Introduzione
Dieci anni fa ebbi la fortuna di incontrare un indiano Yaqui del Messico nord-occidentale, che chiamo «don Juan». In spagnolo don è un appellativo usato per indicare rispetto. Lo conobbi nelle circostanze più fortuite. Stavo seduto con Bill, un mio amico, in una stazione di autobus in una città di confine in Arizona, ed eravamo molto silenziosi. Era tardo pomeriggio e il caldo estivo sembrava insopportabile. A un tratto Bill si chinò in avanti e mi diede un colpetto sulla spalla.
«C’è il tizio di cui ti ho parlato» disse a voce bassa.
Indicò l’ingresso con un cenno del capo: un uomo anziano era appena entrato.
«Cosa mi hai detto sul suo conto?» chiesi.
«E l’indiano che si intende di peyote. Ricordi?»
Mi ricordai che Bill e io una volta avevamo guidato tutto il giorno cercando, senza trovarla, la casa di uno «strano» indiano messicano che viveva in quella zona, e avevo avuto la sensazione che gli indiani, ai quali avevamo chiesto indicazioni, ci avessero sviato deliberatamente. Bill mi aveva detto che l’uomo era uno «yerbero», una persona che raccoglie e vende erbe medicinali, e che era un esperto del cactus allucinogeno, il peyote. Aveva anche aggiunto che per me sarebbe valsa la pena di incontrarlo. Bill era la mia guida nel Sud-ovest mentre raccoglievo informazioni e campioni di piante medicinali usate dagli indiani del luogo.
Il mio amico si alzò e andò a salutare l’uomo. L’indiano era di statura media, aveva i capelli bianchi e corti, che coprivano leggermente le orecchie accentuando la rotondità del capo, una carnagione molto scura e, anche se il volto era scavato da rughe profonde che rivelavano l’età, sembrava vigoroso e in buona salute. Lo osservai per un momento: si muoveva con un’agilità che avrei pensato impossibile per un uomo anziano.
Bill mi fece segno di raggiungerli.
«È una brava persona,» affermò «ma non riesco a capirlo. Il suo spagnolo è bizzarro, farcito di espressioni colloquiali rurali, presumo.»
Il vecchio lo guardò e sorrise, e Bill, che conosceva solo poche parole di spagnolo, formulò una frase assurda in quella lingua. Mi fissò come per chiedermi se stesse rendendo il senso, ma non sapevo cosa avesse pensato; allora sorrise con timidezza e se ne andò. Il vecchio mi guardò e cominciò a ridere. Gli spiegai che il mio amico qualche volta si dimenticava di non sapere lo spagnolo.
«Penso che si sia anche dimenticato di presentarci» continuai, e gli dissi il mio nome.
«E io sono don Juan Matus al tuo servizio» rispose.
Ci stringemmo la mano e rimanemmo zitti per un po’. Ruppi il silenzio parlandogli dello scopo della mia impresa: gli spiegai che stavo cercando qualsiasi genere di informazione sulle piante, in particolare sul peyote.
Parlai in modo compulsivo per un bel po’ e, sebbene ignorassi quasi del tutto la materia, affermai di essere un esperto di peyote, perché pensavo che, se mi fossi vantato della mia conoscenza, avrei suscitato il suo interesse a parlare con me. Ma non fece nessun commento. Mi ascoltò con pazienza, poi chinò piano il capo e mi scrutò: i suoi occhi sembravano brillare di una luce propria. Evitai il suo sguardo. Mi sentivo imbarazzato ed ero certo che in quel momento sapesse che stavo dicendo delle sciocchezze.
«Vieni a casa mia una volta o l’altra,» affermò alla fine, allontanando il suo sguardo da me «forse là potremmo parlare con più tranquillità.»
Non sapevo cos’altro aggiungere e mi sentivo a disagio. Dopo un po’ Bill ritornò nella stanza, si accorse del mio stato d’animo e non disse una parola. Restammo seduti in silenzio assoluto per alcuni minuti, poi il vecchio si alzò e ci salutò: il suo autobus era arrivato.
«Non è andata molto bene, vero?» chiese Bill.
«No.»
«Gli hai chiesto delle piante?»
«Sì, ma credo di aver preso un granchio.»
«Te l’avevo detto, è un tipo molto strano. Gli indiani della zona lo conoscono, eppure non lo nominano mai, e questo vuol dire qualcosa.»
«Ha detto che posso andare a trovarlo, comunque.»
«Ti stava dicendo delle stronzate. Certo, puoi andare a casa sua, ma cosa significa? Non ti rivelerà mai niente. Anche se gli chiederai qualcosa, lui non fiaterà, come se tu fossi un idiota che dice sciocchezze.»
Bill dichiarò in modo convincente che aveva già incontrato gente come lui, persone che davano l’impressione di sapere moltissimo e di cui, a suo parere, non valeva la pena di preoccuparsi, perché prima o poi si poteva ottenere la stessa informazione da qualcun altro che non faceva il difficile. Disse che non aveva né il tempo né la pazienza per vecchi matusa, e che era possibile che l’uomo anziano volesse solo presentarsi come un conoscitore di erbe, quando in realtà sapeva poco quanto il primo venuto.
Bill proseguiva il suo discorso, ma io non lo stavo ascoltando: la mia mente continuava a fantasticare sul vecchio indiano. Sapeva che avevo bluffato. Ricordavo i suoi occhi, avevano scintillato veramente.
Ritornai a fargli visita un paio di mesi dopo, non tanto in veste di studente di antropologia interessato alle piante medicinali, quanto piuttosto come una persona mossa da una curiosità impiegabile. Il modo in cui mi aveva guardato era un evento senza precedenti nella mia vita e volevo sapere cosa significasse quello sguardo; era diventata quasi un’ossessione per me. Lo ponderavo, e più ci pensavo, più mi sembrava strano.
Diventai amico di don Juan e per un anno gli feci innumerevoli visite. Trovavo il suo modo di fare molto rassicurante e il suo senso dell’umorismo superbo, ma soprattutto sentivo nelle sue azioni una risolutezza silenziosa, che per me era del tutto sconcertante. In sua presenza provavo un piacere insolito e, allo stesso tempo, sperimentavo un disagio strano. La sua sola compagnia mi obbligava a rivalutare in maniera radicale i miei modelli di comportamento: ero stato educato, forse come tutti, ad accettare con facilità che l’uomo fosse una creatura essenzialmente debole e fallibile, e ciò che mi colpiva di don Juan era il fatto che non si preoccupava per nulla di essere fragile e bisognoso di aiuto. Già il solo fatto di stargli vicino comportava un confronto svantaggioso tra il suo modo di comportarsi e il mio. Forse una delle affermazioni più impressionanti che mi rivolse in quel periodo riguardava la nostra diversità intrinseca. Prima di una delle mie visite, mi ero sentito davvero infelice pensando al mio intero percorso di vita e a un certo numero di pressanti conflitti personali che mi portavo dietro. Arrivai a casa sua di pessimo umore e nervoso.
Stavamo parlando del mio interesse per il sapere ma, come al solito, viaggiavamo su due binari diversi: io mi riferivo a quello accademico che tralascia l’esperienza, mentre lui stava parlando della conoscenza diretta del mondo.
«Sai qualcosa del mondo che ti circonda?» domandò.
«Conosco ogni genere di cose» risposi.
«Intendo dire se senti mai il mondo che ti circonda.»
«Sento tutto quello che posso.»
«Non è abbastanza. Devi sentire ogni cosa, altrimenti il mondo perde il suo senso.»
Intonai il classico argomento che non era necessario assaggiare la zuppa per sapere la ricetta, né prendere la scossa per conoscere l’elettricità.
«Lo fai sembrare stupido» disse. «Per come la vedo io, vuoi aggrapparti alle tue argomentazioni, malgrado non ti portino a nulla; non vuoi cambiare persino a prezzo del tuo benessere.»
«Non so di cosa tu stia parlando.»
«Sto parlando del fatto che non sei completo. Non hai pace.»
Quell’affermazione mi infastidì: mi sentivo offeso e pensai che non potesse arrogarsi il diritto di pronunciare ima sentenza sulle mie azioni o sulla mia personalità.
«Sei tormentato dai problemi. Perché?» domandò.
«Sono solo un uomo, don Juan» replicai con stizza.
Diedi questa risposta nello stesso modo in cui mio padre era solito fare: ogni volta che diceva di essere solo un uomo intendeva implicitamente affermare che era debole e bisognoso di aiuto, e la sua dichiarazione, come la mia, era colma di un senso ultimo di disperazione.
Don Juan mi scrutò come aveva fatto il primo giorno che ci incontrammo.
«Pensi troppo a te stesso» dichiarò, e sorrise. «E questo ti spossa con una stanchezza strana che ti esclude dal mondo circostante e ti fa aggrappare alle tue argomentazioni. Perciò tutto quello che hai sono preoccupazioni. Anch’io sono solo un uomo, ma non nel modo che intendi tu.»
«In che modo?»
«Ho sconfitto i miei problemi. Il mio unico rimpianto è che la mia vita è così breve che non mi consente di afferrare tutto quello che vorrei. Ma questo è solo un inconveniente, non un problema.»
Mi piacque il suo tono, privo di disperazione e di autocommiserazione.
Nel 1961, un anno dopo il nostro primo incontro, don Juan mi rivelò che possedeva una conoscenza segreta delle piante medicinali. Mi disse di essere un «brujo». Il termine spagnolo brujo può essere tradotto con le parole «stregone, uomo di medicina, guaritore». Da quel momento la nostra relazione cambiò; divenni il suo apprendista e per i quattro anni successivi si sforzò di insegnarmi i misteri della stregoneria. Ho narrato il mio apprendistato nel libro Gli insegnamenti di don Juan.
Parlavamo in spagnolo, e grazie alla superba padronanza che don Juan aveva di quella lingua ottenni spiegazionidettagliate sugli intricati significati del suo sistema di credenze. Mi sono riferito a quel sistema cognitivo complesso e ben strutturato con il termine «stregoneria» e ho chiamato lui «stregone» perché quelle erano le categorie che lui stesso usava nelle conversazioni informali. Nel contesto di spiegazioni più serie, comunque, avrebbe usato i termini «sapere» per classificare la stregoneria e «uomo di sapere» o «uomo che sa» per indicare lo stregone.
Al fine di insegnare e corroborare il suo sapere don Juan usava tre piante psicotrope molto conosciute: il peyote (Lo- phophora wiUiamsii), l’erba del diavolo (Datura inoxia), e una specie di fungo che appartiene al genere Psilocybe. Attraverso l’ingestione separata di ciascuno di questi allucinogeni egli produsse in me, in qualità di suo apprendista, alcuni stati particolari di percezione deformata, o coscienza alterata, che ho chiamato «stati di realtà non ordinaria». Ho usato il termine «realtà» perché la premessa maggiore del sistema di credenze di don Juan era che gli stati di coscienza prodotti dall’ingestione di una di queste tre piante non fossero allucinazioni, ma aspetti concreti, sebbene non ordinari, della realtà della vita quotidiana. Nei confronti di questi stati di realtà non ordinaria don Juan agiva non «come se» fossero reali, ma «in quanto» reali.
Naturalmente è un mio espediente classificare queste piante come allucinogeni e gli stati che producevano come realtà non ordinaria. Don Juan comprendeva e spiegava le piante come veicoli che avrebbero condotto o guidato un uomo verso alcune forze impersonali o «poteri», e gli stati da esse prodotti come gli «incontri» che uno stregone doveva fare con quei «poteri» per essere in grado di acquisire il controllo su di loro.
Chiamava il peyote «Mescalito», e lo descriveva come un maestro benevolo e un protettore degli uomini, che insegnava il «modo giusto di vivere». Di solito il peyote era ingerito durante cerimonie di stregoni dette «mitotes», dove i partecipanti si riunivano appositamente alla ricerca di una lezione sul modo giusto di vivere.
Per don Juan l’erba del diavolo e i funghi erano poteri di tipo diverso: li chiamava «alleati» e diceva che avevano la proprietà di essere manipolabili; in effetti, uno stregone attingeva la sua forza dalla manipolazione di uno di loro. Tra i due, don Juan preferiva il fungo: affermava che il potere in esso contenuto era il suo alleato personale e lo chiamava «fumo» o «fumino».
Il procedimento di don Juan per utilizzare i funghi consisteva nel farli essiccare dentro una piccola zucca vuota, fino a che si riducevano a una polvere fine. Teneva la zucca ermeticamente chiusa per un anno, poi mescolava la polvere fine con altre cinque piante secche e produceva un mistura da fumare in una pipa.
Per riuscire a diventare un uomo di sapere era necessario «incontrare» l’alleato il maggior numero possibile di volte, si doveva acquistare familiarità con esso. Naturalmente tale premessa implicava che si dovesse fumare la miscela alluci- nogena piuttosto spesso e questo procedimento consisteva nell’ingerire la polvere fine del fungo, che non veniva bruciata, e nell’inalare il fumo delle altre cinque piante che formavano il miscuglio. Don Juan spiegava gli effetti profondi provocati dal fungo sulle capacità percettive dicendo che l’«alleato toglie il corpo alla persona».
Il suo metodo d’insegnamento richiedeva uno sforzo straordinario da parte dell’apprendista; in effetti, la partecipazione e il coinvolgimento necessari erano così intensi che, alla fine del 1965, dovetti abbandonare l’apprendistato. A distanza di cinque anni ora posso dire che, a quel tempo, gli insegnamenti di don Juan avevano iniziato a costituire una seria minaccia alla mia «idea del mondo»: avevo cominciato a perdere la certezza, propria a tutti noi, che la realtà quotidiana sia qualcosa di scontato.
Nel momento in cui mi ritirai ero convinto che la mia decisione fosse definitiva; non volevo vedere mai più don Juan. Tuttavia, nell’aprile del 1968 ebbi a disposizione urna prima copia del mio libro e mi sentii obbligato a mostrargliela, così gli feci visita. Il nostro legame maestro-apprendista si era misteriosamente ristabilito, e posso dire che in quell’occasione iniziai un secondo ciclo di apprendistato, molto diverso dal primo. La mia paura non era così acuta come in passato, anche perché nel complesso la piega che avevano preso i suoi insegnamenti era più rilassata. Rideva e faceva ridere molto anche me, e sembrava esserci da parte sua l’intento deliberato di sdrammatizzare la serietà in generale. Durante i momenti cruciali di questo secondo ciclo faceva il pagliaccio, e ciò mi aiutò a superare esperienze che sarebbero potute facilmente diventare ossessive. La sua premessa era che un temperamento allegro e disponibile era necessario per sopportare l’impatto e la stranezza del sapere che mi stava trasmettendo.
«Ti sei spaventato e ti sei arreso perché ti sentivi dannatamente troppo importante» disse, spiegando il mio precedente ritiro. «Sentirsi importanti rende pesanti, goffi, e vani. Per essere un uomo di sapere è necessario essere leggero e fluido.»
L’interesse specifico di don Juan in questo secondo ciclo di apprendistato era quello di insegnarmi a «vedere». Evidentemente nel suo sistema cognitivo c’era la possibilità di porre una distinzione semantica tra «vedere» e «guardare», che venivano intesi come due modi distinti di percepire. «Guardare» si riferiva alla modalità ordinaria con cui siamo abituati a percepire il mondo, mentre «vedere» comportava un processo molto complesso grazie al quale un uomo di sapere presumibilmente percepisce l’«essenza» delle cose del mondo.
Per presentare in una forma leggibile il labirinto di questo processo di apprendimento, ho condensato lunghi passaggi di domande e risposte, e di conseguenza ho rivisto i miei appunti originali presi sul campo. Sono comunque convinto che a questo punto la mia presentazione non possa in alcun modo sminuire il significato degli insegnamenti di don Juan. La revisione era mirata a rendere i miei appunti scorrevoli - come una conversazione - così da dare loro l’effetto desiderato, vale a dire quello di comunicare al lettore, per mezzo di un reportage, la drammaticità e l’immediatezza delle esperienze vissute. Ogni sezione a cui ho dato la forma di un capitolo corrispondeva a una sessione con don Juan, il quale, di regola, terminava sempre con una nota conclusiva; perciò il tono drammatico della fine di ogni capitolo non è un mio espediente stilistico, ma un mezzo proprio della sua tradizione orale: sembrava un accorgimento mnemonico che mi aiutava a fissare il carattere drammatico e l’importanza delle lezioni.
In ogni caso, sono necessarie alarne delucidazioni per rendere convincente il mio reportage, poiché la sua chiarezza dipende dalla spiegazione di un certo numero di concetti chiave che desidero mettere in evidenza. Questa scelta è coerente con il mio interesse per le scienze sociali. E del tutto plausibile che un’altra persona con scopi e aspettative diversi selezioni concetti completamente differenti da quelli scelti da me.
Durante il secondo ciclo di apprendistato don Juan si sentì in dovere di specificare che l’utilizzo della miscela da fumare era il prerequisito indispensabile per «vedere», perciò avrei dovuto farne uso il più sovente possibile.
«Solo il fumo può darti la velocità necessaria per catturare un barlume di quel mondo fugace» disse.
