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Pietro Negri pseudonimo di Arturo Reghini.
Introduzione alla magia, volume uno
Sono trascorsi oramai molti anni da quando ebbi, per la prima volta, coscienza della immaterialità. Ma, nonostante il fluire del tempo, l’impressione che ne provai fu così vivida, così possente, da permanere tuttora nella memoria, per quanto sia possibile trasfondere e ritenere in essa certe esperienze trascendenti; ed io tenterò, oggi, di esprimere, bumanis verbis, questa impressione, rievocandola dagli intimi recessi della coscienza.
Il senso della realtà immateriale mi balenò nella coscienza all’improvviso, senza antefatti, senza alcuna apparente causa o ragione determinante. Circa quattordici anni fa stavo un giorno, fermo ed in piedi, sul marciapiede del palazzo Strozzi a Firenze, discorrendo con un amico; non ricordo di che ci intrattenessimo, ma probabilmente di qualche argomento concernente l’esoterismo; cosa del resto senza importanza per l’esperienza che ebbi. Era una giornata affatto simile alle altre, ed io mi trovavo in perfetta salute di corpo e di spirito, non stanco, non eccitato, non ebbro, libero da preoccupazioni ed assilli. E, ad un tratto, mentre parlavo od ascoltavo, ecco, senti idiversamente: la vita, il mondo, le cose tutte; mi accorsi subitamente della mia incorporeità e della radicale, evidente, immaterialità dell’universo; mi accorsi che il mio corpo era in me, che le cose tutte erano interiormente, in me; che tutto faceva capo a me, ossia A centro profondo, abissale ed oscuro del mio essere. Fu un’improvvisa trasfigurazione; il senso della realtà immateriale, destandosi nel campo della coscienza, ed ingranandosi col consueto senso della realtà quotidiana, massiccia, mi fece vedere il tutto sotto una nuova e diversa luce; fu come quando, per un improvviso squarcio in un fitto velario di nubi, passa un raggio di sole, ed il piano od il mare sottostanti trasfigurano subitamente in una lieve e fugace chiarità luminosa.
Sentivo di essere un punto indicibilmente astratto, adimensionale; sentivo che in esso stava interiormente il tutto, in una maniera che non aveva nulla di spaziale. Fu il rovesciamento completo della ordinaria sensazione umana; non solo l’io non aveva più l’impressione di essere contenuto, comunque localizzato, nel corpo; non solo aveva acquistato la percezione della incorporeità del proprio corpo, ma sentiva il proprio corpo entro di sè, sentiva tutto sub specie interioritatis. Ben inteso, occorre qui cercare di assumere le parole: entro, interno, interiore, in una accezione ageometrica, semplicemente come parole atte, alla meglio, ad esprimere il senso del rovesciamento di posizione o di rapporto tra corpo e coscienza; ché, del resto, parlare di coscienza contenuta nel corpo è altrettanto assurdo ed improprio quanto parlare di corpo contenuto nella coscienza, data l’eterogeneità dei due termini del rapporto.
Fu un’impressione possente, travolgente, soverchiante, positiva, originale. Si affacciò spontanea, senza transizione, senza preavvisi, come un ladro di notte, sgusciando entro ed ingranandosi col consueto grossolano modo di sentire la realtà; affiorò rapidissima affermandosi e ristando nettamente, tanto da consentirmi di viverla intensamente e di renderne conto sicuro; e poi svanì, lasciandomi trasecolato. « Era una nota del poema eterno quel ch’io sentiva... »; e, nel rievocarla, sento aleggiare ancora, nell’intimo della coscienza, la sua ierativa solennità, la sua calma e silente possanza, la sua purezza stellare.
Questa fu la mia prima esperienza della immaterialità. Nell’esporla, ho cercato soltanto di rendere fedelmente la mia impressione, a costo anche di incorrere eventualmente nell’appunto di non essermi debitamente attenuto alle norme di una precisa terminologia filosofica. Posso anche riconoscere che la mia competenza filosofica non era e non è all’altezza di queste esperienze spirituali, e posso anche ammettere che, dal punto di vista degli studi filosofici, sarebbe desiderabile che di queste esperienze fossero fatti partecipi quelli, e quelli soltanto, che hanno grandi meriti filosofici; ma, espresso il rammarico, bisogna pur riconoscere che il punto di vista degli studi filosofici non è l’unico ammissibile, e che lo spirito soffia dove vuote, senza tenere speciale conto della capacità filosofica.
Nel caso specifico della mia esperienza personale, il trapasso avvenne indipendentemente da ogni speculazione scientifica o filosofica, da ogni lavorio cerebrale; e sono piuttosto propenso a ritenere che questa indipendenza non sia stata fortuita ed eccezionale. Non sembra invero che la speculazione razionale possa condurre più in là di una semplice astrazione concettuale, di carattere piú che altro negativo, ed incapace di suggerite o provocare l’esperienza diretta vissuta, la percezione della immaterialità.
Il modo consueto di vivere si impernia sopra il senso della realtà materiale, o, se si vuole, sopra il senso materiale della realtà. Esiste quel che resiste, il compatto, il massiccio, l’impenetrabile; le cose sono in quanto esistono, occupano posto, fuori del, ed anche entro il nostro corpo; esse sono, per così dire, tanto maggiormente reali quanto più solide, impenetrabili, inattaccabili. Il concetto empirico ed ordinario di materia, come di una res per sè stante che occupa posto, che si tocca e che offre resistenza al tatto, è una funzione della via corporea; le necessità della vita in un corpo solido, denso, pesante, abituato a poggiare sopra il terreno solido e stabile, generano l’abitudine ad identificare il senso della realtà con questo modo particolare umano di sentire la realtà, e fanno nascere la convinzione aprioristica che esso sia il solo possibile e che non ve ne siano e non ve ne possano essere altri.
