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Testo di Ettore Panizon
Accade a volte di leggere o ascoltare insegnamenti riguardo al diritto che avremmo ricevuto in Cristo di ottenere ricchezze e prosperità anche quaggiù sulla terra. Secondo questi insegnamenti, essendo diventati figli di Colui al quale appartengono tutte le cose, non dovremmo rassegnarci più a vivere come persone di modeste condizioni, perché una tale vita sarebbe segno di una fede incerta e di un rapporto ipocrita con il Padre celeste, ma dovremmo piuttosto esercitare il nostro diritto di figli ed ereditare le benedizioni materiali preparate per noi già su questa terra. Chi è povero o malato dovrebbe ravvedersi, e chiedere perdono per la sua poca fede. Per essere buoni cristiani bisognerebbe quindi essere il più possibile attivi e produttivi, occupare sempre i primi posti nella società e suscitare così negli altri il desiderio di diventare come noi.
È vero: Abrahamo, Isacco e Giacobbe sono stati uomini molto ricchi. Dio li ha benedetti anche visibilmente e hanno avuto grande abbondanza di beni materiali. Anche Davide “morì in prospera vecchiaia, sazio di giorni, di ricchezze e di gloria” (1Cronache 29:28). Per non parlare di suo figlio Salomone, che fu il più grande di tutti i re della terra non solo per saggezza ma anche per le sue ricchezze (1Re 10:23 e 2Cronache 9:22). Ma avevano essi forse cercato le ricchezze e la prosperità materiale? O non, piuttosto, in primo luogo “il regno di Dio e la sua giustizia”, ottenendo poi anche quello che non avevano chiesto? (cf. in particolare 2Cronache 1:11).
Anche Giobbe era molto ricco, ma dopo aver perso tutti i suoi molti averi, adorò il Signore e disse: “nudo sono uscito dal grembo di mia madre e nudo tornerò in grembo alla terra; il Signore ha dato, il Signore ha tolto; sia benedetto il nome del Signore”. (Giobbe 1:21). Queste parole riecheggiano in quelle di Paolo a Timoteo: “La pietà, con animo contento del proprio stato, è un grande guadagno. Infatti non abbiamo portato nulla nel mondo, e neppure possiamo portarne via nulla; (…) l’amore del denaro è radice di ogni specie di mali; e alcuni che vi si sono dati, si sono sviati dalla fede e si sono procurati molti dolori.” (1Timoteo 6:6-7 e 10).
Le ricchezze materiali non sono certo un male in sé, ma il desiderio delle ricchezze è certamente un desiderio sbagliato, perché, in sé, le ricchezze, non sono nemmeno un bene e se le consideriamo un bene in sé, automaticamente le trasformiamo in un male, dato che ci mettiamo il nostro cuore facendone il nostro tesoro e diventando così paurosi e vulnerabili, perché ci siamo fatti un te-soro in terra dove le cose si consumano e possono venire rubate (Matteo 6:19-21 e Luca 12:33-34).
Il benessere e le ricchezze terrene, in sé, non sono né bene, né male. Lo diventano a seconda di come le vediamo e di come le viviamo. Possono essere uno strumento di consolazione e una ragione di ringraziamento e di lode, ma possono anche diventare un padrone duro, che regna su di noi invece di Dio. Gesù ci avverte dicendoci chiaramente: “voi non potete servire Dio e Mammona” (Mat-teo 6:24 e Luca 16:13; Mammona significa appunto “gruzzolo”, “ricchezza”).
Effettivamente, il vangelo del regno di Dio è predicato ai poveri (Matteo 11:5 e Luca 7:22). Per questo il Signore ha detto: “Beati i poveri in spirito, perché di loro è il regno dei cieli” (Matteo 5:3). Anche Abrahamo e Giobbe erano poveri, in spirito. Perché non confidavano nelle ricchezze, ma in Dio, loro redentore. E per questo avevano vita e coraggio. Difatti, mentre l’empio si innalza pieno d’orgoglio e cade, “il giusto vivrà per la sua fede” (Abacuc 2:4). Così, è anche scritto: “l’empio fugge senza che nessuno lo perseguiti, ma il giusto se ne sta sicuro come un leone.” (Proverbi 28:1), perché chi confida nelle ricchezze, teme di perderle; mentre chi sa di non avere nulla in questa terra (e di non avere quindi nulla da perdere), può avere il coraggio di mettere a rischio anche quello che possiede pur di essere fedele al Signore Gesù e poter entrare nel regno dei cieli (di questo prendano atto principalmente i ministri).
Come per controbilanciare la nostra naturale tendenza a desiderare il benessere materiale, l’influenza sociale e le comodità, e a dare perciò un valore sproporzionato ai soldi con cui li si può acquistare (il pensiero, cioè, che “quanti più soldi abbiamo, tanto meglio per noi”), due insegna-menti contenuti nei Vangeli mettono in luce il rischio che in verità si corre ad avere molti beni e, ri-spettivamente, il vantaggio di averne pochi.
Il primo di questi insegnamenti è contenuto nelle parole che Gesù disse ai suoi discepoli dopo che se ne fu andato quel ricco a cui aveva detto “Va’, vendi tutto ciò che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi” (Marco 10:21). Quel ricco se ne era andato tutto rattristato perché aveva molti beni e darli via tutti era un'impresa superiore alle sue forze. Allora Gesù aveva detto: “quanto è difficile per quelli che confidano nelle ricchezze entrare nel regno di Dio!” (Marco 10:24)
L'esempio opposto è quello della povera vedova che aveva dato in offerta tutti i pochi spiccioli che possedeva (Marco 12:42 e Luca 21:2). Per lei quei due spiccioli erano tutto quello che aveva, ma siccome agli occhi umani quel “tutto” era poca cosa, era riuscita a darlo volentieri e dandolo aveva offerto di più, agli occhi di Dio, di quello che con i loro ricchi doni avevano offerto i più ricchi di Israele che avevano dato del loro superfluo.
In conclusione, la domanda è: se avendo di più riusciamo a dare di meno (davanti a Dio, che non considera quanto diamo, ma piuttosto quanto tratteniamo per noi), ci conviene davvero affaticarci tanto per potere guadagnare e offrire di più? Non facciamo piuttosto meglio a liberarci da tutto ciò che rischia di diventare causa di affanno e di preoccupazione e scegliere, come Maria di Betania, la parte buona che non ci sarà tolta e che consiste in quel tesoro celeste e quella fonte di benedizione spirituale che è la comunione con il nostro Signore Gesù?
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