Con l’aiuto della mistura psicotropa, don Juan produsse in me una serie di stati di realtà non ordinaria la cui caratteristica principale, in relazione a ciò che lui sembrava fare, era una condizione d’«inapplicabilità». Ciò che percepivo in quegli stati di coscienza alterata era indecifrabile e impossibile da interpretare con i mezzi del nostro modo quotidiano di comprendere il mondo. In altre parole, la condizione d’inapplicabilità comportava la cessazione della pertinenza del mio punto di vista sul mondo.
Per introdurre una serie di nuove «unità di significato» concepite in anticipo, don Juan usava questa condizione d’inapplicabilità degli stati di realtà non ordinaria. Le unità di significato erano tutti i singoli elementi riguardanti il sapere che don Juan stava sforzandosi di insegnarmi. Le ho chiamate «unità di significato» perché erano il conglomerato basilare dei dati sensoriali e delle loro interpretazioni su cui era fondato un significato più complesso. Un esempio di tale unità è la modalità in cui era inteso l’effetto fisiologico della mistura psicotropa: quest’ultima produceva un torpore e una perdita del controllo motorio che nel sistema di don Juan erano interpretati come un’azione prodotta dal fumo, che in questo caso era l’alleato, per «togliere il corpo del praticante».
Le unità di significato erano raggruppate in un modo specifico e ciascun blocco così creato formava ciò che ho chiamato «interpretazione sensata». È ovvio che uno stregone deve imparare a produrre un numero infinito di possibili interpretazioni sensate pertinenti alla stregoneria. Nella nostra vita quotidiana ci confrontiamo con un numero infinito di spiegazioni sensate inerenti a essa. Un semplice esempio potrebbe essere l’interpretazione non più intenzionale della struttura che chiamiamo «stanza», interpretazione che facciamo un’infinità di volte al giorno. Ovviamente abbiamo imparato a rappresentare la struttura che chiamiamo «stanza» in termini di stanza, perciò la stanza è un’interpretazione sensata perché richiede che, nel momento in cui la facciamo, in un modo o nell’altro abbiamo la cognizione di tutti gli elementi che entrano nella sua composizione. In altre parole, un sistema di interpretazione sensata è il processo grazie al quale un praticante ha cognizione di tutte le unità di significato necessarie per fare assunzioni, deduzioni, predizioni, e via dicendo, del complesso di circostanze relative alla sua attività.
Con il termine «praticante» intendo un partecipante che abbia un’adeguata conoscenza di tutte, o quasi, le unità di significato implicate nel suo sistema particolare di interpretazione sensata. Don Juan era un praticante, cioè era uno stregone che conosceva tutti i passi della sua stregoneria.
In qualità di praticante, cercava di rendermi accessibile il suo sistema di interpretazione sensata, e tale accessibilità, in questo caso, equivaleva a un processo di risocializzazione in cui venivano apprese nuove modalità di intendere dati percettivi.
Io ero l’«estraneo», quello a cui manca la capacità di fare interpretazioni intelligenti e adeguate delle unità di significato pertinenti alla stregoneria.
10 compito di don Juan, in qualità di praticante che mi rendeva accessibile il suo sistema, era quello di scardinare una certezza particolare che condivido con ogni altra persona, la certezza che la nostra visione del mondo basata sul «senso comune» sia definitiva. Attraverso l’uso delle piante psico- trope, e per mezzo di contatti ben guidati tra me e il sistema alieno, riuscì a mostrarmi che la mia visione del mondo non poteva essere definitiva, perché è solo un’interpretazione.
Per gli indiani d’America, forse per migliaia di anni, il vago fenomeno che chiamiamo stregoneria è stato una pratica seria bona fide, paragonabile a quella della nostra scienza, e la nostra difficoltà a capirlo deriva, senza alcun dubbio, dalle unità di significato estranee con le quali tale pratica ha a che fare.
Una volta don Juan mi disse che un uomo di sapere ha delle predilezioni. Gli chiesi di spiegarsi.
«La mia predilezione è vedere» dichiarò.
«Cosa intendi dire con ciò?»
«Mi piace vedere, perché solo vedendo un uomo di sapere può conoscere» rispose.
«Cosa vedi?»
«Tutto.»
«Anch’io vedo tutto e non sono un uomo di sapere.»
«No, tu non vedi.»
«Penso di sì.»
«Credimi, tu non vedi.»
«Cosa te lo fa dire, don Juan?»
«Tu guardi solo la superficie delle cose.»
«Vuoi dire che tutti gli uomini di sapere vedono realmente attraverso ogni cosa che guardano?»
«No, non è quello che intendo. Ho detto che un uomo di sapere ha le sue predilezioni; la mia è semplicemente vedere e sapere; altri fanno altre cose.»
«Per esempio?»
«Prendi Sacateca, è un uomo di sapere e la sua preferenza è ballare. Così balla e conosce.»
«La predilezione di un uomo di sapere è qualcosa che fa per conoscere?»
«Sì, proprio così.»
«Come può la danza aiutare Sacateca a conoscere?»
«Si può dire che Sacateca balla con tutto ciò che ha.»
«Balla forse come ballo io? Intendo dire come si balla normalmente?»
«Diciamo che balla come io vedo, e non nel modo in cui tu puoi ballare.»
«Anche lui vede nel modo in cui tu vedi?»
«Sì, ma balla anche.»
«Come?»
«E difficile da spiegare. Quando vuole conoscere, balla in un modo particolare, ma tutto ciò che posso anticiparti al riguardo è che, finché non capirai i modi di un uomo che conosce, è impossibile parlare di ballare o vedere.»
«Lo hai visto mentre fa la sua danza?»
«Sì, comunque non tutti quelli che guardano la sua danza possono vedere che è il suo modo speciale di conoscere.»
Conoscevo Sacateca, o almeno sapevo chi fosse: ci eravamo incontrati e una volta gli avevo offerto una birra. Fu molto gentile e mi disse che avrei dovuto sentirmi libero di fermarmi a casa sua tutte le volte che lo desideravo. Giocherellai a lungo con l’idea di andare a trovarlo, ma non lo dissi a don Juan.
Un pomeriggio, era il 14 maggio del 1962, mi avvicinai alla casa di Sacateca; mi aveva dato indicazioni su come arrivarci e non fu difficile trovarla: faceva angolo ed era circondata da uno steccato. Il cancello era chiuso, così girai intorno alla recinzione per vedere se riuscivo a dare un’occhiata all’interno della casa, ma sembrava deserta.
«Don Elias» dissi a voce alta. I polli si spaventarono e fuggirono qua e là starnazzando. Un piccolo cane si avvicinò allo steccato; mi aspettavo che abbaiasse, invece si accucciò fissandomi. Gridai ancora e i polli cominciarono di nuovo a starnazzare.
Una donna anziana uscì dalla casa. Le chiesi di chiamare don Elias.
«Non è qui» disse.
«Dove posso trovarlo?»
«E nei campi.»
«Nei campi dove?»
«Non lo so. Torna nel tardo pomeriggio, sarà qui verso le cinque.»
«Sei la moglie di don Elias?»
«Sì, sono sua moglie» rispose, e sorrise.
Cercai di farle domande su Sacateca, ma lei si scusò dicendo che non parlava bene lo spagnolo, così salii in macchina e mi allontanai.
Ritornai verso le sei, mi diressi alla porta e chiamai don Elias urlando: questa volta uscì. Accesi il mio registratore, che nella sua custodia di pelle marrone sembrava una macchina fotografica portata a tracolla. Sembrò riconoscermi.
«Oh, sei tu» affermò sorridendo. «Come sta Juan?»
«Bene. Ma tu come stai, don Elias?»
Non rispose. Sembrava nervoso: esteriormente era molto tranquillo, ma sentivo che era a disagio.
«Don Juan ti ha mandato qui con qualche messaggio?»
«No, sono venuto di mia iniziativa.»
«Per quale motivo?»
La sua domanda sembrava tradire una sorpresa bona
fide.
«Volevo solo parlare con te» risposi, sperando che suonasse il più casuale possibile. «Don Juan mi ha raccontato cose meravigliose sul tuo conto, mi sono incuriosito e volevo farti alcune domande.»
Sacateca stava in piedi di fronte a me: era magro e temprato, indossava pantaloni e una camicia color cachi. Aveva gli occhi semichiusi, pareva assonnato o forse ubriaco, e teneva la bocca appena aperta con il labbro inferiore penzolante. Notai che stava respirando profondamente e sembrava quasi russare. Mi balenò il pensiero che fosse fuori di sé, ma questa idea sembrava assurda perché solo pochi minuti prima, quando era uscito di casa, si era mostrato molto vigile e cosciente della mia presenza.
«Di cosa vuoi parlare?» domandò finalmente.
La sua voce era stanca, come se le sue parole si trascinassero una dopo l’altra. Mi sentivo molto a disagio: sembrava che la sua stanchezza fosse contagiosa e mi attirasse a sé.
«Di niente in particolare» risposi.
«Sono solo venuto a chiacchierare con te in modo amichevole. Una volta mi invitasti a venire a casa tua.»
«Sì, lo feci, ma ora è diverso.»
«Perché?»
«Non parli con Juan?»
«Sì.»
«Allora cosa vuoi da me?»
«Pensavo che avrei potuto farti alcune domande.»
«Chiedi a Juan. Non ti sta istruendo?»
«Sì, ma proprio per questo voglio farti delle domande su quello che mi sta insegnando, e conoscere la tua opinione, così sarò in grado di sapere cosa fare.»
«Perché? Non ti fidi di Juan?»
«Sì.»
«Allora perché non chiedi a lui di spiegarti ciò che vuoi sapere?»
«Lo faccio, e lui me lo dice, ma se anche tu potessi parlarmi di quello che don Juan mi sta insegnando, forse capirei meglio.»
«Juan può dirti tutto. Solo lui può farlo. Non lo capisci?»
«Sì, tuttavia mi piacerebbe parlare con persone come te, don Elias. Un uomo di sapere non si trova tutti i giorni.»
«Juan è un uomo di sapere.»
«Lo so.»
«Allora perché stai parlando con me?»
«Ho detto che sono venuto per diventare tuo amico.»
«No, questa volta ti ha mosso qualcos’altro.»
Volevo spiegarmi, ma tutto quello che riuscivo a fare era borbottare in modo incoerente. Sacateca non disse nulla; sembrava ascoltare con attenzione, aveva gli occhi di nuovo semichiusi, ma sentivo che mi stava scrutando. Annuì con il capo in un modo quasi impercettibile, poi dischiuse le palpebre e vidi i suoi occhi: sembrava che stesse guardando oltre di me. In modo casuale diede un colpetto per terra con la punta del piede destro, appena dietro il tallone sinistro. Aveva le gambe leggermente arcuate e le braccia penzoloni lungo i fianchi; poi sollevò il braccio destro; la mano era aperta con il palmo girato perpendicolarmente al suolo, le dita stese puntavano verso di me. Lasciò oscillare la mano un paio di volte prima di portarla all’altezza del mio volto, la tenne in quella posizione per un istante e poi mi disse qualcosa. La sua voce era molto chiara, ma strascicava le parole.
Appena un momento dopo lasciò cadere la mano sul fianco e restò immobile, assumendo ima posizione strana: stava in piedi appoggiandosi sulla punta del piede sinistro, con il piede destro incrociato dietro il tallone sinistro, e batteva sul suolo con la punta, in modo ritmico e leggero.
Provavo un’apprensione infondata, una forma d’irrequietezza. I miei pensieri sembravano dissociati: si susseguivano senza senso né relazione, e non avevano nulla a che fare con ciò che stava succedendo. Mi resi conto del mio disagio e cercai di riportare la mente alla situazione concreta, ma non ci riuscivo nonostante lottassi accanita- mente: era come se una forza sconosciuta mi impedisse di concentrarmi o di formulare pensieri pertinenti.
Sacateca non aveva proferito parola e io non sapevo cos’altro dire o fare. In modo quasi automatico, mi girai e me ne andai.
In seguito mi sentii in obbligo di raccontare del mio incontro con Sacateca a don Juan, e lui scoppiò a ridere.
«Cosa è successo davvero?» chiesi.
«Sacateca ha ballato!» disse don Juan. «Ti ha visto, poi ha ballato.»
«Cosa mi ha fatto? Sentivo molto freddo e avevo le vertigini.»
«È chiaro che non gli piacevi e ti ha fermato lanciandoti una parola.»
«Come potrebbe mai aver fatto una cosa simile?» esclamai incredulo.
«Molto semplice; ti ha fermato con la sua volontà.»
«Cosa hai detto?»
«Ti ha fermato con la sua volontà!»
La spiegazione non era sufficiente, le sue affermazioni mi suonavano come un discorso slegato. Cercai di sondare ancora il terreno, ma non poté spiegarmi l’accaduto in modo soddisfacente.
Ovviamente quell’evento o qualsiasi altro che si verificasse all’interno di questo sistema estraneo d’interpretazione sensata poteva essere spiegato o capito solo nei termini delle unità di significato proprie di quel sistema. Perciò questo lavoro è un reportage e dovrebbe essere letto come tale. Il sistema che ho memorizzato mi era incomprensibile, perciò la pretesa di fare qualunque altra cosa che non fosse una cronaca puntuale sarebbe fuorviarne e presuntuosa. Per questo ho adottato il metodo fenomenologico e mi sono sforzato di rapportarmi alla stregoneria considerando unicamente i fenomeni che mi si presentavano. Io, essendo l’individuo che percepiva, registravo ciò che percepivo, e, in quel momento, mi sforzavo di sospendere il giudizio.
PARTE PRIMA
I preliminari del «vedere»
— 2 aprile 1968
Don Juan mi guardò per un momento e non sembrò affatto sorpreso di vedermi, sebbene fossero passati più di due anni dall’ultima volta che gli avevo fatto visita. Mi mise la mano sulla spalla sorridendo dolcemente e disse che sembravo diverso, che stavo diventando grasso e flaccido.
Gli avevo portato una copia del mio libro. Senza alcun preambolo lo estrassi dalla mia valigetta e glielo porsi.
«E un libro su di te, don Juan» affermai.
Lo prese e sfogliò le pagine come se fossero un mazzo di carte. Gli piacquero il verde della sovraccoperta e lo spessore del libro. Tastò la copertina, lo rigirò un paio di volte, e poi me lo restituì. Provai un grande impeto di orgoglio.
«Voglio che lo tenga tu» dissi.
Scosse la testa con una risata silenziosa.
«È meglio di no,» replicò, e poi aggiunse con un sorriso «sai cosa facciamo con la carta in Messico.»
Scoppiai a ridere e pensai che il suo tocco di ironia fosse splendido.
Eravamo seduti su una panchina nel parco di una cittadina della zona montagnosa del Messico centrale. Non avevo nessuna possibilità di metterlo al corrente della mia intenzione di fargli visita, ma ero certo che l’avrei trovato, e così fu. Aspettai solo per poco in quella città prima che scendesse dalle montagne, e lo trovai al mercato, al banco di un suo amico.
Mi disse solo che ero arrivato giusto in tempo per riportarlo a Sonora, e ci sedemmo nel parco in attesa di un suo amico, un indiano Mazatec, con il quale viveva.
Aspettammo circa tre ore. Parlammo di diverse cose irrilevanti, e verso sera, appena prima che il suo amico arrivasse, gli riferii alcuni fatti di cui ero stato testimone pochi giorni addietro.
Durante il viaggio per andare a trovarlo, la mia auto ebbe un guasto nei sobborghi di una città e dovetti restare fermo per tre giorni mentre me la riparavano. C’era un motel dall’altra parte della strada, di fronte all’officina, ma i quartieri periferici mi hanno sempre depresso, così presi alloggio in centro, in un moderno albergo di otto piani.
Il ragazzo dell’hotel mi disse che c’era il ristorante, e quando scesi per mangiare notai alcuni tavoli sul marciapiede. Avevano una disposizione piuttosto carina, all’angolo della strada, sotto bassi archi di mattoni in stile moderno. Fuori faceva fresco e c’erano tavoli liberi, ma preferii accomodarmi all’interno. Entrando avevo notato che un gruppo di giovani lustrascarpe stavano seduti sul ciglio del marciapiede di fronte al ristorante, ed ero certo che mi avrebbero molestato se avessi scelto un tavolino esterno.
Dal punto in cui ero seduto potevo osservarli attraverso la vetrata. Una coppia di giovani uomini si accomodò a un tavolo e i bambini si accalcarono intorno, chiedendo di lustrare loro le scarpe. I due rifiutarono e restai stupito nel vedere che i ragazzini non insistettero, ma ritornarono a sedersi sul ciglio del marciapiede. Dopo un po’ tre uomini si alzarono e se ne andarono; i bambini corsero al loro tavolo e iniziarono a mangiare gli avanzi: in una manciata di secondi i piatti erano puliti. La stessa sorte toccò agli avanzi degli altri tavoli.
Notai che erano molto disciplinati: se rovesciavano dell’acqua l’asciugavano con i loro panni per lustrare le scarpe. Constatai anche la precisione delle loro procedure di ripulitura.