Non pertanto è pur vero che questi caratteri tipici della realtà materiale vanno gradatamente attenuandosi e svanendo quando dalla materia solida si passa alla liquida, alla fluidica ed alla gassosa; e l’analisi scientifica porta, attraverso ai successivi stadi della disintegrazione molecolare ed atomica, ad una concezione della materia ben lontana da quel concetto empirico primitivo, che sembrava un dato così sicuro ed immediato dell’esperienza. Alla universale smaterializzazione dei corpi corrisponde necessariamente, passando dalla scienza alla filosofia, l’astrazione concettuale idealistica, la risoluzione del tutto nell’io; ma il riconoscimento concettuale della spiritualità universale non conduce alla conquista od all’acquisto effettivo della percezione della realtà spirituale, ed è possibile seguire una filosofia idealistica continuando ad essere ciechi spiritualmente tanto quanto il più crasso materialista; è possibile dirsi filosofi idealisti e credere di avere toccato la vetta dell’idealismo mediante la semplice e laboriosa conquista concettuale, pure escludendo o non pensando affatto alla possibilità di una percezione ex imo; è possibile confondere, e pensare che si debba confondere, ogni epifania spirituale con un semplice atto del pensiero.
Naturalmente con simili chiodi nella testa si può seguitare un pezzo ad arrampicarsi su per i peri dell’idealismo assoluto senza altro effetto che quello di stroncare qualche ramo sulla testa dei colleghi in ascensione. Veramente non vale la pena di guardare con tanto disdegno i vecchi filosofi positivisti, vittime povere si ma oneste di una semplicistica accettazione del criterio empirico della realtà materiale! Toglier a questo senso empirico materialistico della realtà il suo carattere di unicità, di positività e di insostituibilità, non significa invero togliergli ogni valore, ma soltanto definirne il valore. Esso seguita ad avere diritto di cittadinanza nell’universo, accanto ed insieme agli altri eventuali modi di sentire la realtà.
Raggiunta l’astrazione idealistica concettuale, non è dunque il caso d’intonare il peana della vittoria. E, per la esistenza e la entrata in campo del senso della realtà immateriale, non segue parimente, ben inteso, che si debba rovesciare la posizione, accordando al nuovo senso della realtà i privilegi dell’antico, esaltandolo a spese dell’altro. La verità dell’uno non porta la falsità dell’altro; l’esistenza dell’uno non esclude la coesistenza dell’altro. Illusorio ed arbitrario è credere che non vi sia, e non vi debba essere, che un solo modo di sentire la realtà; se il criterio empirico della realtà materiale si riduce fatalmente in ultima analisi ad una semplice illusione, ciò nonpertanto questa modalità di coscienza, che si impernia sopra un’illusione, esiste effettivamente; tanto che sopra questo senso poggia la vita di innumerevoli esseri, anche quando questo criterio venga superato concettualmente, anche quando venga superato spiritualmente, inghiottito dal sopraggiunto senso della immaterialità.
La mia esperienza, per quanto fugace, mi dette la dimostrazione pratica della possibile effettiva simultanea coesistenza delle due percezioni della realtà, la percezione spirituale pura e quella ordinaria corporea, per quanto contraddittorie all’occhio della ragione. E’ un’esperienza elementare di cui non è certamente il caso di inorgoglirsi; ma e pur sempre una esperienza fondamentale che ricorda quella di Arjúna nella Bbagavad-gitá e quella di Tat nel Pimandro; è pur sempre una prima percezione effettiva diretta di quello che i cabalisti chiamavano il santo palazzo interiore, ed il Filalete l’occulto palazzo del Re, ed anche di quello che Santa Teresa chiamava il castello interiore. Per quanto elementare, è una esperienza che inizia una vita nuova, doppia; il dragone ermetico mette le ali e diviene anfibio, capace di vivere in terra e di staccarsi da terra.
Ma perché mai, si dirà, di solito si è sordi a questa percezione, ed io stesso che scrivo non me ne ero accorto prima? Perché si dileguò? Ed a che serve? Non è forse meglio di non sospettare neppure l’esistenza di così perturbanti misteri? E perché non si insegna come si fa ad ottenere questa impressione? Ed è giusto che alcuni pochi ne siano partecipi e gli altri no?
Non è facile rispondere esaurientemente a queste ed alle altre domande che si possono porre in proposito. Quanto alla sordità spirituale, mi sembra che essa provenga o dipenda dal fatto che solitamente l’attenzione della coscienza è talmente fissata sul senso della realtà materiale, che ogni altra sensazione passa inavvertita. t dunque una questione di orecchio: il tema melodico svolto dai violini richiama di solito tutta l’attenzione ed il profondo accompagnamento dei violoncelli e del contrabbasso passa inavvertito. Forse, anche, è la monotonia di questa nota, bassa e profonda, che la sottrae alla percezione ordinaria; e io ricordo bene lo stupore provato, similmente, quando una volta, in montagna, sopra un gran prato fiorito, il ronzio sordo ed eguale prodotto da innumerevoli insetti mi percosse l’orecchio ad un tratto, come per caso, o meglio, solo ad un tratto e senza ragione apparente divenni cosciente di quel ronzio, certo preesistente alla mia improvvisa percezione.
La risposta, come si vede, non consiste che in una comparazione con fenomeni consimili, e probabilmente non appagherà i lettori. Così pure temo forte che alle altre domande non potrei dare risposte più soddisfacenti; e perciò porrò fine a questo scritto, cosa del resto che è ormai tempo di fare, non fosse che per discrezione.
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