giocatore, un uomo dai mille mestieri: tuttofare, guaritore autodidatta, cacciatore e fornitore di esemplari di piante e insetti per i guaritori e gli erboristi del posto, nonché di ogni sorta di uccelli e mammiferi per i tassidermisti e i negozi di animali.
L'opinione comune era che guadagnasse un sacco di soldi, ma fosse incapace di risparmiare o di fare buoni investimenti. Amici e detrattori erano convinti che avesse avviato l’attività più remunerativa della zona, ma che una misteriosa malattia dello spirito lo rendesse perennemente inquieto e irrimediabilmente incostante.
Un giorno, mentre facevo una passeggiata sul confine detta fattoria del nonno, mi accorsi che qualcuno mi osservava dal folto dei cespugli che delimitavano il bosco. Era il signor Acosta. Se ne stava accovacciato in mezzo all’intrico di vegetazione, invisibile a chiunque non fosse un ragazzino di otto anni dalla vista acuta.
«Non mi stupisce che il nonno pensi che sia lui a rubare le galline», pensai. Ero certo che nessun altro si sarebbe accorto della sua presenza, tanto invisibile lo rendeva la sua immobilità. A tradirlo, era stata la differenza che avevo notato fra i cespugli. Mi avvicinai. TI fatto che la gente lo rifiutasse così rabbiosamente o lo amasse così appassionatamente, mi affascinava oltre ogni limite.
«Che cosa ci fa qui, signor Acosta?» mi azzardai a chiedere.
«Sto cagando e intanto osservo la fattoria di tuo nonno» rispose lui. «Quindi, a meno che l’odore della merda non ti piaccia, farai bene a filartela.»
Mi allontanai di qualche passo. Morivo dalla voglia di scoprire se stava dicendo la verità. Così era. Quando si alzò, pensai che sarebbe entrato nella proprietà del nonno, magari spingendosi fino al di là della strada; invece, Acosta cominciò a inoltrarsi nella giungla.
«Ehi, signor Acosta!» gridai allora. «Posso venire con lei?»
Mi accorsi che si era fermato, ma anche questa volta la mia fu soprattutto un’impressione, tanto fitti erano i cespugli in quel punto.
«Certo che puoi, se riesci a trovare un varco nella vegetazione» fu la sua risposta. Non era un’impresa difficile per me. Nelle mie ore di ozio, avevo contrassegnato con un grosso sasso uno di quei varchi. Dopo un’infinità di tentativi ed errori, avevo scoperto un passaggio dove potevo strisciare e che, dopo tre o quattro metri, si trasformava in un sentiero vero e proprio, dove era possibile stare in piedi.
«Bravo ragazzo!» si complimentò il signor Acosta. «Ce l’hai fatta. Ora puoi venire con me, se vuoi.»
Quello fu l’inizio della mia amicizia con Leandro Acosta. Andavamo a caccia insieme ogni giorno. E dato che restavo fuori casa dall’alba al tramonto, senza mai dire a nessuno dove andassi, la cosa divenne talmente evidente che un giorno il nonno mi ammonì con severità.
«Devi essere più selettivo nella scelta dei tuoi amici» disse. «O finirai per diventare come loro. Non tollererò nessuna influenza da parte di quell’uomo. Non avrebbe certo difficoltà a trasmetterti il suo stile di vita. Potrebbe influenzarti a essere come lui: inutile. Se non metti fine a questa storia, dovrò pensarsi io. Lo farò accusare di furto di galline, perché sai maledettamente bene che è proprio quello che fa tutti i santi giorni.»
Cercai di dimostrargli l’assurdità di quell’accusa. Il signor Acosta non aveva alcun bisogno di rubare galline. Aveva a disposizione la giungla intera e da essa poteva ricavare qualunque cosa volesse. Ma la mia operazione ebbe il solo effetto di far infuriare maggiormente il nonno. Compresi allora che nel suo intimo invidiava la libertà di Acosta e da quel momento, per me Leandro Acosta cessò di essere soltanto un simpatico cacciatore per trasformarsi nel simbolo di tutto ciò che era un tempo proibito e desiderato.
tentai di ridurre la frequenza dei nostri incontri, ma ero irresistibilmente attratto. Poi un giorno, il signor Acosta e tre suoi amici mi proposero qualcosa che neppure lui aveva mai fatto: catturare un avvoltoio vivo e perfettamente sano. Gli esemplari di quella zona, mi spiegò, erano enormi, con un’apertura alare che poteva raggiungere i due metri, e composti da sette tipi di carne, ciascuno dei quali possedeva diverse proprietà terapeutiche. Era però necessario che l’uccello non fosse ferito, per essere ucciso in un secondo tempo con dei sedativi e senza alcuna violenza. Abbatterne uno con una fucilata sarebbe stato facilissimo, ma, in quel caso, ogni proprietà curativa sarebbe andata persa. Bisognava catturarlo vivo, cosa che neppure lui aveva mai tentato. Ma con il mio aiuto, seguitò, e quello dei suoi tre amici, avrebbe risolto il problema. La sua, disse, era la naturale conclusione a cui era arrivato dopo aver studiato a lungo il comportamento degli avvoltoi.
«Quello che ci serve è un asino morto» esclamò con entusiasmo, «e ce l’abbiamo.» Mi guardò, aspettando che gli chiedessi che cosa mai si poteva fare con un asino morto, ma davanti al mio silenzio proseguì: «Bisogna estrarne gli intestini e infilare degli stecchi nell’addome, così da mantenerne la rotondità.
A capo degli avvoltoi dal collo rosso è quello più grosso, più scaltro. Nessuno ha una vista più acuta ed è proprio questo a farne un autentico re. Si calerà sottovento rispetto all’asino, per accertarsi che l’odore sia quello giusto. Intanto, noi avremo ammucchiato gli intestini e gli organi modi vicino al posteriore della carcassa, perché sembri che sia già stato parzialmente divorato da un gatto selvatico. L’avvoltoio si avvicinerà senza fretta, con tutto comodo. Procederà a balzelloni e finalmente si poserà sulla carcassa e lì comincerà a dondolarsi. Lo ribalterebbe, se non fosse per i quattro bastoncini che noi avremo piantato per terra. Per un po’, avvoltoio se ne starà lì senza fare nulla; questo sarà il suo modo per segnalare agli altri avvoltoi che il campo è libero. Solo quando ne saranno arrivati tre o quattro, il re si metterà all’opera.»
«E quale sarebbe il mio ruolo in tutto questo?» volli sapere.
«Tu sarai nascosto dentro l’asino» fece lui, imperturbabile. «Nient'altro. Ti darò dei guanti di pelle fatti appositamente per l’occasione, e te ne starai seduto lì, in attesa che il re squarci l’ano dell’asino con gli artigli e cacci dentro la testa per cominciare a mangiare. A quel punto lo afferrerai per il collo con entrambe le mani, stringendo forte perché non scappi.
I miei amici e io seguiremo la scena con un cannocchiale, nascosti in un burrone vicino. Quando vedrò che l’hai preso, arriveremo al galoppo e avremo la meglio sull’avvoltoio.»
«Ne sarebbe davvero capace, signor Acosta?» domandai. Non che ne dubitassi; volevo solo averne la conferma.
«Ma certo!» mi rispose con l’aria più sicura del mondo. «Saremo equipaggiati con guanti e gambali di cuoio. Gli avvoltoi hanno artigli potenti, capaci di spezzare un metacarpo come se fosse un fuscello.»
A quel punto non avevo più scampo. Ero rapito, totalmente elettrizzato. La mia ammirazione per Leandro Acosta non aveva più limiti. Ora ai miei occhi era un autentico cacciatore, pieno di risorse, astuto, competente.
«Ci sto!» proruppi.
«Ecco il mio ragazzo!» si congratulò lui. «Non mi aspettavo niente di meno da te.»
Aveva messo una pesante coperta dietro la sella del suo cavallo e uno dei suoi amici mi sollevò per le braccia e mi issò sulla bestia.