Mangiavano persino i cubetti di ghiaccio rimasti nei bicchieri d’acqua e le fette di limone del tè, compresa la scorza e tutto il resto. Non sprecavano assolutamente nulla.
Durante il mio soggiorno nell’albergo, scoprii che il gestore del ristorante aveva fatto un accordo con i ragazzini: avevano il permesso di gironzolare intorno all’edificio per farsi qualche soldo con gli avventori, e potevano anche mangiare gli avanzi a patto che non molestassero nessuno e non rompessero nulla. Erano undici in tutto, di età compresa tra i cinque e i dodici anni; il più grande, comunque, era tenuto lontano dal resto del gruppo. Lo isolavano apposta, schernendolo con una cantilena nella quale si diceva che aveva già i peli pubici ed era quindi troppo vecchio per stare con loro.
Dopo tre giorni che li osservavo precipitarsi come avvoltoi sugli avanzi più magri mi venne la depressione, e lasciai quella città con la sensazione che non ci fosse speranza per quei bambini, il cui mondo era già stato plasmato dalla loro lotta quotidiana per le briciole.
«Ti dispiace per loro?» esclamò don Juan in tono interrogativo.
«Certo.»
«Perché?»
«Perché mi sta a cuore il benessere dei miei simili. Quelli sono bambini e il loro mondo è brutto e misero.»
«Aspetta! Aspetta! Come puoi sostenere che il loro mondo è brutto e misero?» domandò don Juan, canzonando la mia affermazione. «Pensi di essere in una posizione migliore, non è vero?»
Annuii, mi chiese perché, e dichiarai che il mio mondo, paragonato al loro, era infinitamente più vario e ricco di esperienze e di opportunità per la mia soddisfazione e la mia crescita. Don Juan rise in modo amichevole e sincero, e affermò che parlavo a vanvera, che non avevo alcun modo di sapere nulla della ricchezza e delle opportunità nel mondo di quei bambini.
Pensai che don Juan stesse diventando cocciuto e che, di proposito, scegliesse il punto di vista opposto solo per contrariarmi. Credevo onestamente che quei ragazzini non avessero nessuna possibilità della benché minima crescita intellettuale.
Sostenni la mia opinione ancora per un po’ e allora don Juan mi chiese seccamente: «Non mi hai detto, una volta, che a tuo parere il risultato più grande era quello di diventare un uomo di sapere?».
Lo avevo detto, e ripetei ancora che secondo me diventare un uomo di sapere era una delle più grandi realizzazioni intellettuali.
«Pensi che il tuo mondo molto ricco potrebbe mai aiutarti a diventare un uomo di sapere?» chiese don Juan con leggero sarcasmo.
Non risposi e allora riformulò la stessa domanda in termini diversi, cosa che faccio sempre con lui quando penso che non capisca.
«In altre parole,» disse con un sorriso aperto, consapevole che mi ero accorto del suo stratagemma «la tua libertà e le tue opportunità possono aiutarti a diventare un uomo di sapere?»
«No!» risposi con enfasi.
«Allora come puoi sentirti triste per quei bambini?» domandò serio. «Ciascuno di loro potrebbe diventare un uomo di sapere. Tutti gli uomini di sapere che conosco erano bimbi come quelli che hai visto mangiare avanzi e leccare i tavoli.»
L’argomentazione di don Juan mi procurò una sensazione di disagio. Avevo provato tristezza per quei bambini bisognosi non perché non avevano abbastanza da mangiare, ma perché secondo il mio termine di paragone il loro mondo li aveva già condannati a essere inadeguati intellettualmente. Eppure, secondo il punto di vista di don Juan, ciascuno di loro poteva raggiungere ciò che credevo essere l’epitome della realizzazione intellettuale dell’umanità, l’obiettivo di diventare un uomo di sapere. E motivo per cui provavo pietà per loro era assurdo. Don Juan mi aveva inchiodato in maniera davvero abile.
«Forse hai ragione, ma come si può evitare il desiderio, il desiderio sincero, di aiutare i nostri simili?» gli chiesi.
«Come pensi che si possa aiutarli?»
«Alleggerendo il loro fardello. Il minimo che si possa fare per i nostri simili è cercare di cambiarli. Tu stesso sei coinvolto in questo sforzo. Non è vero?»
«No, non lo sono. Non so né cosa né perché cambiare qualcosa nei miei simili.»
«E cosa dici a proposito di me, don Juan? Non mi insegnavi perché potessi cambiare?»
«No. Non sto cercando di fare ciò. Può accadere che un giorno tu possa diventare un uomo di sapere - non cè modo di prevederlo -, ma ciò non ti cambierà. Un giorno forse potrai vedere gli uomini in un altro modo e allora capirai che non è possibile modificare nulla di loro.»
«Qual è mai quest’altro modo di vedere gli uomini, don Juan?»
«Gli uomini appaiono diversi quando vedi. Il fumino ti aiuterà a vederli come fibre luminose.»
«Fibre luminose?»
«Sì. Fibre, come filamenti sottilissimi simili a ragnatele bianche che li avvolgono dalla testa all’ombelico. Di conseguenza, un uomo appare come un uovo di fibre fluttuanti, e le braccia e le gambe sono raggi di luce che si dipartono in tutte le direzioni.»
«È così che ognuno appare?»
«Sì. Inoltre, ogni uomo è in contatto con il resto del mondo non attraverso le mani, ma tramite un fascio di lunghe fibre che si estendono in tutte le direzioni partendo dal centro dell’addome. Sono queste fibre a collegarlo all’ambiente circostante; esse mantengono il suo equilibrio, gli danno stabilità. Così, come un giorno potrai vedere, ogni uomo è un uovo luminoso, re o mendicante che sia, e non c’è modo di cambiare alcunché; o meglio, che cosa si potrebbe cambiare in quell’uovo luminoso? Che cosa?»
La mia visita a don Juan inaugurò un nuovo ciclo. Non ebbi difficoltà a ritornare di nuovo al mio vecchio schema di comportamento, quando godevo del suo senso del dramma, dell’umorismo e della sua pazienza nei miei confronti. Sentivo che dovevo fargli visita più spesso: non vederlo era una grave perdita per me, e inoltre avevo qualcosa di particolare interesse che volevo discutere con lui.
Dopo aver finito il libro sui suoi insegnamenti cominciai a riesaminare gli appunti presi sul campo che non avevo utilizzato. Avevo scartato una grande quantità di dati, perché mi ero concentrato sugli stati di realtà non ordinaria. Rimaneggiando le mie vecchie note ero giunto alla conclusione che un abile sciamano poteva produrre nel suo apprendista il campo percettivo più specializzato semplicemente«manipolando i suggerimenti sociali». La mia intera argomentazione sulla natura di questi procedimenti manipolatori si basava sull’assunto che fosse necessario un leader per produrre il campo percettivo necessario. Presi come caso esemplare specifico le cerimonie degli stregoni in onore del peyote. Sostenevo che in quelle riunioni gli stregoni raggiungevano un accordo sulla natura della realtà senza nessun aperto scambio di parole o di segni, e la mia conclusione era che i partecipanti usavano un codice molto sofisticato per arrivare a tale accordo. Avevo costruito un sistema complesso per spiegare il codice e i procedimenti, così ritornai a far visita a don Juan per chiedergli la sua opinione e i suoi consigli sul mio lavoro.
— 21 maggio 1968
Non accadde nulla di strano durante il mio viaggio per andare a trovare don Juan. Nel deserto c’erano circa quaranta gradi ed era abbastanza fastidioso. Il caldo si placò nel tardo pomeriggio e quando arrivai a casa sua, verso sera, spirava una brezza fresca. Non ero molto stanco, così ci sedemmo nella sua camera e chiacchierammo. Mi sentivo a mio agio e rilassato, e discorremmo per ore. Non era una conversazione che avrei voluto registrare; non stavo cercando di dire cose particolari o di trarre grande significato: parlammo del tempo, dei raccolti, di suo nipote, degli indiani Yaqui, del governo messicano. Rivelai a don Juan quanto mi piacesse la sensazione meravigliosa di conversare nell’oscurità, e lui disse che la mia affermazione era coerente con la mia natura loquace, vale a dire che era logico che mi piacesse chiacchierare al buio perché parlare era l’unica cosa che potevo fare in quel momento, mentre stavamo seduti in ozio. Ribattei che provavo gioia non solo per il mero atto di parlare e che apprezzavo il tepore confortevole delle tenebre intorno a noi. Mi chiese cosa facevo a casa mia quando era buio; risposi che accendevo sempre la luce o uscivo nelle strade illuminate fino a quando era ora di andare a letto.
«Oh!» esclamò incredulo. «Credevo che tu avessi imparato a usare l’oscurità.»
«A cosa serve?» domandai.
Disse che l’oscurità-e la chiamò «l’oscurità del giorno»- era il momento migliore per «vedere». Mise l’accento sulla parola «vedere» con una singolare modulazione della voce. Volevo sapere cosa intendesse, ma rispose che era troppo tardi per approfondire l’argomento.
—22 maggio 1968
Non appena mi svegliai la mattina, senza alcun preambolo raccontai a don Juan che avevo elaborato un sistema per spiegare quello che accadeva a una cerimonia in onore del peyote, un mitote. Presi i miei appunti e gli lessi ciò che avevo scritto. Mi ascoltò con pazienza mentre mi sforzavo di chiarire il mio sistema.
Dichiarai che ero convinto della necessità di un leader nascosto che desse informazioni ai partecipanti, così che potessero giungere a un qualche accordo pertinente. Misi in rilievo che le persone partecipavano al mitote per ricercare la presenza di Mescalito e le sue lezioni sul modo giusto di vivere, e che non si scambiavano mai una parola né un gesto anche se concordavano sulla presenza di Mescalito e sulla sua lezione specifica. Per lo meno questo, a quel che si dice, era ciò che facevano nei mitotes a cui avevo preso parte; concordavano sul fatto che Mescalito fosse apparso a ciascuno di loro individualmente e avesse impartito loro un insegnamento. Nella mia esperienza personale, avevo scoperto che la forma della visita individuale di Mescalito e il suo conseguente insegnamento erano straordinariamente omogenei, sebbene variassero nel contenuto da persona a persona. Non ero in grado di spiegare questa uniformità se non come il risultato di un sistema complesso e sottile di suggerimenti.
Impiegai quasi due ore per leggere e spiegare a don Juan lo schema che avevo con diligenza elaborato. Terminai il mio discorso pregandolo di spiegarmi con parole sue quali fossero i procedimenti esatti per raggiungere l’accordo.
Quando ebbi finito corrugò la fronte. Pensai che dovesse aver trovato provocatoria la mia spiegazione; sembrava essere immerso in una profonda riflessione. Dopo aver lasciato passare un po’ di tempo gli chiesi cosa pensasse della mia idea.
La mia domanda mutò d’un tratto il suo aspetto accigliato
in un sorriso e poi in una risata fragorosa. Cercai di ridere anch’io e chiesi nervosamente cosa ci fosse di così divertente.
«Sei impazzito?» domandò. «Perché qualcuno dovrebbe preoccuparsi di suggerire in un momento così importante come il mitote?Credi che una persona farebbe mai la stupida con Mescalito?»
Pensai per un momento che fosse una risposta evasiva, che stesse eludendo la mia richiesta.
«Perché qualcuno dovrebbe suggerire?» ripeté ostinato don Juan. «Sei stato ai mitotes. Dovresti sapere che nessuno ti ha detto come sentire, o cosa fare, nessuno eccetto Mescalito stesso.»
Insistetti nel sostenere che una spiegazione di questo genere non era possibile e lo pregai ancora di rivelarmi come si raggiungeva l’accordo.
«So perché sei venuto» asserì don Juan in tono misterioso. «Non posso aiutarti nel tuo sforzo perché non c’è nessun sistema di suggerimento.»
«Ma tutte quelle persone come possono essere d’accordo sulla presenza di Mescalito?»
«Sono d’accordo perché vedono,» affermò don Juan, che poi aggiunse con noncuranza «perché non partecipi a un altro mitote evedi da te?»
Sentii che era una trappola. Non replicai: misi via i miei appunti, lui non insistette.
Dopo un po’ mi chiese di portarlo a casa di un amico, dove trascorremmo quasi tutto il giorno. Durante una conversazione il suo amico John, che aveva procurato i germogli di peyote per la mia prima esperienza circa otto anni addietro, mi chiese cosa ne era stato del mio interesse per il peyote. Non sapevo cosa rispondergli. Don Juan mi venne in aiuto e gli disse che stavo andando bene.
Sulla via del ritorno alla casa di don Juan mi sentii obbligato a commentare la domanda di John e sottolineai, tra l’altro, che non avevo alcuna intenzione di imparare più nulla sul peyote, perché ciò richiedeva un genere di coraggio che non possedevo, e che avevo parlato seriamente quando avevo detto che avrei abbandonato l’apprendistato. Don Juan sorrise e non ribatté. Continuai a parlare finché arrivammo alla casa.
Ci sedemmo su uno spiazzo pulito di fronte alla porta. Era un giorno caldo, con il cielo terso, ma nel tardo pomeriggio c’era quel poco di brezza che lo rendeva piacevole.
«Perché devi strafare?» osservò don Juan d’un tratto. «Quanti anni sono passati da quando hai detto che non volevi più imparare?»
«Tre.»
«Perché sei così veemente al riguardo?»
«Sento che ti sto tradendo, don Juan. Penso che questo sia il motivo per cui ne parlo sempre.»
«Non mi stai tradendo.»
«Ti ho abbandonato. Sono scappato. Mi sento sconfitto.»
«Fai quello che puoi. Inoltre, non sei ancora stato sconfitto. Ciò che devo insegnarti è molto arduo. Io, per esempio, lo trovavo forse persino più duro di te.»
«Ma tu insistesti don Juan. Il mio caso è diverso. Io mi diedi per vinto e sono tornato a trovarti non perché volevo imparare, ma solo perché desideravo chiederti di chiarire un punto del mio lavoro.»
Don Juan mi guardò per un istante, poi distolse lo sguardo.
«Dovresti permettere che il fumo ti guidi di nuovo» affermò con forza.
«No, don Juan, non posso più usare il tuo fumo. Penso di essermi esaurito.»
«Non hai iniziato.»
«Ho troppa paura.»
«Così, tu hai paura. Non c’è nulla di nuovo nell’essere spaventato. Non curarti della tua paura. Pensa al prodigio di
vedere !»
«Vorrei sinceramente riuscire a pensare a questo prodigio, ma non posso. Quando penso al tuo fumo sento che una specie di oscurità s’impadronisce di me. È come se non ci fossero più persone sulla Terra, nessuno a cui chiedere aiuto. H tuo fumo mi ha mostrato l’estrema solitudine, don Juan.»
«Questo non è vero. Prendi me, per esempio. Il fumo è il mio alleato e io non provo una solitudine simile.»
«Ma sei diverso, hai vinto la tua paura.»
Don Juan mi diede una leggera pacca sulla spalla.
«Non hai paura» disse piano. La sua voce tradiva una strana accusa.
«Sto mentendo al riguardo, don Juan?»
«Non mi interessano le bugie» replicò. «Mi interessa qualcos’altro. La ragione per cui non vuoi imparare non è il fatto che tu abbia paura, è qualcos’altro.»
Lo incalzai con veemenza perché mi dicesse cosa fosse. Lo supplicai, ma restò in silenzio; scuoteva solo la testa come se non potesse credere che non lo sapessi.
Gli dissi che forse era l’inerzia che mi impediva di imparare, e lui volle sapere il significato della parola «inerzia». Glielo lessi dal mio dizionario: «La tendenza di un corpo a restare nello stato di quiete, se in stato di quiete, o a mantenere la stessa direzione, se in moto, a meno che non intervenga una forza esterna a modificare la sua condizione».
«“A meno che non intervenga una forza esterna”» ripetè. «Questa è la migliore parola che tu abbia trovato. Te l’ho già detto, solo un pazzo accetterebbe il compito di diventare un uomo di sapere. Un uomo dalla mente lucida deve essere attirato a farlo con l’inganno.»
«Sono sicuro che ci sono moltissime persone che si dedicherebbero volentieri a tale missione» dissi.
«Sì, ma non contano. Di solito sono pazzi, teste vuote. Sono come le zucche che esternamente sembrano a posto, ma che perdono appena sono messe sotto pressione, appena sono riempite d’acqua.»
«Ho dovuto indurti a imparare con l’inganno una volta, nello stesso modo in cui il mio benefattore fece con me, altrimenti non avresti appreso tutto quello che hai imparato. Forse è giunto il momento di ingannarti ancora.»
Lo stratagemma a cui si riferiva era uno dei punti più critici del mio apprendistato. Era accaduto anni prima, ma nella mia mente era ancora vivo come se fosse appena successo. Attraverso manipolazioni molto astute, una volta don Juan mi aveva costretto a un terribile confronto con una donna che aveva la fama di essere una strega. Lo scontro sfociò in un profondo malanimo da parte di quest’ul- tima e don Juan sfruttò la paura che provavo per lei come stimolo per continuare l’apprendistato, sostenendo che dovevo imparare di più sulla stregoneria per proteggermi dai suoi attacchi magici. I risultati finali del suo «stratagemma» furono così convincenti che sentivo sinceramente, se volevo restare in vita, di non avere altre risorse che imparare quanto più possibile.
