Riporto due testi di Seneca: il primo è tratto dal "De brevitate vitae" e il secondo è una lettere di Seneca, indirizzata a Lucilio:
(1)
Come sono gli altri per Seneca? Alcuni sono irrecuperabili, ma i restanti sono visti dal filosofo come una categoria immersa nell'errore, soprattutto per la loro incapacità di valutare la propria situazione. La maggior parte degli uomini sono occupati, travolti da un'iperattività che spesso non è stata neppure scelta, ma viene colpevolmente subita. L'esistenza di questi uomini è tutta impegnata in una serie di attività per lo più futili, che vengono svolte con cura maniacale. Ma l'occupatus è colpevole perchè vive senza la consapevolezza del proprio esistere: è nella vita, ma non la vive, lasciando che le occupazioni invadano a poco a poco, come un esercito straniero, il territorio riservato alla bona mens, alla vita dello spirito. Così, senza avvedersene, questi uomini si ritrovano alla fine occupati: non "impeganti in attività", ma privati della propria autonomia e costretti a una ripetitività di azioni inutili e vane. Ne deriva in primo luogo una profonda agitazione, che non permette mai uno sguardo alla cura di sé e alle esigenze del proprio io, l'agitazione di chi è sempre in ritardo rispetto alle incombenze che si è autoimposto e che lo tiranneggiano; ma soprattutto questo tipo di umanità è afflitto da una "fame di tempo", perchè il tempo impiegato in tante attività è sempre insufficiente.
(2)
Fai proprio una cosa buona e a te salutare se, come scrivi, continui ad avanzare verso la saggezza: è insensato chiederla a dio, visto che puoi ottenerla da te. Non occorre alzare le mani al cielo o scongiurare il sacrestano che ci lasci avvicinare alle orecchie della statua, quasi potessimo trovare più ascolto: Dio è vicino a te, è con te, è dentro di te.
Secondo me, Lucilio, c'è in noi uno spirito sacro, che osserva e sorveglia le nostre azioni, buone e cattive; a seconda di come noi lo trattiamo, lui stesso ci tratta. Nessun uomo è virtuoso senza dio: oppure qualcuno può ergersi al di sopra della sorte senza il suo aiuto? Egli ci ispira principi nobili ed elevati. In ogni uomo virtuoso abita un dio (quale non si sa).
Se ti troverai davanti a un bosco folto di alberi secolari, di altezza insolita, dove la densità dei rami, che si coprono l'un l'altro, impedisce la vista del cielo, l'altezza di quella selva, la solitudine del luogo e lo stupore che desta un'ombra tanto densa e ininterrotta in uno spazio aperto, ti persuaderà che lì c'è un dio. Se una grotta, creata non dalla mano dell'uomo, ma scavata in tanta ampiezza da fenomeni naturali, sostiene su rocce profondamente corrose un monte, un sentimento di religioso timore colpirà il tuo animo. Noi veneriamo le sorgenti dei grandi fiumi; vengono innalzati altari là dove d'improvviso scaturisce dal sottosuolo una copiosa corrente; onoriamo le fonti di acque termali, e il colore opaco o la smisurata profondità hanno reso sacri certi laghi.
Se vedrai un uomo impavido di fronte ai pericoli, libero da passioni, felice nelle avversità, tranquillo in mezzo alle tempeste, che guarda gli altri uomini dall'alto e gli dèi alla pari, non ti pervaderà un senso di rispetto per lui? Non dirai: "C'è un qualcosa di troppo grande ed eccelso perché possa ritenersi simile al povero corpo in cui si trova"?
Una forza divina è discesa in lui; una potenza celeste stimola questo spirito straordinario, moderato, che passa oltre ogni cosa considerandola di poco conto, che se la ride dei nostri timori e desideri. Non può un essere così grande restare saldo senza l'aiuto divino; perciò la parte maggiore di lui è là da dove è disceso. Come i raggi del sole raggiungono la terra, ma non si staccano dal loro punto di partenza, così l'anima grande e santa, mandata quaggiù per farci conoscere meglio il divino, sta insieme a noi, ma rimane unita alla sua origine; dipende da essa, a essa guarda e aspira e sta in mezzo a noi come un essere superiore.
Qual è, dunque, quest'anima? È l'anima che brilla solo del suo bene. Cosa c'è, infatti, di più insensato che lodare in un uomo beni che non gli appartengono? Chi è più pazzo di uno che apprezza beni che possono sempre passare a un altro? Le briglie d'oro non rendono migliore un cavallo. Un leone dalla criniera dorata, ammansito e costretto, ormai stanco, a sopportare le bardature, si slancia in maniera diversa dal leone selvaggio, nel suo pieno vigore: naturalmente quest'ultimo, violento nella sua furia, quale lo volle la natura, splendido per l'aspetto feroce, la cui bellezza consiste nell'essere guardato con terrore, è preferito a quello fiacco e coperto d'oro.
Ognuno si deve gloriare solo di quello che gli appartiene. Lodiamo una vite se i tralci sono carichi di frutti, se la pianta sotto il loro peso abbatte i sostegni: forse qualcuno potrebbe preferire una vite cui fossero appesi grappoli e foglie d'oro? La virtù propria della vite è la fertilità; anche nell'uomo bisogna lodare quello che gli è proprio. Ha begli schiavi, una magnifica casa, vasti terreni seminati, cospicui redditi da usura; nessuno di questi beni è in lui, ma intorno a lui.
Nell'uomo devi lodare quello che non può essergli tolto o essergli dato, quello che gli è proprio. Chiedi cos'è? L'anima e nell'anima una ragione perfetta. L'uomo è un animale dotato di ragione: il suo bene lo attua appieno, se adempie al fine per cui è nato. Che cosa esige da lui questa ragione? Una cosa facilissima: che viva secondo la natura che gli è propria. Ma la follia comune la rende una cosa difficile: ci trasciniamo l'un l'altro nei vizi. E come si può ricondurre alla salvezza gente che nessuno trattiene e che è spinta dalla massa? Stammi bene.
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