«Reggiti alla sella» mi istruì Acosta, «e contemporaneamente alla coperta.»
Senza fretta ci mettemmo in marcia. Cavalcammo forse per un’ora, finché arrivammo a una distesa piatta e brulla. Lì, ci fermammo vicino a una tenda molto simile a una bancarella da mercato, con un tetto piatto per fare ombra. Sotto il tetto, vidi un asino morto. Era piuttosto scuro, e sembrava molto giovane.
Né il signor Acosta né i suoi amici si curarono di spiegarmi come lo avessero trovato o ucciso e non volevo essere io a chiederlo. Mentre sbrigavano i preparativi, Acosta mi spiegò che la tenda era lì perché gli avvoltoi volavano in cerchio ad altezze strabilianti, invisibili ma sicuramente in grado di vedere tutto quello che succedeva sotto di loro.
«Devono puntare tutto sulla vista per forza» disse. «Hanno pochissimo udito e il loro olfatto non eguaglia neppure lontanamente la capacità visiva. Ecco perché è importante che tappiamo tutti i buchi della carcassa. Se ti vedessero, non verrebbero mai giù. Non devono accorgersi di nulla.»
Infilarono quindi dei bastoncini nel ventre dell’asino e li incrociarono a formare una specie di intelaiatura, lasciando solo lo spazio sufficiente perché io potessi strisciare dentro. Improvvisamente feci la domanda che morivo dalla voglia di fare.
«Mi dica, signor Acosta... questo asino è morto di malattia, vero? Pensa che potrei restare contagiato?»
Lui alzò gli occhi al cielo. «Che diamine, non puoi essere tanto sciocco! Le malattie degli asini non si trasmettono agli uomini. Godiamoci quest'avventura e non preoccuparti di simili sciocchezze. Se fossi più basso, entrerei io stesso. Hai idea di che cosa significhi catturare il re degli avvoltoi dal collo rosso?»
Gli credetti, e quelle parole bastarono ad avvilupparmi in un manto di totale sicurezza. Non avrei permesso al disgusto di farmi perdere il divertimento.
Infine Acosta mi infilò nella carcassa. Tutti insieme, tirarono la pelle fino a coprire per intero l’intelaiatura, quindi la cucirono, avendo cura di lasciare un ampio spazio in basso, perché all’interno l’aria potesse circolare liberamente. Fù. un momento terribile quello in cui la pelle si chiuse sopra la mia testa come il coperchio di una bara. Mi sforzai di respirare profondamente e di pensare solo all’eccitazione che avrei sperimentato quando avessi stretto le mani intorno al collo dell’avvoltoio.
Il signor Acosta mi impartì le ultime istruzioni. Mi avrebbe avvertito con un fischio simile al verso di un uccello che l’avvoltoio si stava avvicinando e poi ancora quando si fosse posato. Questo, per far sì che non mi innervosissi o non diventassi troppo impaziente. Li sentii smontare la tenda, poi udii lo scalpitio dei cavalli che si allontanavano. Fu un bene che avessero lasciato solo un’apertura, perché la tentazione di guardare fuori era quasi irresistibile.
Trascorse un lungo intervallo durante il quale non pensai a nulla. Poi sentii il signor Acosta fischiare, segno che l’avvoltoio stava sorvolando a larghi cerchi. Il sospetto si tramutò in certezza quando udii il battito possente delle sue ali. Subito dopo, l’asino cominciò a ondeggiare violentemente. Seppi allora che il re degli avvoltoi si era posato sulla carcassa. Ne percepivo il peso. Poi sentii il battito di altre ali e, in lontananza, il fischio di Acosta. Cercai di preparami all'inevitabile. L’asino cominciò a vibrare come se qualcosa ne stesse dilaniando la pelle, poi una testa enorme e orrenda, sormontata da una cresta rossa, un becco potente e un occhio penetrante sembrarono esplodere all’interno. Urlai di paura e con entrambe le mani abbrancai il collo dell’animale. Probabilmente il mio attacco lo stordì brevemente, perché non reagì in alcun modo, dandomi così l’opportunità di accentuare la stretta. Poi scoppiò l’inferno. L’avvoltoio si riscosse e cominciò a tirare con forza da sbatacchiarmi senza pietà contro l’intelaiatura di bastoni. Un attimo dopo, ero parzialmente fuori della carcassa, aggrappato al collo della bestia, come se ne andasse della mia vita.
Sentii in lontananza il galoppo del cavallo di Acosta, quindi il suo fischio. «Moda la presa, ragazzo, o ti porterà con sé» gridò. E davvero il re degli avvoltoi se ne sarebbe volato via portandomi appresso, oppure mi avrebbe lacerato con i suoi artigli. Se non ci riuscì, fu perché aveva la testa sprofondata per metà nelle viscere e nell'intelaiatura e gli artigli scivolavano sugli intestini senza fare presa e senza mai arrivare a sfiorarmi.
Inoltre, impegnato com’era a liberarsi dalla mia stretta, non poteva protendere gli artigli fino a ferirmi. La prima cosa che seppi subito dopo fii che Acosta si era buttato sull’uccello, proprio nel momento in cui le mie mani scivolavano fuori dal guanto.
Il signor Acosta era fuori di sé dalla gioia. «Ce l’abbiamo fatta, ragazzo, ce l’abbiamo fatta!» ripeteva. «La prossima volta useremo dei bastoni più lunghi che si possano conficcare nel terreno, in modo che l’avvoltoio non possa tirarti fuori, e ti legheremo all'intelaiatura.»
La mia amicizia con il signor Acosta era durata quanto bastava perché catturassi un avvoltoio per lui. In seguito, il mio interesse nei suoi confronti svanì misteriosamente com’era nato e non ebbi mai l’opportunità di ringraziarlo per tutto quello che mi aveva insegnato.
Don Juan mi disse che Acosta mi aveva insegnato la pazienza del cacciatore nel momento più giusto per impararla; soprattutto, mi aveva insegnato a trarre dall'isolamento tutto il conforto di cui un cacciatore necessita.
«Non confondere la solitudine con l’isolamento» mi spiegò in un’occasione. «Per me, la solitudine è una condizione psicologica della mente. L’isolamento è una condizione fisica. La prima ti indebolisce, il secondo ti conforta.»
A causa di tutto questo, aveva detto don Juan, sarei stato per sempre in debito con Leandro Acosta, e questo, che capissi o meno il concetto di debito così come lo intende un guerriero-viaggiatore.
Il mio secondo creditore era, stando a don Juan, un ragazzino di dieci anni con cui ero cresciuto. Si chiamava Armando Velez. Proprio come il suo nome, Armando era dignitoso, compassato, un autentico giovane vecchietto. A me piaceva moltissimo, perché era deciso e affabile al tempo stesso. Non si faceva intimidire facilmente e, pur non essendo affatto un attaccabrighe, non rifuggiva dalla lotta.
Andavamo spesso a pesca insieme. Le nostre prede erano in prevalenza pesci piccolissimi che vivevano sotto i ciottoli e bisognava prenderli con le mani. Li facevamo essiccare al sole e li mangiavano crudi, a volte anche per tutto il giorno.
Di Armando apprezzavo l’ingegnosità, l’intelligenza e il fatto che era ambidestro. Riusciva a tirare sassi con entrambe le mani. Ci sfidavamo in ogni sorta di giochi e, con mio grande disappunto, lui finiva sempre per vincere. Era solito scusarsi per quelle vittorie dicendo: «Se ti lasciassi vincere, mi odieresti. Sarebbe un insulto alla tua virilità. Non devi far altro che impegnarti di più».
A causa della sua esagerata compassatezza, lo chiamavamo «Señor Velez», ma abbreviando il señor in «Sho», secondo una consuetudine tipica del paese sudamericano da cui provengo.
Un giorno, Sho Velez mi rivolse una richiesta a dir poco insolita. Naturalmente me la presentò come una sfida. «Scommetto quello che vuoi» disse, «che io conosco una cosa che tu non oseresti mai fare.»