«Se stai progettando di spaventarmi di nuovo con quella donna, non tornerò mai più» dichiarai.
La risata di don Juan fu molto allegra.
«Non preoccuparti» replicò in modo rassicurante. «Stratagemmi basati sulla paura non funzioneranno più con te. Tu non hai più paura. Ma se è necessario, puoi essere attirato con l’inganno ovunque tu sia; non è necessario che tu ti trovi qui nei paraggi perché ciò accada.»
Mise le braccia dietro la testa e si distese per dormire. Lavorai sui miei appunti fino al suo risveglio, un paio di ore più tardi, quando era già quasi buio. Notando che stavo scrivendo, si sedette e mi chiese, sorridendo, se avessi risolto il mio problema.
— 23 maggio 1968
Stavamo parlando di Oaxaca e raccontai a don Juan che una volta ero arrivato in quella città in un giorno di mercato, un giorno in cui frotte di indiani provenienti da tutta la zona si radunavano in città per vendere generi alimentari e ogni sorta di cianfrusaglie. Accennai che un uomo, un venditore di piante medicinali, aveva attirato in modo particolare la mia attenzione. Portava una cassetta di legno nella quale teneva un certo numero di vasetti con piante secche sminuzzate, e stava in mezzo alla strada con un vaso, urlando una cantilena molto singolare che diceva pressappoco: «Ho qui il rimedio per pulci, mosche, zanzare e pidocchi. / Anche per maiali, cavalli, capre e mucche. / Ho qui il rimedio per tutte le malattie dell’uomo. / Gli orecchioni, il morbillo, i reumatismi e la gotta. / Ho qui il rimedio per il cuore, il fegato, lo stomaco e i reni. / Avvicinatevi signore e signori. / Ho qui il rimedio per pulci, mosche, zanzare e pidocchi».
L’avevo ascoltato per un bel po’. Il suo repertorio consisteva nell’enumerazione di un lungo elenco di malattie umane, per le quali dichiarava di avere la cura; l’espediente che usava per ritmare la sua cantilena era quello di fare una pausa dopo aver nominato una serie di quattro malanni.
Don Juan disse che da giovane anche lui aveva l’abitudine di vendere erbe al mercato di Oaxaca e che ricordava ancora la sua canzoncina da venditore, e la cantò a squarciagola per me. Aggiunse che lui e il suo amico Vicente erano soliti fare preparati.
«Quegli intrugli erano proprio buoni» osservò don Juan. «Il mio amico Vicente faceva eccellenti estratti di piante.»
Raccontai a don Juan che durante uno dei miei viaggi in Messico avevo incontrato Vicente. Mi sembrò sorpreso e volle saperne di più.
Stavo guidando verso Durango e mi ricordai che don Juan mi aveva detto, ima volta, che avrei dovuto fare visita a un suo amico che viveva là. Lo cercai, lo trovai, e discorremmo per un po’. Prima che me ne andassi mi diede un sacco con alcune piante e una serie di istruzioni per trapiantarne una.
Mentre ero in viaggio mi fermai nella città di Aguas Calientes e mi assicurai che non ci fosse nessuno nei paraggi. Per almeno dieci minuti ero stato a guardare la strada e la zona circostante: non si vedevano né case, né bestiame che pascolava ai lati della strada. Mi fermai sulla cima di una collinetta, da dove potevo vedere la strada davanti e dietro di me. Era deserta in entrambe le direzioni fino a dove potevo scorgere. Aspettai alcuni minuti per orientarmi e per ricordarmi le istruzioni di don Vicente. Presi una pianta, mi inoltrai in un campo di cactus sul lato est della strada, e la piantai secondo le sue indicazioni. Avevo con me una bottiglia di acqua minerale con la quale volevo annaffiare la pianta. Cercai di aprirla battendo sul tappo con la barretta di ferro che avevo usato come strumento per scavare il terreno, ma la bottiglia esplose e una scheggia di vetro mi tagliò il labbro superiore facendolo sanguinare.
Ritornai alla macchina per prendere un’altra bottiglia d’acqua. Mentre la stavo estraendo dal bagagliaio, un uomo con ima Volkswagen station wagon si fermò e mi chiese se avessi bisogno di aiuto. Risposi che andava tutto bene e se ne andò. Tornai per bagnare la pianta, poi mi diressi di nuovo verso l’auto e quando fui a circa quaranta metri di distanza udii alcune voci. Mi affrettai giù da un pendio fino all’autostrada e trovai tre messicani vicino alla macchina, due uomini e una donna. Uno degli uomini, sulla quarantina, di media statura, con capelli neri e ricci, era seduto sul paraurti anteriore, con un fagotto sulla schiena, e indossava vecchi calzoni sportivi e una logora camicia di un rosa sbiadito. Aveva le stringhe slacciate e forse le scarpe erano troppo grandi per i suoi piedi: sembravano larghe e scomode. Sudava molto.
Il secondo uomo stava in piedi a circa dieci metri dall’auto. Aveva capelli lisci e pettinati all’indietro, una corporatura più minuta, ed era più basso dell’altro. Portava un piccolo fagotto ed era più vecchio, forse sulla cinquantina. I suoi indumenti erano in condizioni migliori, indossava una giacca blu scuro, pantaloni blu chiaro e scarpe nere. Non sudava per niente e sembrava tenersi in disparte, disinteressato.
Anche la donna pareva sulla quarantina, era grassa e aveva una carnagione molto scura. Indossava pantaloni a sigaretta neri e un maglioncino bianco, e portava scarpe nere a punta; non aveva un fagotto, ma una radio portatile a transistor. Sembrava molto stanca e il suo volto era imperlato di sudore.
Quando mi approssimai, l’uomo più giovane e la donna si avvicinarono: volevano un passaggio. Dissi che non avevo posto in macchina e feci vedere quanto il sedile posteriore fosse carico e non ci fosse veramente più spazio. L’uomo mi propose di guidare piano, così avrebbero potuto stare appollaiati sul paraurti posteriore o sdraiarsi sul cofano. Pensai che fosse un’idea strampalata. Ma c’era una tale urgenza nel loro appello che mi sentii molto triste e a disagio, quindi diedi loro del denaro per il biglietto dell’autobus.
L’uomo più giovane prese i soldi e mi ringraziò, ma quello più vecchio voltò le spalle sdegnosamente.
«Voglio un passaggio,» disse «non mi interessano i soldi.»
Poi si rivolse a me chiedendo: «Puoi darci del cibo o dell’acqua?».
Non avevo proprio nulla da dare loro e così rimasero a guardarmi per un momento, poi si allontanarono.
Montai in macchina e cercai di metterla in moto. Il caldo era molto intenso e il motore sembrava ingolfato. L’uomo più giovane si fermò quando sentì l’avviamento stridere, tornò indietro e si mise dietro l’auto, pronto a spingerla. Provai un’apprensione tremenda e ansimavo disperato. Il motore alla fine si avviò e filai via.
Dopo che ebbi terminato di raccontare, don Juan rimase pensieroso a lungo.
«Perché non me l’hai detto prima?» chiese senza guardarmi.
Non sapevo cosa rispondere, strinsi le spalle e gli dissi che non mi era mai venuto in mente che fosse importante.
«È dannatamente importante!» esclamò. «Vicente è uno stregone di prim’ordine. Ti ha dato qualcosa da piantare perché aveva i suoi motivi, e se hai incontrato tre persone che sembravano sbucate dal nulla appena dopo averlo fatto, c’era una ragione anche per questo, ma solo uno sciocco come te avrebbe potuto ignorare l’accaduto e pensare che non fosse importante.»
Volle sapere come si erano svolte esattamente le cose quando mi ero recato a fare visita a don Vicente.
Gli raccontai che stavo attraversando in auto la città quando, passando accanto al mercato, mi venne l’idea di cercare don Vicente. Vi entrai e mi diressi dove vendevano le erbe medicinali. C’erano tre bancarelle in fila, ma erano gestite da tre donne grasse, così camminai fino al termine della fila e trovai un altro banco dietro l’angolo. Lì vidi un uomo magro, di corporatura minuta e dai capelli bianchi. In quel momento stava vendendo una gabbietta per uccelli a una donna.
Aspettai lì vicino finché non rimase solo, e poi gli domandai se conosceva Vicente Medrano. Mi guardò senza rispondere.
«Cosa vuoi da questo Vicente Medrano?» chiese alla fine.
Gli dissi che ero venuto a fargli visita per conto di un suo amico, e feci il nome di don Juan. Il vecchio mi guardò per un istante e poi disse di essere Vicente Medrano, e che era al mio servizio. Mi invitò a sedermi e sembrava ben disposto, molto rilassato e sinceramente amichevole. Gli raccontai della mia amicizia con don Juan. Sentii che tra noi si creava un legame di simpatia immediato. Mi disse che conosceva don Juan da quando erano ventenni ed ebbe per lui solo parole di lode. Verso la fine della nostra conversazione disse in tono vibrante: «Juan è un vero uomo di sapere. Io, invece, mi sono soffermato solo per poco tempo sui poteri delle piante. Sono stato sempre interessato alle loro proprietà curative; ho persino collezionato libri di botanica, che ho venduto solo di recente».
Rimase in silenzio un momento e si strofinò il mento un paio di volte, come se cercasse la parola giusta.
«Si potrebbe dire che sono solo un uomo di sapere lirico» dichiarò. «Non sono come Juan, il mio fratello indiano!»
Don Vicente si zittì di nuovo per un istante. Il suo sguardo era vitreo e fissava a terra alla mia sinistra. Poi si voltò verso di me e disse quasi in un sussurro: «Oh, che voli alti spicca il mio fratello indiano!».
Don Vicente si alzò, sembrava che la nostra conversazione fosse terminata.
Se chiunque altro avesse fatto un’affermazione su un fratello indiano, l’avrei presa per un dozzinale luogo comune, ma il tono di don Vicente era così sincero e i suoi occhi così limpidi che mi incantò con l’immagine del suo fratello indiano che spiccava voli così alti, e credevo che volesse intendere proprio quello che aveva detto.
«Conoscenza Urica un accidente!» esclamò don Juan dopo che ebbi finito di raccontare la storia. « Vicente è un brujo. Perché sei andato a trovarlo?»
Gli ricordai che proprio lui mi aveva chiesto di fare visita a don Vicente.
«È assurdo!» affermò serio. «Ti dissi che, un giorno, quando avresti saputo come vedere, avresti dovuto andare a trovare il mio amico Vicente; ecco cosa dissi. A quanto pare non ascoltavi.»
Ribattei che non ci trovavo nulla di male nell’aver incontrato don Vicente, che ero rimasto affascinato dai suoi modi e dalla sua gentilezza.
Don Juan scosse la testa e, in tono quasi canzonatorio, espresse il suo smarrimento per ciò che definì la mia «fortuna sfacciata». Sottolineò che andare a trovare don Vicente era paragonabile a entrare nella tana di un leone armati di un ramoscello. Sembrava agitato, tuttavia non riuscivo a vedere nessun motivo che giustificasse la sua preoccupazione. Don Vicente era un uomo favoloso. Pareva così fragile e i suoi occhi, che mi turbavano in modo strano, lo facevano apparire quasi etereo. Chiesi a don Juan come una persona così bella potesse essere pericolosa.
«Sei un dannato sciocco» dichiarò, e parve oscurarsi per un momento. «Non ti causerà dolore volontariamente. Ma il sapere è potere, e una volta che un uomo intraprende la strada del sapere non è più responsabile di ciò che può accadere a chi entra in contatto con lui. Avresti dovuto fargli visita quando avessi conosciuto abbastanza per difenderti, non da lui, ma dal potere che ha imbrigliato e che, comunque, non è né suo né di nessun altro. Sentendo della nostra amicizia, Vicente dedusse che tu sapessi come proteggerti e allora ti ha fatto un regalo. Evidentemente gli piacevi e deve avertene fatto uno grande, e tu l’hai buttato via. Che peccato!»
— 24 maggio 1968
Avevo seccato don Juan tutto il giorno per farlo parlare del regalo di don Vicente, e gli avevo fatto notare più volte la necessità di prendere in considerazione il fatto che fossimo diversi; rimarcai come ciò che per lui era evidente, per me poteva essere incomprensibile.
«Quante piante ti ha dato?» mi chiese alla fine.
Risposi che erano quattro, ma a dire il vero non riuscivo a ricordare. Allora don Juan volle sapere esattamente cosa era successo dopo che avevo lasciato don Vicente e prima di essermi fermato sul lato della strada, ma non riuscivo a ricordare neanche questo.
«Il numero delle piante è importante così come lo è la successione dei fatti» affermò. «Come posso dirti qual era il suo regalo se non ti ricordi cosa successe?»
Invano mi sforzai di visualizzare la sequenza degli eventi.
«Se tu riuscissi a riportare alla mente tutto ciò che accadde, potrei almeno dirti come buttasti via il regalo.»
Sembrava molto turbato; mi incalzava con impazienza affinché ricordassi, ma la mia memoria era quasi del tutto vuota.
«Cosa pensi che abbia fatto di sbagliato, don Juan?» domandai, solo per continuare la conversazione.
«Tutto.»
«Ma seguii le istruzioni di don Vicente alla lettera.»
«E allora? Non capisci che seguire le sue istruzioni era insignificante?»
«Perché?»
«Perché quelle istruzioni erano destinate a qualcuno che fosse in grado di vedere, non a un idiota che ne esce incolume solo per pura fortuna. Andasti a trovare Vicente senza essere preparato, gli piacesti e ti diede un regalo, che avrebbe potuto anche costarti la vita.»
«Ma perché mi diede qualcosa di così importante? Se è uno stregone, avrebbe dovuto sapere che non so niente.»
«No, potrebbe non averlo visto. Sembri una persona che sa, ma, in verità, non sai molto.»
Affermai che ero sul serio convinto di non aver mai cercato di apparire diverso da quello che ero, o per lo meno non in modo deliberato.
«Non è quello che voglio dire» disse. «Se ti fossi dato delle arie, Vicente avrebbe potuto vedere attraverso di te. Qui si tratta di qualcosa di peggio. Quando ti vedo, mi dai l’impressione di essere ima persona che conosce molte cose, e tuttavia io so che non è vero.»
«Cosa sembra che sappia, don Juan?»
«Segreti di potere, naturalmente, il sapere di un brujo. Così, quando Vicente ti vide, ti fece un dono e ti comportasti al riguardo come un cane verso il cibo quando ha la pancia piena: quando non ne vuole mangiare più piscia sul cibo, così gli altri cani non lo mangeranno. Tu facesti questo con il regalo. Ora non verremo mai più a conoscenza di cosa successe veramente. Hai perso molto. Che spreco!»
Restò zitto per un po’, poi strinse le spalle e sorrise.
«È inutile dolersi, e tuttavia è difficile non farlo. Regali di potere capitano così di rado nella vita; sono unici e preziosi. Prendi me, per esempio: nessuno mi ha mai fatto un dono simile e, che io sappia, ci sono poche persone che ne abbiano mai avuto uno. Sprecare qualcosa di così unico è una vergogna.»
«Capisco cosa vuoi dire, don Juan. C’è qualcosa che posso fare ora per recuperare il regalo?»
Rise e ripetè diverse volte: «Per recuperare il regalo».
«Suona carino» concluse. «Mi piace. Tuttavia non c’è nulla che si possa fare per riavere il tuo dono.»
— 25 maggio 1968
Don Juan passò buona parte di quella giornata a mostrarmi il modo in cui costruire trappole per catturare piccoli animali. Avevamo tagliato e pulito rami quasi tutto il mattino. Avevo in mente molte domande e volevo parlargliene mentre lavoravamo, ma mi aveva fatto una battuta dicendo che solo io, tra noi due, riuscivo a muovere le mani e la bocca allo stesso tempo. Alla fine ci sedemmo a riposare e mi lasciai sfuggire una domanda.
«A cosa assomiglia vedere, don Juan?»
«Devi imparare a vedere per saperlo. Non posso dirtelo.»
«È un segreto che non devo conoscere?»
«No, semplicemente non riesco a descriverlo.»
«Perchè?»
«Non avrebbe senso per te.»
«Mettimi alla prova, don Juan. Forse per me avrà senso.»
«No. Devi farlo da solo. Una volta che avrai imparato, potrai vedere ogni singola cosa del mondo in modo diverso.»
«Allora, don Juan, tu non vedi più il mondo nel modo comune.»
«Vedo in entrambi i modi. Quando voglio guardare il mondo lo vedo come fai tu. Poi, quando voglio vederlo, lo guardo come so e lo percepisco in modo diverso.»
«Le cose sembrano sempre le stesse ogni volta che le vedi?»
«Le cose non cambiano. Sei tu che cambi il tuo modo di guardare, tutto qui.»
«Voglio dire, se vedi, per esempio, un albero, resta lo stesso tutte le volte che lo vedi?»
«No, cambia e tuttavia è lo stesso.»
