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di Fabio Brotto
Qualche notizia su Simone Weil, per chi non la conosca. Nasce nel 1909, da famiglia ebrea, muore nel 1943. Come muore?
Lei muore a trentaquattro anni, di tisi, perché in Inghilterra, dove è attivamente impegnata nella lotta contro i nazisti, rifiuta di mangiare una razione giornaliera superiore a quella concessa da Hitler ai prigionieri nei campi di lavoro. Rifiuta il cibo che potrebbe salvarle la vita perché la sua identificazione con gli ultimi vuol essere totale.
Simone Weil diventa cristiana. Ha un’esperienza mistica di
Cristo: diretta, quindi, e sconvolgente. Ma non vorrà mai entrare ufficialmente
nella Chiesa cattolica. Si sente indegna dell’eucarestia. Accetterebbe il
battesimo solo se la dottrina della Chiesa ammettesse la presenza della
rivelazione di Cristo anche al di fuori della tradizione ebraico-cristiana, in
particolare nell’induismo e nella Grecia antica. Legge l’Iliade come
poema sacro, in cui si rivela Dio, così come si rivela in alcune tragedie di
Eschilo e Sofocle. Il suo è quindi un cristianesimo estremamente problematico,
anche a causa della natura sostanzialmente catara del suo concetto di
creazione.
Simone Weil è ebrea, ma vede nel popolo cui per origine
appartiene una razza di materialisti idolatri e violenti, lontani da Dio e da
ogni realtà spirituale proprio come i Romani. Pensa che tutto ciò che di buono e
santo si può trovare nella Bibbia provenga da fonte non ebraica (dall’Egitto,
dalla Persia, dall’India).
Come accostarsi a Simone Weil?
Un accostamento al suo pensiero che fosse di tipo puramente accademico sarebbe, secondo quanto mi sembra vero, non in simpatia con quello stesso pensiero, e quel pensiero si chiuderebbe alla comprensione. Dare ascolto a Simone Weil significa anzitutto lasciarsi alle spalle molte cose, e in particolare ogni separazione tra il piano della conoscenza e il piano della vita, secondo la permanente richiesta di ogni modello conoscitivo che si costituisca come forma di vera sapienza. Dare ascolto a Simone Weil significa poi accettare la sfida di un’estrema dislocazione delle proprie categorie concettuali, qualora si sia cresciuti nello spirito dell’Occidente, e massime nella tradizione ebraico-cristiana. Dare ascolto a Simone Weil si può solo se si è disposti a farsi mettere in questione da un ciò che è dietro le parole tanto aggressivo e potente quanto si ammanta di umiltà e di aspirazione alla chenosi. In ultimo, la natura fondamentalmente esoterica della ricerca di Simone Weil potrebbe rendere anche del tutto inutile, se assunta come tale, la lettura dei molti saggi che su di lei sono stati scritti, che potrebbero risultare per lo più viziati da preconcetti di ogni tipo; e potrebbe rendere inutile pertanto anche la lettura di queste note.
Che cos’è, infatti, la verità? Il quesito radicale di Ponzio Pilato deve restare senza una risposta teorica. La domanda di Pilato a Cristo, il quale non dice nulla, è la domanda cui Simone Weil dà la seguente risposta che, secondo quanto mi sembra vero, informa tutta la sua opera, o almeno la parte finale di essa, quella più matura, e la rende per ciò stesso estremamente problematica: Casi frequenti in cui affermando una verità su un certo piano, la si distrugge. Nel momento in cui la si dice (ovvero la si dice su un certo piano) non è più vera. Essa è vera solamente dietro (o al di sopra di) l’affermazione contraria. Non è dunque percepibile che agli spiriti capaci di cogliere simultaneamente diversi piani sovrapposti di idee. Essa è incomunicabile nel senso che il linguaggio è a una o al massimo a due dimensioni (a due se è scritto, ma la pagina è un limite). Questa è la ragion d’essere dell’esoterismo. Euridice. Verità che sono false appena le si guarda [Quaderni, Adelphi, Milano 1982, p.312]. E’ la profonda e stabile coscienza di questa natura della verità che conferisce a Simone Weil uno sguardo penetrante che svela l’infondatezza degli idoli del nostro secolo, e una straordinaria libertà spirituale rispetto ad ogni fascinazione ideologica. Io ritengo che valga la pena di mettersi alla scuola di questa libertà.