«Di che cosa stai parlando, Sho Velez?»
«Non oseresti mai discendere un fiume con una zattera.»
«Oh, sì, invece. L’ho fatto su un fiume che era straripato. Una volta sono rimasto bloccato otto giorni su un’isola. Mi mandavano il cibo approfittando della corrente.»
Era la verità. L’altro mio più caro amico era un ragazzino soprannominato Crazy Shepherd. Una volta ci eravamo arenati su un’isola da cui non c’era modo di andare via.
La gente del posto, convinta che la piena avrebbe coperto l’isola e che noi saremmo annegati, metteva nel fiume cesti di viveri, nella speranza che arrivassero fino a noi, cosa che di solito accadeva. Potemmo così sopravvivere finché l’acqua non cominciò a defluire e vennero a recuperarci con una zattera.
«No, questa è una faccenda ben diversa» ribattè Velez con la compostezza di sempre. «Questa volta si tratta di un fiume sotterraneo.»
Si riferiva a uno dei fiumi della zona, che per un lungo tratto scorreva sotto una montagna. In effetti, quel tratto fluviale aveva sempre esercitato un fascino speciale su di me. Penetrava nella montagna attraverso una grotta di dimensioni ragguardevoli e di aspetto minaccioso, sempre brulicante di pipistrelli e puzzolente di ammoniaca. I bambini del posto sostenevano che era l’entrata dell’inferno. Vapori di zolfo, caldo e fetore.
«Puoi scommetterei le mutande che mai e poi mai mi avvicinerò a quel fiume, Sho Velez!» strillai. «Devi essere completamente pazzo per pensare una cosa del genere!»
ll suo viso, già serio, si fece solenne. «Oh» fece. «In questo caso dovrò arrangiarmi da solo. Per un momento ho pensato di poterti convincere a venire con me. Mi sbagliavo. Colpa mia.»
«Si può sapere che diavolo ti prende? Perché vuoi andare in quel posto orribile?»
«Devo» mi rispose in tono brusco. «Vedi, mio padre non è meno pazzo di te, solo che lui è un padre e un marito. Sei persone dipendono da lui. Se così non fosse, sarebbe pazzo come una lepre pazza. Le mie due sorelle, i miei due fratelli, mia madre e io dipendiamo da lui. Per noi, lui è tutto.»
Io ignoravo chi fosse il padre di Sho Velez. Non lo avevo mai visto e non sapevo che cosa facesse per vivere. Sho mi rivelò che era un uomo d’affari e che tutto quello che possedeva era, per così dire, sotto gli occhi di tutti.
«Ha costruito una zattera e vuole usarla. È deciso a intraprendere questa spedizione. Mia madre dice che è solo un modo per allentare la tensione, ma io non mi fido di lui. Nei suoi occhi ho visto la stessa luce di follia che c’è nei tuoi. Uno di questi giorni lo farà e allora morirà di certo. Quindi, devo prendere la zattera e affrontare io stesso il fiume. Morirò, ma mio padre sarà salvo.»
Sentii un brivido corrermi lungo il collo e in tono agitato proruppi. «Vengo con te, Sho Velez. Vengo con te. Sarà fantastico! Vengo con te!»
Presi il suo sorriso come un segno della felicità che gli avevo dato assicurandogli il mio appoggio, non perché fosse soddisfatto di avermi convinto. La frase che pronunciò subito dopo espresse i suoi sentimenti: «Se vieni con me, sopravviverò>> disse.
Della sua sopravvivenza non mi importava. A galvanizzarmi era il suo coraggio. Sapevo che Sho Velez aveva il fegato per fare ciò che diceva. Lui e Crazy Shepherd erano gli unici ragazzi davvero coraggiosi della città. Entrambi possedevano qualcosa che io consideravo unico e inconcepibile: il coraggio. Nessun altro in città ne aveva un solo briciolo. Li avevo messi alla prova tutti quanti. Per quanto mi riguardava, era come se fossero morti e con essi era morto anche l’amore della mia vita, il nonno. Avevo dieci anni, ma lo sapevo con assoluta certezza. Così, l’audacia di Sho mi colpì nel profondo. Sarei stato al suo fianco fino all’ultimo.
Concordammo di trovarci allo spuntare del giorno e in due trasportammo la leggera zattera per cinque o sei chilometri fuori città, fino alla grotta in cui il fiume spariva sottoterra. Il tanfo degli escrementi di pipistrello era insopportabile. Salimmo a bordo e ci spingemmo in acqua. L’equipaggiamento della zattera comprendeva delle torce elettriche che fummo costretti ad accendere subito. All’interno della montagna il buio era totale e l’aria era calda e umida. Quanto all’acqua, era abbastanza profonda da consentire la navigazione e abbastanza rapida da rendere inutili i remi.
La luce delle torce disegnava ombre grottesche. Sho Velez mi bisbigliò all’orecchio che forse era meglio non guardarle affatto, perché erano ben più che spaventose. Aveva ragione: quelle ombre erano oppressive, nauseanti. Disturbati dalla luce, i pipistrelli si erano alzati in volo e ci volteggiavano intorno. A mano a mano che ci inoltravamo nella caverna, tuttavia, sparirono tutti e non rimase che l’aria stagnante, pesante. Dopo quelle che a me sembrarono ore, giungemmo a una specie di stagno dove l’acqua era ancor più profonda e quasi immobile. Sembrava quasi che lì il fiume fosse stato chiuso da una diga.
«Siamo bloccati» sussurrò nuovamente Sho Velez. «Non c’è modo di attraversarlo con la zattera e non c’è modo di tornare indietro.»
La corrente era infatti troppo impetuosa perché potessimo anche solo tentare il ritorno. Decidemmo che era indispensabile trovare una via d’uscita. A quel punto mi accorsi che, mettendoci in piedi, potevamo toccare la volta della grotta, il che significava che l’acqua arrivava fino alla sommità della grotta. Dato che all’imboccatura questa raggiungeva forse i duecento metri, non potei che concluderne che quella doveva essere la profondità dello stagno.
Assicurata la zattera a una roccia, ci immergemmo, nella speranza di avvertire movimenti che indicassero la presenza di una corrente. Se in superficie tutto era caldo e umido, pochi metri sotto il pelo dell’acqua faceva un gran freddo. Quel brusco cambiamento di temperatura mi impaurì, una strana paura animale che mai avevo sperimentato prima. Riaffiorai. Sho Velez doveva aver provato la stessa cosa, perché ci scontrammo in superficie.
«Credo che stiamo per morire» disse con fare solenne.
Ma non condividevo la solennità di Sho Velez, né il suo desiderio di morte. Sempre più frenetico, tornai sotto in cerca di una via di salvezza. Dovevano essere state le piene a trasportare le rocce che avevano formato la diga naturale. Finalmente individuai un foro abbastanza ampio per il mio corpo. Trascinai sotto Sho Velez per mostrarglielo. Naturalmente non sarebbe mai stato possibile farci passare la zattera, così recuperammo i nostri abiti, ne facemmo un fagotto e ci immergemmo.
Finimmo su una sorta di parete d’acqua, molto simile a quelle che si trovano nei luna-park. La patina scivolosa di muschio e licheni che ricopriva le rocce ci permise di scivolare per un lungo tratto senza ferirci. Arrivammo così in una grotta smisurata che sembrava una cattedrale. Lì, l’acqua ci arrivava più o meno alla vita, ma dall’imboccatura filtrava la luce del giorno e fu da quella parte che ci dirigemmo. Il acqua non era abbastanza alta per consentirci di nuotare, né la corrente abbastanza forte perché potessimo pagaiare come fanno i cani. Finalmente fuori, facemmo asciugare al sole i nostri vestiti e, senza scambiarci una sola parola, tornammo in città. Sho Velez non riusciva a consolarsi della perdita della zattera.
«Là dentro mio padre sarebbe morto» concluse. «È troppo grosso, non sarebbe mai passato attraverso quel buco. È grande e grosso, lui. Ma non abbastanza forte per tornare indietro.»