«Ma se lo stesso albero cambia tutte le volte che lo vedi, il tuo vedere potrebbe essere una mera illusione.»
Rise e non rispose per un po’, ma sembrava che stesse pensando. Alla fine affermò: «Ogni volta che guardi le cose non le vedi. Le guardi soltanto, presumo, per accertarti che ci sia qualcosa. Quando un uomo non si preoccupa di vedere, ogni volta che guarda il mondo tutto gli sembra più o meno uguale. Quando impara a vedere, invece, tutto è uguale e allo stesso tempo non lo è. Ti dissi, per esempio, che un uomo è come un uovo. Ogni volta che vedo quell’uomo vedo un uovo, che però non è mai lo stesso uovo».
«Ma dato che niente rimane lo stesso, non saresti capace di riconoscere niente, e quindi cosa si guadagna a imparare a vedere?»
«Puoi riconoscere le cose. Puoi vederle come sono veramente.»
«Non vedo le cose come sono realmente?»
«No. I tuoi occhi hanno imparato solo a guardare. Prendi, per esempio, le tre persone che hai incontrato, i tre messicani. Li hai descritti dettagliatamente, e mi hai detto persino che indumenti indossavano. E questo mi ha dimostrato che non li vedesti affatto. Se tu fossi stato capace di vedere, avresti capito subito che non erano persone.»
«Non erano persone? Che cos’erano?»
«Non erano persone, ecco tutto.»
«Ma è impossibile. Erano proprio come te e me.»
«No, non lo erano. Ne sono sicuro.»
Gli chiesi se fossero fantasmi, spiriti, o le anime di persone defunte. La sua risposta fu che non sapeva cosa fossero i fantasmi, gli spiriti e le anime.
Tradussi per lui la definizione della parola «fantasma» dal Webster’s New World Dictionary. «Il supposto spirito disincarnato di una persona defunta, che si pensa si manifesti ai viventi come un’apparizione pallida e vaga». E poi la definizione di «spirito»: «Un essere soprannaturale, in modo particolare ritenuto (...) come un fantasma, o come abitante una certa regione, un essere di un certo carattere (buono o cattivo)».
Disse che potevano forse essere chiamati spiriti, benché la definizione che avevo letto non fosse abbastanza adeguata per descriverli.
«Sono come una specie di guardiani?» chiesi.
«No, non proteggono nulla.»
«Sono sorveglianti? Vigilano su di noi?»
«Sono forze, né buone né cattive, solo forze che un brujo impara a imbrigliare.»
«Sono gli alleati, don Juan?»
«Sì, sono gli alleati di un uomo di sapere.»
Negli otto anni della nostra relazione, questa era la prima volta in cui don Juan fosse quasi arrivato a definire un «alleato». Dovevo averglielo chiesto dozzine di volte, ma di solito ignorava la mia domanda, dicendo che sapevo cosa fosse un alleato e che era stupido esprimere ciò che già sapevo. Quell’affermazione esplicita di don Juan sulla natura di un alleato era una novità e sentii il desiderio di interrogarlo più a fondo.
«Mi hai detto che gli alleati erano nelle piante,» osservai «nell’erba del diavolo e nei funghi.»
«Non ho mai affermato questo» replicò con grande convinzione. «Salti sempre alle tue conclusioni.»
«Ma l’ho trascritto nei miei appunti, don Juan.»
«Puoi scrivere quello che vuoi, ma non inventare che te l’ho insegnato io.»
Gli ricordai come all’inizio mi avesse detto che l’alleato del suo benefattore era lo stramonio e il suo personale era il piccolo fumo; e in seguito aveva chiarito ciò affermando che un alleato era contenuto in ogni pianta.
«No, non è esatto» ribatté, guardando con il viso arcigno. «Il mio alleato è il piccolo fumo, ma ciò non significa che il mio alleato sia nel miscuglio da fumare, o nei funghi, o nella mia pipa. Devono essere messi tutti insieme per condurmi all’alleato, e quell’alleato lo chiamo “piccolo fumo” per ragioni mie personali.»
Don Juan disse che le tre persone da me viste, e da lui definite «quelle che non sono persone» - los qué no son gente - erano in realtà gli alleati di don Vicente.
Gli ricordai la differenza che aveva stabilito tra un alleato e Mescalito: un alleato non poteva essere visto, mentre Me- scalito si poteva vedere facilmente.
Ci immergemmo allora in una lunga discussione. Affermò che aveva stabilito l’impossibilità di vedere un alleato perché assumeva qualsiasi forma. Quando misi in rilievo che una volta aveva sostenuto che anche a Mescalito apparteneva la stessa capacità, don Juan lasciò cadere l’intera conversazione, perché, diceva, il «vedere» a cui si riferiva non era l’ordinario «guardare le cose», e la mia confusione dipendeva dalla mia insistenza a parlarne.
Alcune ore dopo fu lo stesso don Juan a riprendere di nuovo l’argomento degli alleati. Avevo avvertito che le mie domande lo irritavano, così non lo avevo pressato ulteriormente. In quel momento mi stava mostrando come preparare una trappola per conigli; dovevo tenere un lungo bastone e curvarlo quanto più possibile, così che potesse legare una corda intorno alle estremità. Il bastone era abbastanza sottile, ma era necessaria una notevole forza per piegarlo. La testa e le braccia mi tremavano per lo sforzo ed ero quasi esausto quando alla fine legò la corda.
Ci sedemmo e iniziammo a discorrere. Don Juan evidenziò che gli era ovvio il fatto che non riuscissi a capire nulla se non ne discutevano, che non gli importava delle mie domande e che aveva intenzione di parlarmi degli alleati.
«L’alleato non è nel fumo» spiegò. «Il fumo ti porta là dove è l’alleato, e quando diventi una cosa solo con l’alleato non devi mai più fumare. Da quel momento in poi puoi chiamare il tuo alleato a tuo piacere e fargli fare qualsiasi cosa tu voglia. Gli alleati non sono né buoni né cattivi, ma sono a disposizione degli stregoni per qualsiasi scopo sembri loro adatto. Mi piace il fumino come alleato perché non esige troppo da me. È fedele e leale.»
«Come ti appare un alleato, don Juan? Quelle tre persone che vidi, per esempio, che mi sembravano persone, sotto quali sembianze ti sarebbero apparse?»
«Mi sarebbero sembrate persone ordinarie.»
«Allora come puoi distinguerle da quelle vere?»
«Le persone vere appaiono come uova luminose quando le vedi. Quelle che non sono persone sembrano sempre persone. Intendevo questo quando dissi che non puoi vedere un alleato. Gli alleati assumono forme diverse, sembrano cani, coyote, uccelli, persino pianticelle, o qualsiasi altra cosa. L’unica differenza è che quando li vedi appaiono proprio come ciò che fingono di essere. Ogni cosa ha il proprio modo di essere quando vedi. Proprio come gli uomini sembrano uova, altre cose sembrano qualcos’altro, ma gli alleati possono essere visti solo nella forma che assumono. Quella sembianza è abbastanza credibile da ingannare gli occhi, o meglio, i nostri occhi. Un cane non s’inganna mai, e neanche un corvo.»
«Perché vorrebbero farsi beffe di noi?»
«Penso che siamo tutti buffoni: siamo noi a ingannare noi stessi. Gli alleati semplicemente assumono l’aspetto esteriore di qualsiasi cosa intorno a loro, e allora li scambiamo per ciò che non sono. Non è colpa loro se abbiamo insegnato ai nostri occhi solo a guardare le cose.»
«Non mi è chiara la loro funzione, don Juan. Cosa fanno gli alleati nel mondo?»
«Chiedere quale sia la funzione degli alleati equivale a chiedere quale sia quella degli uomini nel mondo. Non lo so veramente. Ci siamo, e questo è quanto. Gli alleati ci sono proprio come noi, e forse esistevano già prima di noi.»
«Che cosa intendi con prima di noi, don Juan?»
«Noi uomini non siamo sempre stati qui.»
«Intendi dire in questo paese o nel mondo?»
A questo punto ci immergemmo in un’altra lunga discussione. Don Juan dichiarò che, per lui, c’era solo il mondo, il posto dove poggiava i piedi. Gli chiesi come sapesse che non Ceravamo sempre stati.
«Semplicissimo» affermò. «Noi uomini sappiamo davvero poco sul mondo. Un coyote ne sa molto più di noi. Un coyote viene ingannato dalle apparenze mondane molto più difficilmente.»
«Come riusciamo a catturarli e a ucciderli?» domandai. «Se non sono ingannati dalle apparenze, come possono morire così facilmente?»
Don Juan mi fissò fino a che mi sentii in imbarazzo.
«Possiamo intrappolare, avvelenare o sparare a un coyote» disse. «Qualunque sia il modo in cui lo facciamo, il coyote è una preda facile per noi perché non ha familiarità con le trame umane. Se il coyote sopravvivesse, tuttavia, potresti stare sicuro che non lo riacchiapperemmo mai più. Un buon cacciatore lo sa e non piazza mai la sua trappola due volte nello stesso punto, perché se un coyote muore nella trappola, gli altri coyote potranno vedere la sua morte che aleggia, e perciò eviteranno la trappola o persino l’intera zona dove era piazzata. Noi, d’altra parte, non vediamo mai la morte aleggiare sul punto dove un nostro simile è morto, possiamo forse sospettarlo, ma non la vediamo mai.»
«Un coyote può vedere un alleato?»
«Certo.»
«Come appare un alleato a un coyote?»
«Dovrei essere un coyote per saperlo. Posso dirti, però, che a un corvo appare come un cappello conico, rotondo e largo al fondo, che termina in una lunga punta. Alcuni splendono, ma la maggior parte sono opachi e sembrano molto pesanti. Assomigliano a imo straccio inzuppato. Sono ombre di presagio.»
«Come ti appaiono quando li vedi, don Juan?»
«Te l’ho già detto, sembrano qualsiasi cosa fingano di essere. Assumono ogni forma o taglia che convenga loro. Potrebbero avere la forma di un ciottolo o di una montagna.»
«Parlano, ridono, o fanno qualche rumore?»
«In compagnia degli uomini si comportano come uomini, con gli animali si comportano come animali. In genere, gli animali ne hanno paura; ciò nonostante, se sono abituati a vederli, li lasciano stare. Anche noi facciamo qualcosa di simile: siamo circondati da una moltitudine di alleati, ma non li infastidiamo e, dato che i nostri occhi possono solo guardare le cose, non li notiamo.»
«Intendi dire che alcune persone che vedo per strada non sono veramente persone?» chiesi sconvolto dalla sua affermazione.
«Alcune di loro non lo sono» rispose con enfasi.
La sua affermazione mi parve strampalata, ma non potevo credere che don Juan facesse un’osservazione simile solo per stupirmi. Gli dissi che suonava come un racconto di fantascienza su creature di altri pianeti. Replicò che non gli importava come suonava, ma che alcune persone per strada non erano persone.
«Perché devi pensare che ogni persona in una folla sia un essere umano?» domandò con aria di estrema serietà.
Non fui in grado di spiegare il perché, potei solo confessare che ero abituato a crederlo come atto di pura fede da parte mia.
Continuò a raccontare di come gli piacesse osservare i luoghi affollati, e come qualche volta vedesse una folla di uomini che apparivano come uova, e fra quella massa di creature ne individuasse uno che sembrava proprio ima persona.
«È molto divertente farlo,» raccontò ridendo «o per lo meno lo è per me. Mi piace sedere al parco o nelle stazioni degli autobus e osservare. Qualche volta riesco a individuare un alleato immediatamente, altre volte riesco a vedere solo persone normali. Una volta vidi due alleati seduti fianco a fianco su un autobus ed è stata Tunica volta in vita mia che ne ho visti due insieme.»
«Aveva un significato particolare per te vederne due?»
«Certo. Tutto ciò che fanno è importante. Qualche volta un brujo può trarre il potere dalle loro azioni. Anche se un brujo non ha un suo alleato personale, finché sa vedere può manipolare il potere osservando le azioni degli alleati. Il mio benefattore mi insegnò a farlo, e per anni, prima che avessi il mio alleato, sono stato a osservare gli alleati in mezzo a folle di persone, e ogni volta che ne vedevo uno, mi insegnava qualcosa. Tu ne trovasti tre insieme: che lezione magnifica sprecata.»
Non aggiunse nient’altro fino a che non terminammo di costruire la trappola per conigli. Allora si girò verso di me e dichiarò all’improvviso, come se se lo fosse appena ricordato, che un’altra cosa importante sugli alleati era che se qualcuno ne trovava due, erano sempre dello stesso sesso. I due alleati che vide erano uomini, disse, e poiché io avevo visto due uomini e una donna, concludeva che la mia esperienza era ancora più insolita.
Gli chiesi se gli alleati assumevano sembianze di bambini; se questi bambini potevano essere dello stesso sesso o meno; se gli alleati prendevano la forma di persone di razze differenti; se potevano impersonare una famiglia composta da un uomo, una donna e un bambino; e, per finire, se aveva mai visto un alleato guidare una macchina o un autobus.
Don Juan non rispose nulla, ma sorrideva e mi lasciava parlare. Quando sentì l’ultima domanda scoppiò a ridere e rimarcò che ero stato impreciso nel formulare tutte le domande, che sarebbe stato più appropriato chiedere se avesse mai visto un alleato guidare un veicolo a motore.
«Non vuoi dimenticare le motociclette, vero?» disse con uno sguardo malizioso negli occhi.
Pensai che questo suo canzonare la mia domanda fosse divertente, e risi con lui.
Poi spiegò che gli alleati non potevano dominare o agire su qualcosa in modo diretto, ma potevano farlo sull’uomo in modo indiretto, ed entrare in contatto con un alleato era pericoloso perché era capace di tirare fuori il lato peggiore di una persona. L’apprendistato era lungo e arduo, continuò, perché per resistere all’impatto di un incontro simile si doveva ridurre al minimo tutto ciò che fosse superfluo nella vita. Don Juan raccontò che il suo benefattore, la prima volta che entrò in contatto con un alleato, fu spinto a bruciarsi e fu sfregiato come se un puma lo avesse assalito. Nel suo caso, aggiunse, un alleato lo spinse in una catasta di legna in fiamme, si bruciò un poco sul ginocchio e sulla scapola, ma le cicatrici scomparvero con il passare del tempo, quando divenne una cosa sola con l’alleato.
Il 10 giugno 1968 cominciai a fare un lungo viaggio con don Juan per partecipare a un mitote. Attendevo quest’occasione da mesi, tuttavia non ero veramente sicuro di voler andare. Pensavo che la mia esitazione fosse causata dalla paura di dover ingerire peyote in una cerimonia in suo onore, e non avevo nessuna intenzione di farlo. Avevo espresso più volte questi sentimenti a don Juan. All’inizio aveva riso pazientemente, ma alla fine affermò con risolutezza che non voleva più sentire nient’altro sulla mia paura.
Per quanto mi riguardava, un mitote era il terreno ideale per verificare il sistema che avevo costruito, perché non avevo mai del tutto abbandonato l’idea che fosse necessario un leader nascosto in una riunione di quel tipo per assicurare l’accordo tra i partecipanti. In qualche modo avevo la sensazione che don Juan avesse scartato la mia idea per ragioni personali, poiché riteneva più efficace spiegare ogni cosa che accadeva a un mitote in termini di «vedere». Pensai che il mio interesse nel trovare una spiegazione adeguata ai miei schemi non si accordasse con quello che voleva che io facessi; perciò doveva mettere da parte la mia base razionale, come era solito fare con qualsiasi cosa che non si conformasse al suo sistema.
Appena prima che iniziassimo il viaggio, don Juan calmò la mia paura di dover ingerire il peyote dicendomi che avrei partecipato alla riunione solo in qualità di osservatore.
Esultai. Ero pressoché certo che quella volta avrei scoperto la procedura nascosta con la quale i partecipanti arrivavano all’accordo.
Partimmo nel tardo pomeriggio; il sole era quasi all’orizzonte, sentivo il calore sul collo e avrei voluto avere una veneziana sul lunotto posteriore. Dalla cima della collina potevo vedere in basso in una valle immensa; la strada era come un nastro nero steso sul terreno, che correva su e giù lungo innumerevoli colline. La seguii con lo sguardo per un momento, prima che iniziassimo a scendere; andava dritta verso sud fino a scomparire in lontananza dietro una catena di basse montagne.
Don Juan sedeva in silenzio, guardando dritto davanti a sé. Non scambiavamo una parola da molto tempo e nell’auto c’era un caldo sgradevole. Avevo aperto tutti i finestrini, ma non era servito a niente, perché la giornata era torrida. Mi sentivo molto nervoso e irrequieto e iniziai a lamentarmi della temperatura.
Don Juan aggrottò le sopracciglia e mi guardò ironico.
«Fa caldo in tutto il Messico in questo periodo dell’anno. Non ci si può fare niente.»
