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Da "Il Regno della Quantità e i segni del Tempo" di Guenon
Cap. 8, Mestieri antichi e industria moderna
L’opposizione esistente tra i mestieri antichi e l’industria moderna è, in fondo, un caso particolare e come un’applicazione dell’opposizione fra i due punti di vista qualitativo e quantitativo,
rispettivamente predominanti negli uni e nell’altra.
Per gli antichi l’artifex è, indifferentemente, l’uomo che esercita un’arte o un mestiere; ma, in realtà, non è né l’artista né l’artigiano nel significato odierno di queste parole (per di più la parola «artigiano» tende sempre più a sparire dal linguaggio contemporaneo); è qualcosa di più dell’uno e dell’altro, perché, almeno originariamente, la sua attività è ricollegata a princìpi di un ordine ben più profondo. Se quindi i mestieri comprendevano in qualche modo anche le arti propriamente dette, le quali non se ne distinguevano per alcun carattere essenziale, è che la loro natura era veramente qualitativa, identica cioè a quella da tutti riconosciuta all’arte in qualche modo per definizione; soltanto che, appunto per questa ragione, i moderni relegano l’arte, nella concezione sminuita che ne hanno, in una specie di àmbito chiuso, senza alcun rapporto con il resto dell’attività umana, cioè con tutto quanto essi pensano sia il «reale» nel senso grossolano che ha per loro questo termine; e arrivano perfino a qualificare «attività di lusso» quest’arte, così sfrondata d’ogni portata pratica, espressione veramente caratteristica di quella che, senza esagerazione alcuna, si potrebbe chiamare la «scempiaggine» della nostra epoca.
La nozione di swadharma com’è intesa nella dottrina indù, nozione essa stessa tutta qualitativa, in quanto riguarda lo svolgimento da parte di ciascun essere di un’attività conforme alla sua essenza o alla sua natura propria, e per ciò stesso eminentemente conforme all’«ordine» (rita)... Nella concezione tradizionale, al contrario, ciascuno deve normalmente svolgere la funzione cui è destinato dalla sua stessa natura, con le attitudini che questa essenzialmente implica [Si noti che lo stesso termine «mestiere» significa propriamente «funzione» secondo la sua derivazione etimologica dal latino ministerium]; e non può svolgerne un’altra, senza che ciò rappresenti un grave disordine che avrà una ripercussione su tutta l’organizzazione sociale di cui egli fa parte; peggio ancora, se un disordine del genere viene a generalizzarsi, i suoi effetti si ripercuoteranno sullo stesso ambiente cosmico, tutte le cose essendo legate tra loro da rigorose corrispondenze.. in tal senso sono le qualità essenziali degli esseri a determinare la loro attività; nella concezione profana, invece, queste qualità non contano, e gli individui non sono considerati altro che come «unità» intercambiabili e puramente numeriche. Quest’ultima concezione non può logicamente condurre a nient’altro che all’esercizio di un’attività prettamente «meccanica», nella quale non sussiste più niente di veramente umano, come effettivamente possiamo constatare ai giorni nostri; va da sé che i mestieri «meccanici» dei moderni , che altro non sono se non un prodotto della deviazione profana, non possono, offrire alcuna possibilità d’ordine iniziatico ed anzi possono rappresentare dei veri impedimenti allo sviluppo di ogni spiritualità; per la verità, del resto, non possono nemmeno essere considerati come autentici mestieri se si vuol conservare a questo termine il suo valore in senso tradizionale.