Personalmente ne dubitavo. Ricordavo come, a causa dell'inclinazione, la corrente del fiume sotterraneo fosse sorprendentemente impetuosa. Ma forse, un uomo disperato avrebbe trovato la forza di uscire aiutandosi con una corda.
Ma a quel punto le ipotetiche probabilità di salvezza del padre di Sho Velez non mi interessavano più. La sola cosa importante era che, per la prima volta, avevo avvertito il morso dell’invidia. Sho Velez era l’unico essere umano che avessi mai invidiato. Lui aveva qualcuno per cui morire e mi aveva dimostrato di essere realmente disposto a farlo. Io, invece, non avevo nessuno per cui sacrificarmi e di conseguenza non avevo dimostrato un bel nulla.
Almeno simbolicamente, lasciai a lui tutto l’onore. Il suo trionfo era completo e ad esso mi inchinai. Quella era la sua città, quella era la sua gente e, per quanto ne sapevo, lui era il migliore di tutti loro. Quel giorno, quando ci separammo, ebbi un momento di banalità, ma ero del tutto sincero quando dissi: «Sii il loro re, Sho Velez. Sei il migliore.»
Non gli parlai mai più. Deliberatamente, misi fine alla nostra amicizia, sentendo che quello era il solo modo per dimostrare la profonda influenza che aveva esercitato su di me.
Don Juan era dell’avviso che avessi un debito incancellabile con Sho Velez. Era stato il solo a insegnarmi che è imperativo avere qualcosa per cui morire ancora prima di trovare qualcosa per cui vivere.
«Se non hai niente per cui sei disposto a morire» mi disse don Juan, «come puoi pensare di avere qualcosa per cui vivere? Le due cose vanno di pari passo e la morte sta al timone.»
La terza persona con cui don Juan mi riteneva indebitato oltre la vita e la morte era mia nonna materna. Accecato dal mio amore per il nonno l’uomo avevo dimenticato che proprio la mia eccentrica antenata era l’autentica forza di quella famiglia.
Molti anni prima che io mi trasferissi da loro, la nonna aveva salvato dal linciaggio un indiano del posto, accusato di stregoneria. Certi ragazzi stavano per appenderlo a un albero nella nostra proprietà, quando lei li fermò. A quanto pareva, erano tutti suoi figliocci e non avrebbero mai osato mettersi contro di lei. La nonna tirò giù il malcapitato e lo portò a casa per curarlo. La fune gli aveva già provocato un taglio profondo nel collo.
Le ferite guarirono, ma l’indiano non si staccò più dal fianco di mia nonna. Sosteneva che la sua vita si era conclusa il giorno del tentato linciaggio e che quella nuova vita non apparteneva a lui, bensì alla sua salvatrice. E poiché era un uomo di parola, si dedicò a servirla. Divenne il suo valletto, il suo maggiordomo e il suo consigliere. Secondo le mie zie, era stato lui a suggerirle di adottare un neonato rimasto orfano, una scelta a cui loro erano ferocemente contrarie.
Quando andai ad abitare a casa dei nonni, il figlio adottivo era ormai prossimo alla quarantina. La nonna lo aveva mandato a studiare in Francia. Un pomeriggio, del tutto inaspettatamente, un bell’uomo robusto e molto elegante scese da un taxi che si era fermato davanti a casa. Il tassista portò nel patio alcune valigie in pelle e in cambio ricevette una mancia generosa. Un’occhiata mi bastò per notare che il nuovo arrivato aveva tratti a dir poco sorprendenti Aveva ciglia lunghe e curve e capelli altrettanto lunghi e ondulati. Era estremamente attraente, senza esserlo del tutto. Ma la caratteristica più gradevole era senz’altro il sorriso, un sorriso luminoso e aperto di cui mi gratificò immediatamente.
«Posso sapere come ti chiami, giovanotto?» chiese. Aveva la voce più affascinante che avessi mai sentito.
Quel «giovanotto» bastò a conquistarmi. «Il mio nome è Carlos Aranha» risposi.
«Posso sapere il suo?»
Lui ebbe un gesto scherzoso di sorpresa. Spalancò gli occhi e fece un salto indietro, come per respingere un attacco improvviso. Dopodiché scoppiò in una risata tonante. Il rumore richiamò la nonna che nel vederlo strillò come una ragazzina e gli gettò le braccia al collo. Lui la sollevò come se non pesasse nulla e la fece volteggiare in aria. Solo allora notai che era molto alto; era la corpulenza a farlo apparire più basso. Il suo era il corpo di un lottatore professionista. Accorgendosi del mio interessamento, fletté i bicipiti.
«Ho praticato un po’ la boxe, signore» spiegò, perfettamente consapevole di quali fossero i miei pensieri.
La nonna ci presentò. Quello, disse, era suo figlio Antoine, il suo tesoro, la luce dei suoi occhi. Era, aggiunse, un drammaturgo, un regista teatrale, uno scrittore e un poeta.
Ma ad affascinarmi fu l’atleticità di Antoine. Non capii subito che era stato adottato, ma non potei fare a meno di notare che non assomigliava affatto agli altri componenti della famiglia. Loro erano solo cadaveri che camminavano, ma Antoine era vivo, vitale in ogni fibra del suo essere. Andammo subito d’accordo. Mi piaceva che ogni giorno si allenasse con un punching-ball. Soprattutto, mi piaceva che non si limitasse a colpirlo con le mani, ma usasse anche i piedi, secondo una tecnica sorprendente, un misto tra il pugilato e kicking. Il suo corpo aveva la solidità della roccia.
Un giorno, Antoine mi confessò che il suo più grande desiderio era diventare un autore famoso.
«Ho tutto» mi disse. «La vita è stata incredibilmente generosa con me. La sola cosa che voglio è proprio quella che mi manca. Il talento. Le muse non mi sono amiche. Apprezzo quello che leggo, ma non sono capace di creare nulla di altrettanto buono. Ecco il mio tormento; mi manca la disciplina o forse il fascino necessari per attirare le muse e la mia esistenza è vuota come più non potrebbe.»
Proseguì dicendo che la madre era il suo unico punto di riferimento. La chiamò il suo bastione, il suo sostegno, la sua anima gemella e terminò esprimendo un pensiero che trovai inquietante: «Se non avessi lei, non desidererei vivere».
Mi resi conto di quanto fosse profondamente legato alla nonna. Tutti i terribili aneddoti che le zie mi avevano raccontato su Antoine piccolo e viziato, mi parvero di colpo terribilmente reali. La nonna lo aveva davvero viziato oltre ogni limite. Ciononostante, sembravano molto felici insieme. Per ore e ore se ne stavano seduti con la testa di lui sul grembo di lei, quasi fosse ancora bambino. Con nessun altro avevo mai sentito la nonna parlare tanto.
Poi un giorno, Antoine cominciò a comporre un lavoro dopo l’altro. Diresse una commedia allestita presso un teatro cittadino, una commedia che lui stesso aveva scritto e che fu subito un successo. Un giornale locale pubblicò le sue poesie. Sembrava che la sua vena creativa fosse finalmente affiorata. Ma tutto finì nel giro di pochi mesi. Il giornale lo denunciò accusandolo di plagio e pubblicò le prove della sua colpevolezza.
Prevedibilmente, mia nonna non volle crederci. Era tutta invidia, ripeteva. In città non c’era nessuno che non invidiasse l’eleganza e lo stile di suo figlio, nonché la sua personalità e il suo ingegno. E davvero Antoine era la personificazione dell’eleganza e del savoir faire. Ma era certamente un plagiario; su questo non potevano sussistere dubbi.