Non lo guardai, ma sapevo che mi stava fissando. L’auto prese velocità scendendo dal pendio. Scorsi in modo vago un cartello stradale, «Vado» (cunetta). Quando lo vidi nitidamente stavo andando abbastanza veloce, e sebbene avessi rallentato avvertimmo comunque l’impatto e sobbalzammo sui sedili. Ridussi di molto la velocità perché stavamo attraversando una zona in cui il bestiame pascolava libero ai lati della strada ed era facile imbattersi nella carcassa di un cavallo o di una mucca investiti da un’automobile. A un certo punto dovetti fermarmi per permettere ad alcuni cavalli di attraversare l’autostrada. Stavo diventando ancora più inquieto e contrariato, e confessai a don Juan che il caldo, fin da quando ero piccolo, non mi era mai piaciuto, perché ogni estate mi sentivo soffocare e riuscivo a respirare a fatica.
«Adesso non sei più un bambino» affermò.
«Il caldo mi soffoca ancora.»
«Bene, la fame mi soffocava quando ero bambino» disse a bassa voce. «Avere molta fame era la sola cosa che conoscessi a quell’età, e di solito mi gonfiavo fino a che non riuscivo quasi più a respirare, ma era così quando ero piccolo: adesso non soffoco più, né posso gonfiarmi come un rospo quando ho fame.»
Non sapevo cosa dire. Sentivo che mi stavo cacciando in una posizione difficile e che presto avrei dovuto sostenere un punto di vista che non mi interessava difendere. Il caldo non era poi così negativo. Ciò che mi disturbava era la prospettiva di guidare per oltre milleseicento chilometri per giungere a destinazione e mi seccava il pensiero di dovermi affaticare.
«Fermiamoci e prendiamo qualcosa da mangiare» proposi. «Forse non farà così caldo dopo che il sole sarà tramontato.»
Don Juan mi guardò sorridendo e spiegò che non c’erano città pulite per un lungo tratto e che, da quanto aveva capito, io seguivo il criterio di non mangiare alle bancarelle lungo la strada.
«Non hai più paura della diarrea?» chiese.
Sapevo che era sarcastico, tuttavia assunse un’espressione inquisitoria e, allo stesso tempo, seria.
«Dal modo in cui ti comporti» proseguì «si potrebbe pensare che la diarrea sia qui fuori in agguato, aspettando che tu scenda dall’auto per saltarti addosso. Sei in un terribile dilemma: se sfuggi il caldo, alla fine la diarrea ti prenderà.»
Il tono di don Juan era così serio che iniziai a ridere, poi guidai in silenzio a lungo. Quando giungemmo a un posto di ristoro per camionisti chiamato «Los Vidrios» (I Vetri) era già abbastanza scuro.
Don Juan gridò dall’automobile: «Cosa c’è da mangiare oggi?».
«Carne di maiale» urlò in risposta una donna dall’interno.
«Mi auguro per il tuo bene che il maiale sia stato investito oggi» mi disse don Juan ridendo.
Scendemmo dalla macchina. La strada era fiancheggiata da entrambi i lati da file di montagne basse che sembravano essere la lava solidificata di una qualche gigantesca eruzione vulcanica. Nell’oscurità, le cime nere e dentellate si stagliavano contro il cielo come pareti minacciose e immense di schegge di vetro.
Mentre mangiavamo dissi a don Juan che potevo capire perché quel posto era chiamato Los Vidrios: era ovvio che il nome era dovuto alle sagome di frammenti vitrei delle montagne.
Don Juan replicò in tono convincente che il luogo era chiamato Los Vidrios perché un camion carico di vetri si era rovesciato proprio lì e i frammenti di vetro erano rimasti intorno alla strada per anni.
Sentii che stava scherzando e gli chiesi di dirmi se quella fosse la vera ragione.
«Perché non chiedi a qualcuno qui?» propose.
Domandai a un uomo che era seduto al tavolo di fianco, ma mi rispose con atteggiamento contrito che non lo sapeva. Entrai in cucina e ripetei la stessa domanda alle donne, ma tutte dissero che ignoravano il perché, sapevano solo che quel posto si chiamava Los Vidrios.
«Credo di aver ragione» concluse don Juan a bassa voce. «I messicani non sono portati a osservare le cose che li circondano. Sono sicuro che non riescono a notare le montagne di vetro, ma senza dubbio possono lasciare in giro una montagna di schegge di vetro per anni.»
Trovammo entrambi l’immagine divertente e ridemmo di gusto.
Quando finimmo di mangiare, don Juan mi chiese come stavo. Gli dissi di sentirmi bene, ma in realtà avevo la nausea. Don Juan mi diede un’occhiata risoluta e sembrò rilevare il mio disagio.
«Una volta deciso di venire in Messico, avresti dovuto mettere da parte tutte le tue paure meschine» mi ammonì con severità. «La tua decisione di tornare avrebbe dovuto farle svanire. Sei venuto perché volevi farlo. Questa è la via del guerriero. Te l’ho ripetuto molte volte, la maniera più efficace di vivere è vivere da guerriero. Un guerriero può preoccuparsi e riflettere prima di prendere una decisione, ma una volta che l’ha presa, va per la sua strada libero da timori e preoccupazioni; sono mille le decisioni che ancora lo attendono. Questa è la via del guerriero.»
«Credo di comportarmi così, almeno qualche volta. Però è molto difficile continuare a ricordarmelo.»
«Un guerriero pensa alla propria morte quando le cose si fanno nebulose.»
«Questo è ancora più difficile, don Juan. Per la maggior parte delle persone la morte è molto vaga e remota. Non ci pensiamo mai.»
«Perché no?»
«Perché dovremmo?»
«Molto semplice» rispose. «Perché l’idea della morte è la sola in grado di temprare il nostro spirito.»
Quando lasciammo Los Vidrios era così buio che i profili frastagliati delle montagne si erano fusi con l’oscurità del cielo. Guidai in silenzio per più di un’ora, mi sentivo stanco ed era come se non volessi parlare perché non c’era nulla da dire. Il traffico si era ridotto al minimo, poche auto passavano nella direzione opposta e sembrava che fossimo gli unici diretti a sud. Pensai che fosse strano e continuai a guardare nello specchietto retrovisore per scorgere altre auto dietro di noi, ma non se ne vedevano.
Dopo un po’ smisi di farlo e ricominciai a soffermarmi con il pensiero sullo scopo del nostro viaggio. Allora notai che i miei fari anteriori sembravano estremamente luminosi in contrasto con l’oscurità circostante, e guardai di nuovo nello specchietto retrovisore. Prima vidi una luce abbagliante, e poi due punti di luce che sembravano affiorati dal terreno. Erano i fari di un’auto su un’altura lontana dietro di noi. Restarono visibili per qualche tempo e poi svanirono nell’oscurità come se fossero stati spazzati via, ma solo per ricomparire dopo un istante su un’altura diversa, per poi scomparire di nuovo. Seguii a lungo nello specchietto il loro apparire e sparire. A un certo punto mi balenò l’idea che l’auto ci stesse raggiungendo: era sempre più vicina, perché le luci erano più grandi e luminose. Pigiai sull’acceleratore. Sentivo una sensazione di disagio. Don Juan sembrò notare la mia ansietà, o forse si era soltanto accorto che stavo accelerando. Prima mi guardò, poi si girò e osservò i fari lontani.
Mi chiese se c’era qualcosa che non andava. Gli raccontai che non avevo visto una macchina alle nostre spalle per ore, e che all’improvviso avevo notato i fari di un’auto che sembrava continuasse a guadagnare terreno su di noi.
Soffocò una risata e mi domandò se veramente credevo che fosse un’automobile. Gli dissi che doveva esserlo, e mi rispose che la mia agitazione rivelava che, in qualche modo, dovevo aver percepito che ciò che ci seguiva, qualunque cosa fosse, era qualcosa più di una semplice auto. Ribadii che credevo fosse solo un’altra macchina sulla strada, o forse un autocarro.
«Cos’altro potrebbe essere?» lo interrogai ad alta voce.
L’atteggiamento di don Juan mi aveva fatto venire i nervi a fior di pelle.
Si voltò e mi guardò dritto negli occhi, poi annuì adagio, come se stesse misurando ciò che stava per dire.
«Quei fari sono le luci sulla testa della morte» sussurrò. «La morte li indossa come fossero un cappello e poi parte al galoppo, guadagnando terreno su di noi, facendosi sempre più vicina.»
Un brivido mi salì per la schiena. Dopo un po’ guardai ancora nello specchietto retrovisore, ma i fari non c’erano più.
Dissi a don Juan che l’auto doveva essersi fermata o aver cambiato strada. Non guardò indietro, si stiracchiò solo le braccia e sbadigliò.
«No. La morte a volte spegne le luci, ma non si ferma mai.»
Giungemmo nel Messico nord-orientale il 13 giugno. Due anziane donne indiane - che si assomigliavano e sembravano sorelle - e quattro ragazze si erano riunite davanti alla porta di una piccola casa di mattoni. Dietro l’abitazione c’erano una capanna e un granaio in rovina, a cui era rimasta solo ima parte di tetto e una parete. Le donne ci stavano aspettando; dovevano aver individuato la mia auto dalla polvere sollevata sulla strada in terra battuta dopo che avevo lasciato quella asfaltata tre chilometri prima. La casa era situata in una vallata profonda, e la strada vista dalla porta sembrava una lunga cicatrice sul fianco delle verdi colline.
Don Juan scese dall’auto e parlò con le vecchie per un momento; esse indicarono alcuni sgabelli di legno di fronte alla porta. Mi fece segno di avvicinarmi e di sedermi. Una delle donne anziane si sedette con noi, le altre entrarono in casa. Due ragazze restarono sulla porta, esaminandomi con curiosità. Feci loro un cenno, ma ridacchiarono e corsero dentro. Dopo pochi minuti arrivarono due giovani uomini e salutarono don Juan. Non mi parlarono e non mi guardarono: scambiarono poche parole con don Juan, poi lui si alzò e tutti noi, donne comprese, ci dirigemmo verso un’altra casa, forse a meno di un chilometro di distanza.
Là incontrammo un altro gruppo di persone. Don Juan entrò, ma mi pregò di rimanere accanto alla porta. Guardai dentro e scorsi un vecchio indiano all’incirca della stessa età di don Juan seduto su uno sgabello di legno.
Non era ancora completamente buio. Alcuni giovani uomini e donne indiani stavano in piedi vicino a un vecchio autocarro parcheggiato di fronte alla casa. Parlai loro in spagnolo, ma non mi risposero; le donne ridacchiavano ogni volta che dicevo qualcosa e gli uomini sorridevano educatamente, allontanando lo sguardo. Era come se non mi capissero, ma ero sicuro che tutti parlassero spagnolo perché li avevo sentiti conversare tra loro.
Dopo un po’ don Juan e l’altro uomo anziano uscirono e salirono sull’autocarro sedendosi di fianco al guidatore. Quello sembrò il segnale per montare sul cassone. Non c’erano sponde laterali, e quando l’autocarro iniziò a muoversi ci aggrappammo tutti a ima lunga fune legata ad alcuni ganci sul telaio.
Il veicolo procedeva lento sulla strada in terra battuta. A un certo punto, su un pendio ripido, si fermò e tutti saltarono giù e si misero a camminare dietro; poi due giovani uomini montarono di nuovo sul cassone e si sedettero sulla sponda senza usare la fune. Le donne ridevano e li incoraggiavano a mantenere la posizione precaria. Don Juan e il vecchio, che veniva chiamato don Silvio, camminavano insieme e non sembravano curarsi degli istrionismi dei due giovani. Quando la strada fu in piano salimmo di nuovo tutti sull’autocarro.
Viaggiammo per circa un’ora. Il fondo era duro e scomodo, perciò mi alzai e mi tenni alla capote della cabina di guida e viaggiai così finché ci fermammo di fronte a un gruppo di capanne. Era già molto buio: c’erano più persone ma potevo vederne solo alcune alla luce pallida e giallastra di una lanterna a cherosene che pendeva da ima porta aperta.
Tutti scesero dall’autocarro e si unirono alla gente nelle case. Don Juan mi pregò di nuovo di rimanere fuori. Mi appoggiai al paraurti anteriore e dopo uno o due minuti fui raggiunto da tre giovani uomini. Avevo incontrato uno di loro quattro anni prima, a un precedentemitote. Mi abbracciò afferrandomi gli avambracci.
«Ti trovo bene» mi bisbigliò in spagnolo.
Restammo quieti vicini all’autocarro. Era una notte calda e ventosa e potevo sentire il gorgoglio sommesso di un
ruscello vicino. Il mio amico mi chiese sottovoce se avessi delle sigarette e feci girare un pacchetto. Al chiarore della brace delle sigarette guardai l’orologio: erano le nove.
Un istante dopo un gruppo di persone uscì dalla casa e i tre giovani uomini si allontanarono. Don Juan venne da me e mi disse di aver spiegato la mia presenza soddisfacendo tutti, e che ero il benvenuto per servire l’acqua al mitote. Poi aggiunse che ci saremmo andati subito.
Una comitiva di dieci donne e undici uomini lasciò la casa. Il leader era piuttosto robusto, sui cinquantacinque anni, forse. Lo chiamavano «Mocho», un soprannome che significa «mozzato». Si muoveva con passi decisi e svelti, portando una lanterna a cherosene che faceva ondeggiare da una parte all’altra mentre camminava. All’inizio pensai che la muovesse a casaccio, ma poi scoprii che lo faceva per segnalare un ostacolo o un passaggio difficile sulla strada. Camminammo per più di un’ora, mentre le donne chiacchieravano e di tanto in tanto ridevano piano. Don Juan e l’altro vecchio erano in testa alla fila, io ero proprio in fondo e tenevo gli occhi fissi sulla strada, cercando di vedere dove mettevo i piedi.
Erano passati quattro anni dall’ultima volta in cui ero stato sulle colline di notte insieme a don Juan, e avevo perso molto della mia prestanza fisica: continuavo a inciampare e a calciare accidentalmente piccoli sassi, le mie ginocchia non avevano alcuna flessibilità e la strada sembrava alzarsi davanti a me quando incontravo un’altura, o cedere sotto di me a ogni avvallamento. Nel camminare ero il più rumoroso ed ero diventato, mio malgrado, un pagliaccio. Ogni volta che inciampavo qualcuno nel gruppo diceva «Woo» e tutti ridevano. A un certo punto, uno dei sassi che avevo calciato colpì il tallone di una donna che gridò ad alta voce, per il divertimento generale: «Date una candela a questo povero ragazzo!». Ma subii la mortificazione definitiva quando inciampai e fui costretto ad aggrapparmi alla persona davanti a me, che quasi perse l’equilibrio sotto il mio peso e lanciò apposta un urlo spropositato. Tutti risero così di gusto che l’intero gruppo dovette fermarsi per un po’.
A un certo punto il leader alzò e abbassò la lanterna: sembrava il segnale che eravamo giunti a destinazione. Poco lontano, sulla mia destra, si stagliava la sagoma scura di una casa bassa. Il gruppo si sparpagliò in direzioni diverse; allora cercai don Juan, ma era difficile trovarlo nell’oscurità. Per un po’ incespicai facendo rumore prima di notare che era seduto su un masso.
Mi spiegò di nuovo che avevo il compito di portare l’acqua agli uomini che stavano per partecipare; mi aveva insegnato la procedura anni prima e ne ricordavo ogni dettaglio, ma insistette nel rinfrescarmi la memoria mostrandomi ancora come farlo.
In seguito andammo nel retro della casa dove si erano radunati tutti gli uomini. Avevano acceso un fuoco e c’era uno spiazzo pulito coperto da stuoie di paglia a circa cinque metri dal fuoco. Mocho, l’uomo che ci aveva guidato, si sedette per primo su una stuoia e notai che gli mancava il margine superiore dell’orecchio sinistro, cosa che spiegava il suo soprannome. Don Silvio si sedette alla sua destra e don Juan alla sinistra. Mocho era seduto di fronte al fuoco. Un giovane uomo venne verso di lui e depose un cesto con i boccioli di peyote, poi si sedette tra Mocho e don Silvio, un altro portò due cesti e li posò vicino ai boccioli di peyote e poi si sedette tra Mocho e don Juan, infine altri due si misero a fianco di don Silvio e di don Juan, chiudendo un cerchio di sette persone. Le donne restarono in casa. Due giovani erano incaricati di tenere il fuoco acceso tutta la notte, e io, insieme a un ragazzino, tenevo l’acqua destinata ai sette partecipanti dopo il rito, che durava tutta la notte. Ci sedemmo vicino a una roccia. Il fuoco e il recipiente dell’acqua erano posti uno di fronte all’altro e stavano a un’uguale distanza dal cerchio dei partecipanti.
Mocho, il capo, cantò la sua canzone in onore del peyote aveva gli occhi chiusi e dondolava su e giù. Fu una canzone molto lunga, di cui non capii le parole. Poi ognuno di loro intonò il proprio canto in onore del peyote. Non sembrava che seguissero un ordine prestabilito, evidentemente cantavano quando si sentivano di farlo. Poi Mocho prese il cesto con i boccioli di peyote, ne levò due e lo rimise al centro del cerchio; don Silvio lo seguì e dopo fu la volta di don Juan. I quattro giovani uomini, che sembravano un gruppo a parte, presero due boccioli di peyote ciascuno, seguendo un senso antiorario.