Se il mestiere è qualcosa dell’uomo stesso, come una manifestazione o un’espansione della sua natura propria, è comprensibile che possa servire di base ad una iniziazione, ed anche che, nella generalità dei casi, sia ciò che vi è di più adatto a questo scopo... quanto è semplicemente «appreso» dall’esterno è qui senza alcun valore, quale che sia la quantità delle nozioni a questo modo accumulate (perché anche in ciò appare nettamente il carattere quantitativo del «sapere» profano); quello che conta è di «risvegliare» le possibilità latenti che l’essere porta in se stesso (ed è questo in fondo il vero significato della «reminiscenza» platonica)... L’essere, in effetti, avendo pienamente realizzato le possibilità di cui la sua attività professionale non è che una espressione esteriore, e possedendo così la conoscenza effettiva di quel che è il principio stesso di questa attività, effettuerà da quel momento coscientemente quanto non era prima che una conseguenza del tutto «istintiva» della sua natura; e pertanto, se la conoscenza iniziatica è nata per lui dal mestiere, questo, a sua volta, diventerà il campo di applicazione di tale conoscenza, e quindi non potrà più esserne separato. Ci sarà allora corrispondenza perfetta tra interno ed esterno, e l’opera prodotta potrà essere non più soltanto un modo qualsiasi d’espressione ad un livello più o meno superficiale, ma l’espressione realmente adeguata di colui che l’avrà concepita ed eseguita, il che costituirà il «capolavoro» nel vero senso della parola.
Non è difficile vedere, in tutto ciò, come il vero mestiere sia distante dall’industria moderna, tanto che si può dire si tratti di due opposti, e quanto sia disgraziatamente vero, nel «regno della quantità», che il mestiere, come volentieri affermano i fautori del «progresso» che naturalmente se ne rallegrano, sia «una cosa del passato».
Nel lavoro industriale l’operaio non mette niente di se stesso, e d’altronde si avrebbe buona cura di impedirglielo qualora ne avesse la minima velleità; ma ciò non è neanche possibile, poiché tutta la sua attività consiste nel far funzionare una macchina; egli, del resto, è reso perfettamente privo di iniziativa dalla «formazione», o meglio deformazione professionale ricevuta, la quale è come l’antitesi dell’antico apprendistato, e che ha per unico scopo quello di insegnargli ad eseguire certi movimenti «meccanicamente» e sempre allo stesso modo, senza assolutamente che debba capirne la ragione né preoccuparsi del risultato, in quanto in realtà non è lui, bensì la macchina, a fabbricare l’oggetto; servitore della macchina, l’uomo deve divenire macchina egli stesso, e il suo lavoro non ha più niente di veramente umano, perché non implica più l’intervento di nessuna di quelle qualità che costituiscono propriamente la natura umana
Tutto ciò conduce a quanto, nel gergo attuale, si è convenuto di chiamare la fabbricazione «in serie», il cui scopo è quello di produrre la maggior quantità possibile di oggetti, oggetti simili al massimo tra loro, e destinati all’uso di uomini che si considerano tutti ugualmente simili; si tratta con tutta evidenza, come dicevamo prima, del trionfo della quantità, nonché, per la stessa ragione, di quello dell’uniformità. Questi uomini, ridotti a semplici «unità» numeriche, si vuole farli abitare, non diremo in case, perché questo termine sarebbe improprio, ma in «alveari» i cui scompartimenti saranno tutti disegnati sullo stesso modello ed ammobiliati con gli oggetti fabbricati «in serie», in modo da far sparire dall’ambiente in cui vivranno ogni differenza qualitativa; basta prendere in esame i progetti di certi architetti contemporanei (che qualificano essi stessi queste dimore come «macchine per abitare») per vedere che non esageriamo per niente; che cosa sono diventate a questo punto l’arte e la scienza tradizionali degli antichi costruttori, e le regole rituali che presiedevano alla fondazione delle città e degli edifici nelle civiltà normali? Sarebbe inutile insistere ulteriormente, perché bisognerebbe essere ciechi per non rendersi conto dell’abisso che separa queste ultime dalla civiltà moderna, e tutti si accorgeranno senza dubbio di quanto grande sia il divario; soltanto, proprio ciò che l’immensa maggioranza degli individui attuali celebra come un «progresso» ci appare al contrario come una decadenza profonda, perché manifestamente non si tratta che degli effetti di quel movimento di caduta, sempre più accelerato, che conduce l’umanità moderna verso i «bassifondi» ove regna la quantità pura.
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