Antoine non spiegò a nessuno le ragioni del suo comportamento e a me piaceva troppo per fargli domande. Inoltre, non me ne importava. Per quanto mi riguardava, le sue ragioni erano soltanto sue. Ma qualcosa si era spezzato per sempre; da quel momento, i cambiamenti si succedettero ininterrottamente. Da un giorno all’altro tutto mutò in modo così drastico che io mi abituai ad aspettarmi qualunque cosa, nel bene come nel male. Una notte, la nonna irruppe nella camera di Antoine. Nei suoi occhi c’era una durezza che non vi avevo mai visto prima e, quando parlò, le tremavano le labbra.
«È successa una cosa terribile» esordì.
Antoine la interruppe, supplicandola di lasciarlo spiegare.
Lei si rifiutò di ascoltarlo. «No, Antoine, no» disse con fermezza. «Tu non c’entri nulla. Riguarda me. In un momento per te così difficile, si è verificata una circostanza di grande importanza. Antoine, figliolo carissimo, non mi è rimasto più tempo.»
«Devi capire che è inevitabile» continuò. «lo devo andarmene, ma tu devi restare. Tu sei il compendio di tutto ciò che ho realizzato nella vita. Nel bene e nel male, sei tutto quello che io sono. Devi provarci. Alla fine ci ritroveremo di nuovo, ma nel frattempo agisci, Antoine. Agisci. Come, non importa, a condizione che tu lo faccia.»
Vidi il corpo di Antoine scosso da un fremito d’angoscia. Tutto il suo essere, i muscoli, la forza, era come contratto. Era come se si fosse staccato dal suo problema, che era un fiume, per arrivare all’oceano.
«Promettimi che non morirai finché non sarà arrivato il tuo momento!» gli gridò.
Antoine fece un cenno d’assenso.
L’indomani, dietro suggerimento del suo stregone-consigliere, la nonna vendette tutti i suoi averi, che erano considerevoli, e consegnò ad Antoine il ricavato. E il giorno dopo, nelle prime ore del mattino, ebbe luogo la scena più insolita a cui avessi mai assistito nei miei dieci anni di vita: l’addio di Antoine alla madre. Fu tutto irreale com’è irreale il set di un film drammatico; irreale perché sembrava una scena finta, una serie di stratagemmi ideati da un autore e messi in scena da un regista.
Il set era il patio della casa. Antoine era il protagonista maschile, mia nonna quella femminile. Antoine era in procinto di iniziare una crociera che lo avrebbe portato in Europa a bordo di un transatlantico italiano. Era elegante come sempre e il conducente del taxi che lo aspettava davanti a casa suonava il clacson con fare impaziente.
Lo stesso ero stato testimone dei febbrili tentativi notturni di Antoine di comporre una poesia per la madre.
«E un cumulo di idiozie» mi aveva detto. «Tutto quello che scrivo non è altro che un cumulo di idiozie. Sono nullità.»
Senza averne alcun titolo, gli assicurai che non era così, che qualunque cosa avesse scritto sarebbe stata certamente bellissima. Mi feci trascinare fino a oltrepassare un confine che non avrei mai dovuto varcare.
«Credimi, Antoine» urlai, «io sono una nullità perfino peggiore di te! Tu hai una madre. Lo non ho nulla. Qualunque cosa scriverai, andrà benissimo.»
Con molta cortesia, lui mi pregò di andarmene. Offrendogli il mio consiglio, il consiglio di un bambino, ero riuscito solo a farlo sentire un idiota. Quanto a me, rimpiansi amaramente quel mio sfogo. Mi sarebbe piaciuto conservare la sua amicizia.
Lui si era buttato l’elegante cappotto sulla spalla destra. Indossava uno splendido abito verde in cashmere inglese.
«Devi sbrigarti, carissimo» riprese la nonna. «TI tempo è essenziale. Devi partire. In caso contrario, questa gente ti ucciderà per prenderti il denaro.»
Si riferiva alle figlie e ai loro mariti, furiosi per essere stati depredati dell’eredità e perché proprio l’odiato Antoine, il loro nemico per eccellenza, si sarebbe goduto ciò che spettava loro di diritto.
«Mi addolora doverti caricare di questo fardello» si scusò la nonna. «Ma come sai, il tempo prescinde dai nostri desideri.»
Poi toccò ad Antoine parlare, con la sua voce solenne, ben modulata. Quel giorno assomigliava più che mai a un attore. «Solo un minuto, mamma» disse. «Vorrei leggerti una cosa che ho scritto per te.»
Era una poesia di ringraziamento. Quando Antoine finì di leggerla, l’aria era così satura di sentimento che pareva vibrare.
«È assolutamente bellissima, Antoine» sospirò la nonna. «Esprime alla perfezione tutto quello che volevi dire. E quello che io volevo sentire.» Si interruppe e sulle sue labbra si disegnò uno splendido sorriso.
«Un plagio, Antoine?» domandò.
Il sorriso di lui fu altrettanto radioso. «Naturalmente, mamma. Naturalmente.»
Piangendo, si abbracciarono. Echeggiò di nuovo il clacson impaziente. Antoine guardò verso di me, che mi ero nascosto sotto le scale. Fece un cenno impercettibile con la testa, come a dire: «Arrivederci». Quindi si volse e senza più guardare la madre, corse verso la porta. Aveva trentasette anni, ma quel giorno ne dimostrava sessanta. E pareva portare un peso enorme sulle spalle. Sulla soglia si fermò, ma lo raggiunse la voce della madre, che lo ammoniva un’ultima volta: «Non voltarti indietro, Antoine. Non farlo mai. Sii felice, e agisci. Agisci! Questa è la risposta. Agisci!».
Quella scena mi riempì di una strana tristezza che perdura ancora oggi, un’inesplicabile malinconia che don Juan interpretò come la mia prima presa di coscienza di quanto è breve il tempo a nostro disposizione.
L’indomani mia nonna, accompagnata dal suo consigliere-servitore-valletto, partì alla volta di una mitica località di nome Rondonia, dove la sua guaritrice l’avrebbe presa in cura. Ignoravo allora che la nonna era malata allo stadio terminale. Non tornò più e don Juan spiegò la sua decisione di vendere ogni cosa e dare il ricavato ad Antoine come un’ultima iniziativa degli stregoni e attuata dal suo consigliere nell’intento di staccarla dalla cura della sua famiglia. La quale famiglia era talmente furiosa che non si preoccupò affatto del suo mancato ritorno. La mia sensazione era che non si fossero neppure resi conto della sua scomparsa.
Su quell'altopiano, rivissi i tre episodi come se si fossero verificati solo un momento prima. Ringraziando quelle tre persone, riuscii a riportarle indietro e quando smisi di gridare la mia tristezza era inesprimibile. Non riuscivo a smettere di piangere.
Con molta pazienza, don Juan mi spiegò che la solitudine non è ammissibile per un guerriero. I guerrieri-viaggiatori, disse, possono contare su un’entità su cui concentrare tutto il loro amore e le loro cure: questa terra meravigliosa, la madre, la matrice, l’epicentro di tutto quello che siamo e che facciamo; l’essere a cui tutti facciamo ritorno e che permette ai guerrieri-viaggiatori di intraprendere il viaggio supremo.
Don Genaro procedette quindi a un atto di magico intento a mio beneficio. Sdraiato bocconi, eseguì una serie di movimenti, trasformandosi in un grumo di luminosità che sembrava nuotare, quasi che il terreno fosse una piscina. Don Juan disse che quello era il modo in cui don Genaro abbracciava l’immensità della Terra e che, a dispetto delle diversità di dimensioni, la Terra prendeva atto di quel gesto. I movimenti di don Genaro e la spiegazione di don Juan bastarono a mutare la mia tristezza in una gioia infinita.
«Non sopporto l’idea che te ne vada, don Juan» mi sentii dire, ma il suono della mia voce e le parole che avevo formulato mi precipitarono nell’imbarazzo. E quando ricominciai a piangere, pieno di autocommiserazione, il mio sgomento aumentò. «Che cosa mi sta succedendo, don Juan?» mormorai. «Di solito non sono così.»
«Quello che ti succede è che la tua consapevolezza è tornata al livello delle dita dei piedi» mi rispose ridendo.