Ogni partecipante cantò e ingerì due boccioli per quattro volte consecutive, poi passarono gli altri due cesti che contenevano frutta e carne secche.
Ripeterono questo ciclo a più riprese durante la notte, ma non riuscivo a individuare un qualche ordine sottinteso in base ai loro movimenti individuali. Non si parlavano, sembravano piuttosto essere per conto loro e da soli. Non vidi nessuno, neppure una volta, prestare attenzione a ciò che stavano facendo gli altri.
Prima dell’alba si alzarono e io, insieme al ragazzo, diedi loro l’acqua, poi girovagai per orientarmi. La casa era una capanna di una stanza, una costruzione bassa di mattoni, con il tetto coperto di paglia. Il panorama che la circondava era piuttosto opprimente. La capanna era situata in una pianura aspra con vegetazione mista: arbusti e cactus crescevano insieme, ma non si vedeva ombra di un albero. Non me la sentii di avventurarmi oltre la casa.
Le donne partirono in mattinata. Gli uomini passeggiavano in silenzio nello spiazzo che circondava l’abitazione. Verso mezzogiorno ci sedemmo nello stesso ordine della notte precedente. Fu fatto girare un cesto con pezzetti di carne secca della grandezza del bocciolo dipeyote. Alcuni uomini intonarono la loro canzone in onore del peyote. Dopo circa un’ora si alzarono tutti e andarono in direzioni diverse.
Le donne avevano lasciato una pentola di farina d’avena per gli addetti al fuoco e all’acqua, così ne mangiai un po’ e poi dormii per quasi tutto il pomeriggio.
Quando calò il buio, i giovani uomini incaricati del fuoco ne fecero un altro e il ciclo dell’assunzione dei boccioli di peyote ricominciò. Fu seguito pressappoco lo stesso ordine della notte precedente e terminò all’alba.
Durante la notte mi sforzai di osservare e registrare ogni singolo movimento fatto da ognuno dei sette partecipanti, nella speranza di scoprire la forma più sottile di un sistema individuabile di comunicazione verbale o non verbale. Non c’era nulla nelle loro azioni, però, che rivelasse un sistema sottostante.
All’inizio della sera fu ripreso il ciclo dell’assunzione di peyote. Il mattino dopo sapevo che era completamente fallito il mio tentativo di trovare segnali indicanti il leader nascosto, o una qualsiasi forma di comunicazione occulta, oppure qualche traccia del loro sistema di accordo. Per il resto della giornata stetti seduto in disparte e cercai di mettere in ordine i miei appunti.
Quando gli uomini si riunirono di nuovo per la quarta notte sapevo, in qualche modo, che sarebbe stato l’ultimo incontro. Nessuno mi aveva detto niente al riguardo, però avevo l’impressione che si sarebbero divisi il giorno successivo. Sedetti di nuovo vicino all’acqua e tutti presero le loro posizioni nell’ordine già stabilito.
Il comportamento dei sette uomini nel cerchio fu una replica di quello che avevo osservato durante le tre notti precedenti: fui assorbito dai loro movimenti come era già successo prima. Volevo imprimere nella mia mente tutto ciò che facevano, ogni movimento, ogni espressione, ogni gesto.
A un certo punto sentii come un ronzio nell’orecchio, ma non ci prestai attenzione. Il suono divenne più intenso, ma era ancora a livello delle mie sensazioni fisiche ordinarie. Ricordavo di aver diviso la mia attenzione tra l’osservare gli uomini e ascoltare il ronzio che sentivo, poi, a un certo momento, i loro volti sembrarono diventare più luminosi, come se fosse stata accesa una luce, ma non era proprio come una luce elettrica, o una lanterna, o il riflesso del fuoco sui loro visi, era piuttosto un’iridescenza, una luminosità rosa, molto tenue, tuttavia individuabile dal punto in cui mi trovavo. Il ronzio sembrò intensificarsi. Guardai il ragazzo che era con me, ma si era addormentato.
La luminosità rosa si faceva ormai più visibile. Osservai don Juan: aveva gli occhi chiusi, e così anche don Silvio e Mocho. Non potevo vedere gli occhi dei quattro uomini più giovani perché due erano chini e gli altri due mi voltavano le spalle.
Continuai a osservare sempre più attentamente, anche se non avevo del tutto realizzato che stavo davvero sentendo un ronzio e vedendo una luminescenza rosacea aleggiare sugli uomini. Dopo un po’ mi resi conto che la tenue luce rosa e il ronzio erano costanti. Provai un attimo di intenso smarrimento e un pensiero mi attraversò la mente, un pensiero che non aveva nulla a che fare con la scena di cui ero testimone, né con lo scopo che avevo in testa quando ero venuto. Mi ricordai qualcosa che una volta mia madre mi aveva detto quando ero bambino. Il pensiero mi distraeva ed era molto inopportuno; cercai di allontanarlo per tornare a immergermi nella mia assidua osservazione, ma non ci riuscivo, perché si ripresentava più forte, più esigente, e quindi udii nitida la voce di mia madre che mi chiamava, sentii il passo trascinato delle sue ciabatte e poi la sua risata. Mi guardai intorno cercandola, immaginai che stavo per essere trasportato nel tempo da una sorta di allucinazione o miraggio e che fossi sul punto di vederla, ma vidi solo il ragazzo che dormiva accanto a me. Questo mi scosse, e per un breve istante mi sentii sollevato e calmo.
Guardai di nuovo il gruppo di uomini: non avevano per nulla cambiato la loro posizione, ma la luminosità era svanita, così come il ronzio nelle mie orecchie. Mi sentii risollevato. Pensai che l’allucinazione in cui avevo udito la voce di mia madre fosse svanita. La voce era stata chiara e vivida e continuavo a ripetermi che, per un istante, mi aveva quasi catturato. Notai vagamente che don Juan mi stava guardando, ma non mi importava: a ipnotizzarmi era il ricordo della voce di mia madre che mi chiamava. Cercai in tutti i modi di pensare ad altro, ma la sentii di nuovo, così chiara da darmi l’impressione che fosse dietro di me: pronunciava il mio nome. Mi voltai di scatto, ma tutto ciò che vidi fu l’ombra scura della capanna e degli arbusti che stavano oltre.
Sentirmi chiamare mi provocò un’angoscia profonda e senza volerlo emisi un gemito: avevo freddo, mi sentivo molto solo e iniziai a piangere. In quel momento ebbi la sensazione di aver bisogno che qualcuno si prendesse cura di me, e mi voltai per guardare don Juan, che mi stava fissando. Non volevo vederlo, così chiusi gli occhi, e allora vidi mia madre. Non era il pensiero di mia madre, il modo in cui la penso di solito, ma era una visione chiara di lei, in piedi vicino a me. Mi sentivo disperato, tremavo e volevo scappare. Quella immagine era troppo molesta, troppo estranea a ciò che ero venuto a cercare in quella cerimonia in onore del peyote. Evidentemente non esisteva un modo cosciente per evitarla. Forse avrei potuto aprire gli occhi se avessi desiderato sul serio che svanisse, invece la scrutai nei dettagli. Il mio esame non si limitò a una semplice osservazione; era una verifica compulsiva e una valutazione. Una sensazione molto particolare s’impadronì di me come se fosse ima forza esterna, e all’improvviso percepii il fardello tremendo dell’amore di mia madre. Quando udii il mio nome mi sentii dilaniato; il ricordo di mia madre mi riempiva di angoscia e malinconia, ma quando la esaminai capii che non l’avevo mai amata. Fu una scoperta sconvolgente. Pensieri e immagini mi investirono come una valanga. Nel frattempo quella visione doveva essere svanita: non era più importante e non mi interessava più nemmeno quello che stavano facendo gli indiani; di fatto, avevo dimenticato il mitote. Ero assorto in una serie di pensieri straordinari, tali perché erano più che pensieri: erano unità complete di sensazione, certezze emotive, evidenze indubitabili sulla natura della relazione con mia madre.
A un certo punto, questi pensieri incredibili cessarono e notai che avevano perso la loro fluidità e la loro qualità di unità complete di sensazione. Avevo iniziato a riflettere su altre cose e la mia mente stava divagando. Pensai ad altri membri della mia famiglia, ma non c’era nessuna immagine ad accompagnare i miei pensieri. Poi guardai don Juan: era in piedi, come gli altri, e tutti stavano dirigendosi verso l’acqua. Mi girai e scossi il ragazzo che stava ancora dormendo.
Quasi non aspettai che don Juan fosse salito in macchina per raccontargli la sequenza della mia stupefacente visione. Rise di gusto e dichiarò che la mia visione era un segno, un presagio tanto importante quanto la mia prima esperienza con Mescalito. Ricordai che don Juan aveva interpretato le reazioni quando ingerii il peyote per la prima volta come un presagio della massima importanza, e infatti decise di trasmettermi il suo sapere per quel motivo.
Don Juan disse che durante l’ultima notte del mitote Me- scalito si era librato su di me in modo così evidente che tutti erano stati obbligati a voltarsi nella mia direzione, e per questo mi stava fissando quando lo guardai.
Volevo sentire la sua interpretazione della mia visione, ma non ne voleva parlare. Affermò che qualunque cosa avessi sperimentato era insignificante se paragonata al presagio.
Don Juan continuò a parlare della luce di Mescalito che aleggiava su di me e di come tutti l’avessero vista.
«È stato veramente qualcosa d’importante» proseguì. «Non avrei potuto chiedere un presagio migliore.»
Don Juan e io seguivamo due direzioni diverse di pensiero. Lui era interessato all’importanza dei fatti che aveva interpretato come un presagio, mentre io ero ossessionato dai dettagli della visione che avevo avuto.
«Non m’importa dei presagi» dissi. «Voglio sapere cosa mi è successo.»
Aggrottò le sopracciglia come se fosse turbato e restò rigido e silenzioso per un momento, poi mi guardò. Il suo tono era forzato. Ribadì che l’unico risultato importante era che Mescalito era stato molto gentile con me, mi aveva inondato con la sua luce e mi aveva dato una lezione senza altro sforzo da parte mia che non fosse quello di essere presente.
Il 4 settembre 1968 mi recai a Sonora per andare a trovare don Juan. Seguendo una richiesta fattami da lui durante la mia visita precedente mi fermai sulla strada, a Hermosil- lo, a comprargli una tequila, chiamata bacanora, che non si trovava in commercio. Lì per lì la sua richiesta mi era parsa molto strana, poiché sapevo che non gli piaceva bere, ma comprai quattro bottiglie e le misi in uno scatolone con altre cose che gli avevo portato.
«Perché hai preso quattro bottiglie?» chiese ridendo, quando aprì la scatola. «Ti avevo detto di comprarne una. Credo tu abbia pensato che la bacanora fosse per me, ma è per mio nipote Lucio, e devi dargliela come se fosse un tuo regalo personale.»
Avevo conosciuto il nipote di don Juan due anni prima, quando aveva ventotto anni. Ricordavo che era alto, oltre il metro e ottanta, e vestiva sempre in modo ricercato e stravagante sia per le sue possibilità sia in confronto ai suoi coetanei. Mentre la maggior parte degli Yaqui indossava camicie cachi e Levi’s, paghette e sandali di produzione artigianale chiamati huaraches, l’abbigliamento di Lucio comprendeva una costosa giacca in pelle nera con frange di perline turchesi, un cappello da cowboy texano e un paio di stivali decorati a mano con le sue iniziali.
Lucio fu contento di ricevere il liquore e portò subito le bottiglie in casa per metterle via. Don Juan commentò in modo casuale che non si dovrebbe mai fare incetta di liquore né bere da soli, il nipote replicò che non cercava per nulla di accaparrarselo, ma che lo riponeva fino a sera, quando avrebbe invitato i suoi amici a bere con lui.
Quella sera verso le sette tornai a casa di Lucio. Era buio e individuai con fatica le sagome vaghe di due persone in piedi sotto un piccolo albero: erano Lucio e un suo amico che mi aspettavano e che mi guidarono alla casa con una torcia elettrica.
La casa di Lucio era una costruzione poco solida di due stanze, con il pavimento in terra battuta e i muri di cannicciata ricoperta di argilla; era lunga circa sei metri e retta da travi relativamente sottili di legno di mesquite. Come tutte le case degli Yaqui aveva un tetto piatto e di paglia e una ramada, cioè una specie di tettoia che ripara l’intera facciata della casa, di tre metri circa. La ramada non è mai di paglia, ma è fatta di rami intrecciati e crea abbastanza ombra, ma permette alla brezza fresca di circolare.
Come entrai in casa, accesi il registratore che avevo nella valigetta. Lucio mi presentò ai suoi amici. C’erano otto uomini in casa, compreso don Juan, seduti in modo casuale intorno al centro della stanza e sotto la luce viva di una lanterna a petrolio che pendeva da una trave. Don Juan stava seduto su uno scatolone, mi sedetti di fronte a lui all’estremità di ima panca di due metri circa, fatta con una grossa trave di legno inchiodata su due paletti biforcuti piantati in terra.
Don Juan aveva messo il suo cappello sul pavimento, di fianco a lui. La luce della lanterna a petrolio rendeva i suoi capelli corti e bianchi di un bianco più brillante. Guardai il suo volto, la luce intensificava le rughe profonde sul collo e sulla fronte, e lo faceva sembrare più scuro e più vecchio.
Osservai gli altri uomini: sotto la luce bianco-verdastra della lanterna sembravano tutti stanchi e vecchi.
Lucio si rivolse all’intero gruppo in spagnolo e disse ad alta voce che stavamo per bere una bottiglia di bacanora che gli avevo portato da Hermosillo. Andò nell’altra stanza, tirò fuori una bottiglia, la stappò e me la porse con una piccola tazza di latta. Ne versai una piccolissima dose e la bevvi. La bacanora sembrava più aromatica e più densa della tequila normale, e anche più forte. Mi fece tossire. Passai la bottiglia e ognuno se ne versò un bicchierino, tutti eccetto don Juan, che si limitò a prendere la bottiglia e a metterla davanti a Lucio, che era l’ultimo della fila.
Tutti fecero commenti animati sull’aroma ricco di quella particolare bottiglia, e tutti furono d’accordo che quel liquore doveva provenire dalle alte montagne di Chihuahua.
La bottiglia fece un secondo giro. Gli uomini schioccarono le labbra, ripeterono i loro elogi e si immersero in una vivace discussione circa le differenze rilevabili tra la tequila prodotta nella zona di Guadalajara e quella degli alti rilievi di Chihuahua.
Anche durante il secondo giro don Juan non bevve e io me ne versai solo un goccio, ma gli altri riempirono la tazza fino all’orlo. La bottiglia girò un’altra volta e finì.
«Prendi le altre bottiglie, Lucio» esclamò don Juan.
Il nipote sembrò esitare, e don Juan spiegò agli altri che avevo portato quattro bottiglie per Lucio.
Benigno, un uomo dell’età di Lucio, scrutò la valigetta che avevo appoggiato dietro di me in modo che non desse nell’occhio e chiese se fossi un venditore di tequila. Don Juan rispose di no, che in realtà ero venuto a Sonora per vedere lui.
«Carlos sta imparando a conoscere Mescalito e lo sto istruendo» dichiarò.
Tutti mi guardarono e sorrisero educatamente. Bajea, il boscaiolo, un uomo basso e minuto con lineamenti marcati, mi fissò per un istante e poi disse che il magazziniere mi aveva accusato di essere una spia di una compagnia americana che stava progettando di fare lavori di scavo nella terra Yaqui. Reagirono tutti come se tale accusa li avesse fatti indignare. D’altra parte, serbavano rancore verso il magazziniere, che era un messicano, o uno Yori, come dicono gli Yaqui.
Lucio andò nell’altra stanza e ritornò con un’altra bottiglia di bacanora, la aprì, se ne versò una dose abbondante e la fece girare. La conversazione scivolò sulle probabilità che una compagnia americana venisse a Sonora e sul suo possibile effetto sugli Yaqui. La bottiglia tornò a Lucio, che la sollevò e guardò il suo contenuto per vedere quanto ne fosse rimasto.
«Digli di non preoccuparsi» mi sussurrò don Juan. «Digli che gliene porterai di più la prossima volta che tornerai nei paraggi.»
Mi piegai verso Lucio e gli assicurai che, alla mia prossima visita, gli avrei portato almeno mezza dozzina di bottiglie.
A un certo punto sembrarono mancare gli argomenti di conversazione.
Don Juan si voltò verso di me e propose ad alta voce: «Perché non racconti ai ragazzi i tuoi incontri con Mesca- lito? Credo che sarebbe molto più interessante di queste chiacchiere vane su ciò che potrebbe accadere se la compagnia americana arrivasse a Sonora».
«Mescalito è il peyote, nonno?» chiese Lucio incuriosito.
«Alcuni lo chiamano così» rispose don Juan in modo asciutto. «Io preferisco chiamarlo Mescalito.»
«Quella cosa maledetta causa la pazzia» commentò Genaro, un uomo di mezza età, alto e robusto.