Tutta la nostra civiltà sta sotto il segno di Niobe: è
convinta che numero e quantità siano la cosa più importante. Ma la verità
illumina l’anima in ragione della sua purezza. La quantità non c’entra. Per
questo la modernità è nell’errore. Simone Weil pensa che essa da un lato
cancelli tutte le differenze, creando un pensiero unico, e che questo,
d’altra parte, per la sua pretesa di essere collettivo, sia un non-pensiero
["Poiché il pensiero collettivo non può esistere come pensiero, esso passa nelle
cose (segni, macchine…). Ne consegue questo paradosso: la cosa pensa, e l’uomo è
ridotto allo stato di cosa" – Quaderni, cit., p.139].
Il Novecento è in balìa della dismisura. L’ipertrofia
dell’io e del noi si rovescia in assoluto nichilismo. Adorazione dell’anima
collettiva che si sostituisce a Dio: fenomeno antico, che nel nostro secolo
si presenta in forme nuove. Idolatria della scienza: scienza come figura della
forza. La forza degrada lo spirito, come è rivelato nell’Iliade di Omero.
La lettura illuminata dell’antico opera la demistificazione del moderno e della
sua hybris. La dismisura imperante produce un orribile vuoto morale che
rende l’uomo disponibile a qualunque impresa, e l’incapacità del moderno di
concepire il bello.
Simone Weil, grecamente, fonde in uno il bello e l’etico,
operando una critica decisa della moderna separazione, che è iniziata nel
secondo Rinascimento, quando all’ispirazione greca si è sostituita quella
romana.
Simone Weil legge la sapienza greca, quella indù e la
cristiana, ed esse sono per lei un’unica e sola sapienza, fondata su di una
metafisica che è eterna ed immutabile. Trascura invece sostanzialmente le fonti
sapienziali islamiche e, cosa sorprendente, ebraiche (con rare e poco rilevanti
eccezioni). Perché? La risposta è che l’Islam appare ai suoi occhi bacato, come
Israele, dalla tendenza all’adorazione di se stesso, e della forza. Il Dio della
Bibbia ebraica—quello dei libri storici soprattutto—e quello del Corano le
paiono essere essenzialmente delle rappresentazioni dell’anima collettiva dei
due popoli ebreo e arabo, e quindi degli idoli. Se vi è una costante nel
pensiero weiliano, questa è data dalla convinzione che nel mondo si dia il regno
della forza, e che la lotta contro la forza sia cosa difficilissima e attuabile
solo in virtù di un’ispirazione soprannaturale, che nel suo linguaggio
coincide totalmente (anche il termine grazia è usato da lei in
un’accezione esterna alla tradizione cristiana, e vicina al modo in cui Plotino
intende il ridondare della pienezza dell’Uno) con la conoscenza metafisica.
Solo chi sia ripieno di spirito santo come il Cristo nel deserto può rifiutare
la tentazione di impadronirsi della forza, cioè dei regni di questo mondo, che
vengono offerti da colui che ne è il principe. E’ chiaro pertanto che regni di
Israele e ordinamenti politico-religiosi di qualsiasi tipo ricadono entro
categorie sostanzialmente sataniche.
Il pensiero di Simone Weil è per essenza dualistico, e in
questo senso fortemente debitore ad un’ispirazione catara. Il polo
negativo è dato da Israele e Roma, adoratori della forza e atei [Quaderni,
cit., p.123], da cui discende tutto il negativo della storia, in quanto hanno
portato alla coerenza e al pieno sviluppo una originaria tendenza al male che è
insita nella creazione. La concezione secondo la quale lo stesso ordinamento del
mondo è per sé malvagio non conduce però Simone Weil ad una prospettiva
di non-azione, ma ad un tipo di agire cosciente della propria appartenenza ad un
regno che è così cattivo da rendere divina solo la decreazione. Questo
agire è in lei la forma suprema del distacco. Qui si inserisce
l’accostamento di Simone Weil ai testi della tradizione sanscrita (mediata, come
è noto, inizialmente da R. Daumal), in particolare alle Upanishad, e con
particolare intensità al Bhagavad Gîtā. Ciò che caratterizza l’approccio
weiliano è la continua e strenua mediazione tra i concetti, o meglio le
illuminazioni, che le si danno da quei testi e ciò che le appare come lo
spirito della Grecia. Secondo quanto mi sembra vero, tre sono i testi
fondamentali per l’articolazione del pensiero weiliano, che ha il suo cardine
nell’idea di metaxú, cioè di tramite: l’Iliade, il Gîtā e
il Vangelo. Essi sono posti continuamente sotto interrogazione, in modo
che l’uno integri gli altri. Tuttavia l’ordinamento del mondo non è in sé
soltanto malvagio, come il pensiero weiliano non è puramente cataro.
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