Allora anche le ultime tracce di controllo mi abbandonarono e mi arresi alla disperazione e all’abbattimento.
«Resterò solo» dissi con voce stridula. «Cosa mi succederà? Che cosa ne sarà di me?»
«Mettiamola così» don Juan era calmissimo. «Per lasciare questo mondo e affrontare l’ignoto, ho bisogno di tutta la mia forza, di tutta la mia capacità di sopportazione, di tutta la mia fortuna; ma soprattutto, ho bisogno di tutto il coraggio di un guerriero-viaggiatore. E per restare e agire come un guerriero-viaggiatore, tu hai bisogno delle stesse cose. Avventurarsi là fuori, così come ci apprestiamo a fare, non è certo un gioco, ma non lo è neppure il restare.»
Travolto dall’emozione, gli baciai la mano.
«Ehi, ehi, ehi!» rise lui. «Il tuo prossimo passo sarà erigere un tabernacolo per i miei guaraches!»
L'autocommiserazione che mi aveva invaso si tramutò in un senso altrettanto acuto di perdita. «Te ne vai» ansimai. «Mio dio! Te ne vai per sempre!»
Allora don Juan fece quello che mi aveva fatto più volte dal giorno del nostro incontro. Il suo viso si gonfiò come dilatato da un’inspirazione profonda, mi premette con forza il palmo detta mano sinistra sulla schiena e disse: «Sollevati dal livello dei tuoi piedi! Alzati!».
Un istante dopo ero di nuovo perfettamente coerente, con il pieno controllo di me. Sapevo che cosa dovevo fare e non avevo più alcuna esitazione, né timore. Non mi importava che cosa sarebbe stato di me una volta che don Juan se ne fosse andato. Sapevo che la sua partenza era imminente. Lui mi guardò, e quell’occhiata disse ogni cosa.
«Non ci incontreremo mai più» disse con dolcezza. «Non hai più bisogno del mio aiuto, né io desidero offrirtelo, perché ora sei un vero guerriero-viaggiatore e mi disprezzeresti se ci provassi. Oltre un determinato punto, la sola gioia del guerriero-viaggiatore è la sua solitudine. Né vorrei che tu tentassi di aiutare me. Una volta che me ne sarò andato, sarà per sempre. Non pensare a me, perché io non penserò a te. Se sei un guerriero-viaggiatore degno, sii perfetto! Prenditi cura del tuo mondo. Onoralo, proteggilo con la vita!»
Si allontanò. Non era più il momento per l’autocommiserazione o per le lacrime e neppure per la felicità. Scosse la testa in un gesto di congedo, o forse era un muto riconoscimento di quello che io provavo.
«Dimentica il sé e non temerai nulla, qualunque sia il livello di consapevolezza in cui ti troverai» disse ancora.
Ebbe un momento di giocosità, quasi fosse deciso a prendersi gioco di me fino all’ultimo. Alzò la mano e piegò le dita come fanno i bambini.
«Ciao» disse.
Sapevo che sarebbe stato futile provare dolore o rimpianto e che per don Juan andarsene era difficile come per me era difficile restare. Eravamo entrambi intrappolati in un’irreversibile operazione energetica che mai avremmo potuto arrestare. Eppure, avrei voluto unirmi a lui, seguirlo ovunque andasse. Mi balenò alla mente il pensiero che, se fossi morto, avrebbe accettato la mia compagnia.
E allora vidi come don Juan Matus, il nagual, guidò i quindici veggenti che erano i suoi compagni, la sua corte, la sua gioia, a sparire uno a uno nella foschia che sovrastava la mesa, in direzione nord. Li vidi mutarsi in un grumo di luminosità e insieme ascendere e fluttuare al di sopra della mesa, simili a luci spettrali. Sorvolarono una volta la montagna, proprio come don Juan aveva predetto: l’ultima ricognizione, quella destinata ai loro occhi soltanto; l’ultimo sguardo a questa terra meravigliosa. Poi svanirono.
Sapevo che cosa dovevo fare. Non restava più tempo. Corsi verso l’abisso e saltai nel baratro. Per un momento sentii il vento sul mio viso, poi l’oscurità misericordiosa mi accolse come un placido fiume sotterraneo.
Il viaggio di ritorno
Ero vagamente conscio del frastuono di un motore che pareva rombare da fermo.
Pensai che stessero riparando un’auto nel parcheggio sul retro dell’edificio in cui si trovava il mio appartamento. Ma il rumore divenne così forte che finì con lo svegliarmi del tutto. Fra me e me imprecai contro i ragazzi che gestivano il parcheggio, perché dovevano riparare la loro auto proprio sotto le finestre di camera mia? Ero accaldato, coperto di sudore e stanchissimo. Quando sedetti sul bordo del letto, sentii i crampi artigliarmi dolorosamente i polpacci. Li massaggiai per qualche istante. Erano talmente contratti che temetti di vederli coperti di lividi. Volli andare in bagno per cercare una pomata, ma mi accorsi di non poter camminare. Mi girava la testa. Per la prima volta in vita mia, caddi. Quando mi fui ripreso un po’, mi resi conto che crampi e stordimento non mi preoccupavano affatto. Ero sempre stato incline all’ipocondria e, in circostanze normali un dolore come quello mi avrebbe precipitato nel panico.
Benché il frastuono fosse cessato, andai alla finestra per chiuderla. Fu allora che mi resi conto che la finestra era già chiusa e fuori era buio. Era notte! Nella stanza l’aria era viziata. Spalancai le finestre. Non riuscivo a capire come avessi fatto a chiuderle. L'aria notturna era fresca e tonificante. Il parcheggio era vuoto. Pensai che il rombo udito fosse quello di un’auto che accelerava nel vicolo tra il parcheggio e casa mia. Poi me ne dimenticai e tornai a letto. Mi sdraiai con i piedi a terra. Pensavo che quella posizione avrebbe contribuito a riattivare la circolazione nei polpacci, che ancora mi dolevano, ma non sapevo se fosse meglio tenere le gambe in basso oppure metterei sotto un cuscino.
Stavo per riaddormentarmi quando un pensiero mi attraversò la mente con tanta intensità da farmi balzare in piedi. Ero saltato nel baratro in Messico! Subito dopo formulai una deduzione quasi logica. Dato che lo avevo fatto per darmi la morte, ne conseguiva che adesso ero uno spettro. Che strano, mi dissi, tornare in forma di spettro nella mia casa di Los Angeles, all’angolo tra Westwood e Wilshire! Non c’era da stupirsi se provavo sensazioni tanto insolite. Ma se ero un fantasma, ragionai, com’era possibile che avessi percepito la freschezza dell’aria sul viso, e il dolore ai polpacci?
Tastai il lenzuolo: mi sembrò del tutto reale e altrettanto reale era il letto. Andai in bagno per guardarmi allo specchio. Di certo sembravo uno spettro. Avevo un aspetto terribile, con gli occhi infossati e segnati da occhiaie profonde. Ero disidratato, oppure morto. Meccanicamente, mi chinai a bere dal rubinetto. Sentii l’acqua scorrermi in gola. Ingoiai lunghe sorsate, come se non bevessi da giorni e giorni. Ero vivo! Perdio, ero vivo! A quel punto ne ero assolutamente certo, ma la cosa non mi provocò alcuna gioia. Ebbi un pensiero stranissimo: in passato ero già morto e poi tornato in vita. Ci ero abituato; per me non era nulla di straordinario. Ma la vividezza di quel pensiero era tale da farne quasi un ricordo, un abbozzo di ricordo che non nasceva da circostanze in cui la mia vita era effettivamente in pericolo. No, era qualcosa di completamente diverso: la vaga coscienza di qualcosa che non era mai accaduto e che quindi non aveva motivo di insidiarsi nei miei pensieri.
Non dubitavo affatto di essermi buttato in quel precipizio, in Messico. E adesso mi trovavo nel mio appartamento di Los Angeles, a più di cinquemila chilometri di distanza, senza ricordare nulla del viaggio di ritorno. Con gesti automatici, riempii la vasca da bagno e mi calai nell’acqua, ma ero gelato fin nelle ossa. Don Juan mi aveva insegnato che nei momenti di crisi, e quello certamente lo era, bisogna usare l’acqua come un elemento di purificazione. La feci scorrere sul mio corpo per quasi un’ora.
Avrei voluto riflettere con calma e razionalità su quanto stava accadendo, ma non ci riuscii. La mia mente era vuota. Ma, sebbene privo di pensieri, ero saturo fino all’orlo di sensazioni che si succedevano come un fuoco di fila e che non ero in grado di valutare. Tutto quello che potevo fare era percepire il loro assalto e lasciare che scorressero in me. L’unica decisione conscia che presi fu quella di vestirmi e uscire. Andai a fare colazione nel locale che frequentavo a tutte le ore del giorno e della notte, lo Ship’s Restaurant in Wìlshire, a un isolato di distanza da casa.
Avevo percorso quel breve tragitto così tante volte che ne conoscevo ogni passo. Ma quel giorno tutto mi sembrò nuovo. Non percepivo le vibrazioni dei miei passi, quasi avessi un cuscino sotto i piedi o il marciapiedi fosse coperto da un tappeto.
Praticamente scivolavo e mi pareva di aver fatto solo un passo o due, quando mi trovai davanti al ristorante. Sapevo di essere in grado di mangiare per via dell’acqua che avevo bevuto e sapevo di poter parlare, perché mi ero schiarito la gela e avevo imprecato mentre ero nella vasca. Entrai come facevo sempre. Quando sedetti al banco, mi si accostò una cameriera che mi conosceva.
«Non ha un gran bell’aspetto oggi, caro» disse. «Ha preso l’influenza ?»
«No» risposi in tono forzatamente allegro. «È che lavoro troppo. Sono rimasto sveglio per ventiquattro ore filate a preparare il materiale per una lezione. A proposito, che giorno M»
Lei guardò l’orologio e disse una data. Quell’orologio, spiegò, era un dono di sua figlia ed era dotato di calendario. Aggiunse che erano le tre e un quarto del mattino.
Ordinai uova e bistecca, pasticcio di carne e patate e pane bianco imburrato. Quando lei si allontanò, un nuovo orrore si presentò alla mia mente: il mio salto nell’abisso, in Messico al crepuscolo del giorno prima, era stato solo un’illusione? Ma anche in quel caso, come avevo fatto a rientrare a Los Angeles in sole dieci ore? Avevo dormito per dieci ore? O quello era il tempo che avevo impiegato per volare, scivolare, fluttuare, o comunque avessi fatto, fino a casa? Di certo non ero rientrato con un normale mezzo di trasporto, perché da quella località ci volevano due giorni soltanto per raggiungere Città del Messico.
Mi colpì un nuovo pensiero. Aveva la stessa limpidezza del quasi-ricordo di essere morto e resuscitato altre volte in passato e la stessa qualità della sensazione di estraneità da me stesso che stavo sperimentando: la mia continuità si era infranta irrimediabilmente. In un modo o nell’altro ero effettivamente morto in fondo al precipizio. Impossibile capire come fossi di nuovo vivo, intento a fare colazione allo Ship’s. Impossibile guardare al mio passato e individuare la linea ininterrotta di eventi che formano il vissuto di ogni uomo.
C’era una sola spiegazione: dovevo aver seguito le istruzione di don Juan. Avevo spostato il mio punto d’unione in una posizione che mi aveva impedito di morire e dal mio silenzio interiore avevo compiuto il viaggio di ritorno a Los Angeles. Non c’erano altre possibilità a cui potessi aggrapparmi. Per la prima volta, quella nuova linea di pensiero mi parve totalmente accettabile e totalmente soddisfacente. Non spiegava alcunché, ma faceva riferimento a un processo pragmatico che avevo già messo alla prova nel passato, anche se in forma più blanda, e questa considerazione assurda ebbe il potere di tranquillizzarmi del tutto.
Poi cominciarono a emergere pensieri diversi e altrettanto vividi, dotati della specialissima qualità di tutto ciò che possiede capacità esplicativa. n primo era collegato a una questione che aveva continuato a tormentarmi per tutto quel tempo. Don Juan ne aveva parlato come di un caso consueto fra gli stregoni di sesso maschile: la mia incapacità di ricordare eventi verificatisi mentre mi trovavo in condizioni di consapevolezza elevata.
Don Juan mi aveva illustrato tale consapevolezza come un minuscolo spostamento del punto d’unione, spostamento che lui stesso provocava a ogni nostro incontro, premendo con forza sulla mia schiena. Quei dislocamenti mi aiutavano a mettere in gioco campi di energia che abitualmente restavano ai margini. Per dirla in altre parole, i campi di energia che abitualmente si trovavano ai bordi del mio punto d’unione assumevano una posizione centrale. Uno spostamento di questa natura aveva due conseguenze: una straordinaria acutezza di pensiero e percezione e l’incapacità di ricordare, una volta tornato al mio stato consueto, ciò che era accaduto mentre mi trovavo su quell’altro livello.
n rapporto con i miei compagni era un esempio di entrambi i fenomeni. Per il mio viaggio supremo avevo compagni con cui interagivo solo nello stato di consapevolezza elevata e la nitidezza e la portata della nostra interazione erano supreme. Sfortunatamente, nella vita quotidiana, si riducevano per me a quasi ricordi che avevano il potere di indurmi alla disperazione e all’angoscia. In sostanza, vivevo la vita normale alla perenne ricerca di qualcuno che si sarebbe palesato del tutto inaspettatamente, forse uscendo da un palazzo di uffici, forse sbucando da dietro un angolo. Ovunque andassi, i miei occhi non cessavano mai di cercare persone che non esistevano e che tuttavia erano più vere di chiunque altro.
Quella mattina, allo Ship’s, tutto quanto mi era accaduto nella condizione di consapevolezza elevata durante gli anni trascorsi con don Juan, tornò a riacquistare continuità. Don Juan aveva lamentato la necessità che il nagual, lo stregone maschio, aveva di frammentarsi, a causa delle dimensioni della sua massa energetica. Ogni frammento viveva un aspetto determinato di un ambito globale e gli avvenimenti che il nagual sperimentava in ciascun frammento dovevano prima o poi essere ricomposti per formare un quadro completo e consapevole di tutto ciò che si era verificato nel corso della sua vita.
Guardandomi negli occhi, mi aveva detto che ci sarebbero voluti anni per realizzare l’unificazione e che sapeva di casi di nagual che non avevano mai raggiunto lo scopo totale delle loro attività in modo consapevole e vivevano frammentati.
Ciò che provai quel mattino allo Ship’s superava le mie più sfrenate fantasie. Don Juan mi aveva ripetuto più volte che il mondo degli sciamani non era un mondo immutabile, dove la parola è definitiva e non può cambiare, bensì un mondo eternamente fluttuante, dove nulla va dato per scontato. Il salto nell’abisso aveva modificato la mia cognizione in modo così drastico da consentirmi l’accesso a possibilità portentose e indescrivibili.
Ma qualunque cosa avessi potuto dire a proposito del ricongiungimento dei miei frammenti cognitivi, sarebbe stato solo un eufemismo. Quella fatale mattina allo Ship’s vissi qualcosa di infinitamente più potente di ciò che era accaduto il giorno in cui, per la prima volta, avevo visto l’energia così come fluisce nell’universo, il giorno in cui dal campus dell’UCLA mi ero ritrovato nel mio letto senza essere tornato a casa nel modo necessario al mio sistema cognitivo per considerare l’episodio reale. In quel ristorante, integrai i frammenti del mio essere in un tutto unico. In ciascuno di essi avevo agito con certezza e coerenza assolute, ma ancora ignoravo di averlo fatto. Essenzialmente, ero come un gigantesco puzzle e l’inserimento di ciascuna tessera produceva un effetto per cui non esisteva definizione.
Me ne stavo seduto lì, sudando copiosamente, riflettendo vanamente e ponendomi ossessivamente interrogativi per cui non c’era risposta: come tutto ciò era potuto accadere? Com’era stata possibile quella frammentazione? Chi siamo davvero? Certo non le persone che siamo stati indotti a credere. Avevo memoria di eventi che, per quanto concerneva una parte di me, non si erano mai verificati. Non riuscivo neppure a piangere.
«Uno sciamano piange quando è nello stato di frammentazione» mi aveva detto una volta don Juan. «Quando è intero, è preso da un tremito tanto intenso da poter mettere fine alla sua vita.»
E così era! Dubitavo di rivedere ancora i miei compagni. Avevo la sensazione che se ne fossero andati tutti con don Juan. Ero solo. Avrei voluto piangere quella perdita, sprofondare in una gratificante tristezza, come avevo sempre fatto. Non potei. Non c’era nulla di cui dolersi, nulla per cui rattristarsi. Nulla aveva importanza. Eravamo tutti guerrieri-viaggiatori e tutti eravamo stati ingoiati dall’infinito.
Per tutto quel tempo, avevo ascoltato don Juan parlare del guerriero-viaggiatore apprezzando enormemente la metafora che aveva scelto e identificandomi con essa su basi puramente emozionali. Ma non avevo mai realmente percepito che cosa egli intendesse, e questo a dispetto delle sue continue spiegazioni. Ma quel mattino allo Ship’s, compresi ogni cosa. Ero un guerriero-viaggiatore. Per me, solo i fatti energetici avevano significato. tutto il resto erano futilità di nessuna importanza.
Quel mattino, mentre sedevo aspettando il mio cibo, un altro pensiero affiorò alla mia mente: sentii un flusso di empatia, di identificazione con gli assunti di don Juan. Finalmente avevo raggiunto l’obiettivo dei suoi insegnamenti: ero tutt'uno con lui, come mai era accaduto prima. Non era mai successo che contrastassi don Juan o i suoi concetti perché troppo rivoluzionari per la linearità di pensiero dell’uomo occidentale. Piuttosto, era stata la precisione delle sue esposizioni a spaventarmi. La sua efficienza mi era parsa dogmatismo e proprio questo mi aveva indotto a cercare delucidazioni, a reagire con scetticismo.
Sì, sono saltato in un abisso, mi dissi e non sono morto, perché prima di schiantarmi sul fondo mi sono lasciato ingoiare dall’oscuro mare della consapevolezza. Mi ero abbandonato ad esso, senza timori né rimpianti. E quel mare oscuro mi aveva fornito ciò che mi serviva per non morire e approdare invece nel mio letto. Era una spiegazione che solo due giorni prima non avrebbe avuto alcun senso per me. Ma alle tre del mattino, al bancone dello Ship’s, spiegava ogni cosa.
Battei la mano sul tavolo, come se fossi stato solo. Gli altri clienti mi guardarono sorridendo con aria allusiva. Non me ne curai, concentrato com’ero su un dilemma insolubile: ero vivo, benché dieci ore prima mi fossi gettato in un baratro per morire. Sapevo che di soluzioni non ce n’erano. La mia cognizione normale esigeva una spiegazione lineare e ciò era impossibile. Proprio questo era il perno dell’interruzione della continuità. Un'interruzione che, aveva detto don Juan, era magia. Ora risultava chiaro anche a me. Quanto aveva avuto ragione nel dire che, per restare, avrei avuto bisogno di tutta la mia forza, tutta la mia capacità di sopportazione e, soprattutto, di tutto il coraggio di un guerriero-viaggiatore.
Inutilmente mi sforzai di pensare a don Juan. In ogni caso, non mi importava di lui. Fra noi sembrava essersi eretta una gigantesca barriera. In quel momento ero assolutamente convinto della veridicità del pensiero che si era insinuato in me fin da quando mi ero svegliato: ero un’altra persona. Nel momento in cui ero saltato, si era prodotta una sostituzione. In caso contrario, avrei pensato con affetto a don Juan, avrei anelato alla sua presenza. Avrei perfino provato una punta di risentimento perché non mi aveva portato con sé. Tutto questo sarebbe stato normale. No, non ero più lo stesso. Questo pensiero crebbe fino a pervadermi completamente. Qualunque residuo avessi conservato del mio vecchio essere, svanì.
Subentrò un nuovo stato d’animo. Ero solo! Don Juan mi aveva lasciato in un sogno come suo agente provocatore. Mi accorsi che il mio corpo cominciava a rilassarsi e di lì a poco potei respirare liberamente e profondamente. Risi forte, senza preoccuparmi neppure questa volta della gente che mi guardava sorridendo. Ero solo e non c’era nulla che potessi fare al riguardo!
Ebbi la sensazione fisica di inoltrarmi in un passaggio, un passaggio dotato di forza propria, che mi attirava dentro di sé. Era silenzioso ed era don Juan stesso, quieto e immenso. Fa quella la prima volta in cui sentii la nuova assenza di fisicità di don Juan. Non c’era spazio per il sentimentalismo né per la nostalgia. Come potevo sentire la sua mancanza, se era lì, nella forma di un’emozione spersonalizzata che mi attirava dentro di sé?
ll passaggio mi sfidava. Le mie sensazioni erano di entusiasmo, di agio. Sì, potevo percorrere quel passaggio, solo o in compagnia, forse per sempre. Non era un'imposizione, ma neppure un piacere. Non era soltanto l’inizio del viaggio supremo: era l’inizio di una nuova era, l’inevitabile destino di un guerriero-viaggiatore. Avrei dovuto piangere davanti alla realizzazione di aver trovato quel passaggio, ma così non fu. Avevo trovato l’infinito allo Ship’s! Che esperienza straordinaria! Un brivido gelido mi percorse la schiena e sentii la voce di don Juan dire che l’universo era davvero insondabile.
In quel momento si aprì la porta di servizio del ristorante, quella che dava sul parcheggio, e uno strano personaggio fece il suo ingresso. Era un uomo sulla quarantina, emaciato e in disordine, ma con bei lineamenti. Da anni lo vedevo aggirarsi nei paraggi dell’UCLA, mescolandosi agli studenti. Qualcuno mi aveva detto che era un paziente esterno del vicino Veteran’s Hospital. Non doveva essere del tutto equilibrato e di tanto in tanto lo vedevo allo Ship’s che si coccolava una tazza di caffè, sempre seduto allo stesso capo del bancone. Spesso, avevo notato, aspettava fuori, in attesa che si liberasse il suo sgabello preferito.
L'uomo sedette al suo solito posto, poi mi guardò. I nostri occhi si incontrarono. Subito dopo, lui lanciò un urlo che raggelò me e tutti i presenti. Mi guardarono tutti, stupefatti, qualcuno ancora con la bocca piena. Erano stati testimoni del mio bizzarro comportamento di poco prima e ovviamente credevano che a urlare fossi stato io. L'uomo balzò in piedi e corse fuori; prima, però, si voltò a guardarmi ancora, agitando freneticamente le mani sopra la testa.
D’impulso, gli corsi dietro. Volevo che mi dicesse che cosa lo avesse spaventato tanto in me. Lo raggiunsi nel parcheggio e gli chiesi il motivo della sua condotta. Per tutta risposta, lui si coprì gli occhi e urlò di nuovo, ancora più forte. Urlava a perdifiato, come un bambino spaventato da un incubo. Lo lasciai e tornai al ristorante.
«Che cosa le è successo, caro?» mi chiese preoccupata la cameriera. «Credevo che volesse piantarmi in asso.»
«Sono soltanto uscito per vedere un amico» risposi.
Lei mi guardò e abbozzò un gesto di scherzosa irritazione e di sorpresa.
«Quel tizio è amico suo?» chiese.
«Il solo che ho al mondo» risposi ed era la verità, se si può definire «amico» chi vede oltre la facciata e sa da dove proveniamo realmente.
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