«Credo sia stupido dire che Mescalito causi la pazzia» affermò gentile don Juan. «Perché se fosse così, Carlos sarebbe, proprio adesso, in una camicia di forza invece di essere qui, a parlare con voi. Ne ha fatto uso e guardatelo: sta bene.»
Bajea sorrise e ribatté sospettosamente: «Chi può dirlo?» e tutti risero.
«Allora guarda me» continuò don Juan. «Ho conosciuto per quasi tutta la mia vita Mescalito e non mi ha mai fatto male.»
Gli uomini non risero, ma era ovvio che non lo prendevano sul serio.
«D’altra parte,» proseguì don Juan «è vero che Mesca- lito conduce le persone alla follia, come dici tu, ma solo quando si va da lui senza sapere quello che si fa.»
Esquere, un vecchio che sembrava avere la stessa età di don Juan, rise di soppiatto mentre scuoteva la testa.
«Cosa intendi per “sapere”, Juan?» chiese. «L’ultima volta che ti ho visto dicevi la stessa cosa.»
«Le persone impazziscono sul serio quando prendono quella porcheria di peyote» continuò Genaro. «Ho visto gli indiani Huichol mangiarlo. Si comportavano come se avessero avuto la rabbia, schiumavano dalla bocca, vomitavano e pisciavano ovunque. Potresti contrarre l’epilessia se prendi quella porcheria. Questo è ciò che mi ha detto una volta il signor Salas, l’ingegnere governativo. E, come sai, l’epilessia dura per tutta la vita.»
«E peggio che essere animali» aggiunse Bajea in modo solenne.
«Hai visto solo ciò che volevi vedere degli indiani Hui- chol, Genaro» replicò don Juan. «Innanzitutto, non ti sei mai preso il disturbo di scoprire da loro cosa significhi fare la conoscenza di Mescalito. Mescalito non ha mai fatto diventare epilettico nessuno, che io sappia. Un ingegnere governativo è uno Yori e dubito che uno Yori sappia qualcosa al riguardo. Non penserai sul serio che tutte le migliaia di persone che conoscono Mescalito siano pazze, vero?»
«Devono essere pazze, o molto vicine all’esserlo, per fare una cosa simile» rispose Genaro.
«Ma se tutte le migliaia di persone fossero pazze contemporaneamente, come svolgerebbero il loro lavoro? Come si destreggerebbero per sopravvivere?» chiese don Juan.
«Macario, che viene dall’“altra parte” (gli Stati Uniti), mi disse che chiunque lo prende è segnato per tutta la vita» rispose Esquere.
«Macario mente se dice una cosa simile» affermò don Juan. «Sono sicuro che non sa di cosa sta parlando.»
«Racconta veramente troppe bugie» ammise Benigno.
«Chi è Macario?» chiesi.
«È un indiano Yaqui che vive qui» disse Lucio. «Sostiene di venire dall’Arizona e che era in Europa durante la guerra. Racconta ogni genere di storie.»
«Narra di essere stato un colonnello!» aggiunse Benigno.
Tutti risero e, per un po’, la conversazione si spostò sulle incredibili storie di Macario, ma don Juan tornò ancora sull’argomento di Mescalito.
«Se voi tutti sapete che Macario è un bugiardo, come potete credergli quando parla di Mescalito?»
«Vuoi dire ‘A peyote, nonno?» domandò Lucio, come se davvero stesse tentando di ricavare il senso dalla parola.
«Sì, dannazione!»
Il tono di don Juan era tagliente e brusco, Lucio indietreggiò involontariamente, e per un momento credetti che tutti si fossero spaventati; poi don Juan fece un grande sorriso e continuò gentile.
«Non credete, amici, che Macario non sappia di cosa parla? Non credete che per parlare di Mescalito sia necessario sapere?»
«Eccoti lì di nuovo» intervenne Esquere. «Cosa diavolo è questo sapere? Sei peggio di Macario. Almeno lui dice cosa ha in mente, che lo sappia o meno. Per anni sono stato a sentirti dire che dobbiamo sapere. Ma che cosa?»
«Don Juan dice che c’è uno spirito nel peyote» disse Benigno. «Ho visto il peyote nei campi, ma non ho mai visto spiriti o cose del genere» aggiunse Bajea.
«Mescalito è come uno spirito, forse» spiegò don Juan. «Ma qualsiasi cosa sia, non diventa chiaro fin quando non si sa di lui. Esquere si lamenta che lo sto ripetendo da anni. Bene, è vero, ma non è colpa mia se non mi capite. Bajea dice che chiunque lo prende diventa come un animale. Non la vedo in questo modo. Per me quelli che pensano di essere superiori agli animali vivono peggio di loro. Guardate mio nipote: lavora senza sosta e potrei dire che vive per lavorare, come un mulo, tutto ciò che fa di diverso dalle bestie è ubriacarsi.»
Ridemmo tutti. La risata di Victor, un uomo molto giovane che sembrava ancora adolescente, fu la più acuta.
Eligio, un giovane contadino, non aveva proferito una sola parola fino a quel momento. Era seduto per terra alla mia destra, con la schiena contro alcuni sacchi di concime chimico che erano stati accatastati in casa al riparo dalla pioggia. Era un amico d’infanzia di Lucio, aveva un aspetto virile e, sebbene fosse più basso di lui, sembrava più tarchiato e strutturato meglio. Eligio sembrava interessato alle parole di don Juan, e interruppe Bajea che cercava di replicare con un commento.
«In che modo il peyote cambierebbe tutto questo?» chiese. «Mi sembra che un uomo nasca per lavorare tutta la vita, come fanno i muli.»
«Mescalito cambia ogni cosa,» affermò don Juan «però dobbiamo continuare a lavorare ancora come tutti gli altri, come muli. Ho detto che c’è uno spirito in Mescalito perché ciò che provoca un cambiamento negli uomini è qualcosa simile a uno spirito, uno spirito che possiamo vedere e toccare, che ci trasforma, a volte contro la nostra volontà.»
«Il peyote ti fa andare fuori di testa» dichiarò Genaro «e allora è naturale che credi di essere cambiato. Giusto?»
«Come ci può trasformare?» insistette Eligio.
«Ci insegna il modo giusto di vivere» asserì don Juan. «Aiuta e protegge coloro che lo conoscono. La vita che voi conducete, amici, non è per niente vita. Non conoscete la felicità che deriva dal fare le cose in modo consapevole. Non avete un protettore!»
«Cosa intendi?» chiese Genaro indignato. «Lo abbiamo di certo. Il nostro Signore Gesù Cristo, e la Vergine nostra Madre, e la piccola Vergine di Guadalupe. Non sono forse i nostri protettori?»
«Bel branco di protettori!» commentò ironico don Juan. «Vi hanno insegnato un modo migliore di vivere?»
«Questo capita perché la gente non li ascolta» protestò Genaro «e presta attenzione solo al diavolo.»
«Se fossero veri protettori d obbligherebbero ad ascoltare» ribattè don Juan. «Se Mescalito diventa il tuo protettore dovrai ascoltarlo che tu lo voglia o no, perché lo puoi vedere e sei costretto a prestare attenzione a ciò che dice. Farà in modo che tu lo avvicini con rispetto, non nella maniera in cui voi, amici, siete abituati ad accostarvi ai vostri protettori.»
«Cosa intendi, Juan?» lo interrogò Esquere.
«Ciò che intendo è che, per voi, andare dai vostri protettori significa che dovete recitare un ruolo, e un ballerino deve mettersi la maschera, le ghette, i sonagli e ballare, mentre tutti gli altri bevono. Tu, Benigno, eri un ballerino una volta, raccontaci.»
«Ho smesso dopo tre anni» confermò Benigno. «E un lavoro duro.»
«Chiedi a Lucio» notò in modo pungente Esquere. «Ha smesso dopo una settimana!»
Tutti risero eccetto don Juan. Lucio sorrise imbarazzato, e trangugiò due sorsi enormi di bacanora.
«Non è duro, è stupido» riprese don Juan. «Chiedete a Valendo, il ballerino, se gli piace danzare. Non gli piace! E abituato a farlo, ecco tutto. L’ho visto ballare per anni e, ogni volta, ho visto gli stessi passi mal eseguiti. Non trae orgoglio dalla sua arte, se non quando ne parla. Non prova amore per essa, perciò anno dopo anno ripete le stesse movenze. Quello che all’inizio non andava bene nella sua danza si è fissato e lui non riesce più a vederlo.»
«L’hanno educato a danzare in quel modo» intervenne Eligio. «Anch’io ero un ballerino nella città di Torìm, e so che devi eseguire i movimenti come ti è stato insegnato.»
«Comunque Valencio non è il miglior ballerino» dichiarò Esquere. «Ce ne sono altri. Che dire di Sacateca?»
«Sacateca è un uomo di sapere, non è al vostro livello amici» affermò severo don Juan. «Balla perché è nella sua natura. Tutto ciò che volevo dire è che voi, che non siete ballerini, non provate gioia quando danzate. Probabilmente, se i balletti fossero ben eseguiti alcuni di voi ne trarrebbero piacere, ma non molti di voi ne sanno abbastanza; perciò vi ritrovate con un divertimento molto misero. Ecco perché, amici, siete tutti ubriaconi. Guardate mio nipote!»
«Dacci un taglio, nonno!» protestò Lucio.
«Non è né pigro né stupido,» proseguì don Juan «ma cosa fa oltre a bere?»
«Compra giacche di pelle!» sottolineò Genaro, facendo ridere tutti.
Lucio buttò giù ancora del bacanora.
«E come il peyote cambierà questo?» chiese Eligio.
«Se Lucio cercasse il protettore,» disse don Juan «la sua vita cambierebbe. Non so con precisione come, ma sono sicuro che sarebbe differente.»
«Smetterebbe di bere, è questo quello che vuoi dire?» insistette Eligio.
«Forse. Ha bisogno di qualcos’altro oltre la tequila per rendere la sua esistenza soddisfacente. E quel qualcosa, qualunque cosa sia, potrebbe essere fornita dal protettore.»
«Allora il peyote deve avere un sapore molto buono» suggerì Eligio.
«Non ho detto ciò» replicò don Juan.
«Come puoi goderne se non ha un buon gusto?»
«Ti fa godere meglio la vita» disse don Juan.
«Ma se non è buono, come può farci godere meglio la vita?» si ostinava Eligio. «Non ha senso.»
«E ovvio che ha senso» intervenne Genaro con convinzione. «Il peyote ti fa impazzire e naturalmente pensi di condurre una vita grandiosa, non importa cosa fai.»
Tutti risero nuovamente.
«Ha senso» procedette don Juan imperturbabile «se ponderassi quanto poco sappiamo e quanto invece c’è da vedere. È la sbronza che fa impazzire le persone, rende indistinte le immagini. Mescalito, invece, rende tutto nitido. Ti fa vedere così bene! Così bene!»
Lucio e Benigno si guardarono e sorrisero come se avessero sentito altre volte quella storia. Genaro ed Esquere divennero più impazienti e iniziarono a parlare sovrapponendosi. Victor rise sopra tutte le altre voci. L’unico che sembrava interessato era Eligio.
«Come è possibile che il peyote possa fare tutto ciò?» chiese.
«Innanzitutto,» spiegò don Juan «devi volerlo conoscere, e credo che sia di gran lunga la cosa più importante. Poi gli devi essere offerto, e devi incontrarlo molte volte prima di poter dire di conoscerlo.»
«E cosa succede dopo?» domandò Eligio.
Genaro interruppe: «Caghi sul tetto con il culo per terra».
Tutti scoppiarono a ridere.
«Ciò che accade dopo dipende interamente da te» continuò don Juan senza perdere il suo autocontrollo. «Devi avvicinarti a lui senza paura e, a poco a poco, ti insegnerà come vivere un’esistenza migliore.»
Ci fu una lunga pausa. Gli uomini sembravano stanchi. La bottiglia era vuota e Lucio, con evidente riluttanza, ne aprì un’altra.
«Il peyote è anche il protettore di Carlos?» chiese Eligio in tono scherzoso.
«Non potrei saperlo» disse don Juan. «L’ha preso tre volte, quindi chiedi a lui di raccontarti.»
Si voltarono tutti incuriositi verso di me ed Eligio chiese: «L’hai preso davvero?».
«Sì.»
Sembrava che don Juan avesse vinto il primo round: o erano interessati alla mia esperienza o troppo educati per ridermi in faccia.
«Non era sgradevole in bocca?» mi interrogò Lucio.
«Sì. E aveva anche un sapore terribile.»
«Perché l’hai preso, allora?» domandò Benigno.
Iniziai a spiegare loro in termini elaborati che, per un uomo occidentale, il sapere di don Juan sul peyote era una delle cose più affascinanti che si potessero trovare, che ogni cosa che aveva detto al riguardo era vera e che ciascuno di noi poteva verificarlo per proprio conto.
Notai che tutti sorridevano come se stessero nascondendo il loro disprezzo e mi sentii molto imbarazzato. Ero consapevole della mia goffaggine nel comunicare. Parlai ancora per un po’, ma avevo perso lo slancio e ripetevo solo ciò che don Juan aveva già detto.
Don Juan venne in mio aiuto chiedendomi in tono rassicurante: «Non stavi cercando un protettore quando ti sei avvicinato per la prima volta a Mescalito?».
Raccontai loro che non sapevo che Mescalito potesse essere un protettore, e che ero stato mosso solo dalla mia curiosità e da un grande desiderio di conoscerlo.
Don Juan riaffermò che le mie intenzioni erano state impeccabili e disse che questo era il motivo per cui Mescalito aveva avuto un effetto benefico su di me.
«Ma ti ha fatto vomitare e pisciare dappertutto, non è vero?» insistette Genaro.
Confessai che in verità mi aveva fatto un effetto simile. Risero tutti in modo contenuto, e sentivo che mi disprezzavano ancora di più. Non sembravano interessati, eccetto Eligio, che mi stava fissando.
«Cosa hai visto?» chiese.
Don Juan mi spinse a raccontare nel dettaglio tutti o quasi tutti i particolari salienti delle mie esperienze, così descrissi la successione e la forma di ciò che avevo percepito. Quando finii di parlare, Lucio fece un commento.
«Se il peyote è qualcosa di magico, sono contento di non averlo mai preso.»
«È proprio come ho detto» confermò Genaro a Bajea. «Quella cosa ti fa andare fuori di testa.»
«Ma Carlos non è pazzo ora. Come spieghi questo?» domandò don Juan a Genaro.
«Come facciamo a sapere che non lo è?» ribattè Genaro.
Tutti scoppiarono a ridere, compreso don Juan.
«Avevi paura?» chiese Benigno.
«Certo.»
«Perché lo hai fatto, allora?» mi interrogò Eligio.
«Ha detto che voleva sapere» rispose Lucio per me. «Credo che Carlos stia diventando come mio nonno. Entrambi hanno detto che vogliono sapere, ma nessuno sa cosa diavolo vogliono sapere.»
«E impossibile spiegare quel sapere,» fece notare don Juan a Eligio «perché è diverso per ogni uomo. L’unica cosa comune a tutti è che Mescalito rivela i suoi segreti privata- mente a ciascuno. Essendo consapevole di come sta Genaro, non gli consiglio di incontrare Mescalito. Tuttavia, malgrado le mie parole e i suoi sentimenti, Mescalito potrebbe avere un effetto totalmente benefico su di lui. Ma solo lui potrebbe scoprirlo, e quello è il sapere di cui io stavo parlando.»
Don Juan si alzò.
«E ora di andare a casa» concluse. «Lucio è ubriaco e Victor dorme.»
Due giorni dopo, il 6 settembre, Lucio, Benigno ed Eli- gio vennero alla casa dove alloggiavo per andare a caccia insieme. Rimasero zitti per un po’ perché stavo scrivendo i miei appunti, poi Benigno sorrise educatamente come per annunciare che stava per dire qualcosa di importante.
Dopo un imbarazzante silenzio preliminare sorrise di nuovo e affermò: «Lucio dice che vorrebbe prendere il peyote».
«Sul serio?» chiesi.
«Sì. Non mi dispiacerebbe.»
Benigno fece una risata forzata.
«Lucio dice che mangerà il peyote se gli comprerai una motocicletta.»
Lucio e Benigno si guardarono e scoppiarono a ridere.
«Quanto costa una motocicletta negli Stati Uniti?» chiese Lucio.
«Probabilmente potresti prenderne una per cento dollari» risposi.
«Non è molto, vero? Potresti procurartene senza problemi una per lui, non è vero?» domandò Benigno.
«Bene, fammi chiedere a tuo nonno prima» dissi a Lucio.
«No, no» protestò. «Non dirglielo. Rovinerà tutto. È uno strambo, e oltretutto è troppo vecchio e debole di mente, e non sa quello che fa.»
«Era un vero stregone una volta» aggiunse Benigno. «Intendo dire uno vero. I miei sostengono che fosse il migliore, ma fece uso delpeyote e divenne una nullità. Ora è troppo vecchio.»
«E continua sempre a ripetere le stesse storie merdose sul peyote» proseguì Lucio.
«Quel peyote è una vera cagata» sottolineò Benigno. «Sai, F abbiamo provato una volta. Lucio ne prese un intero sacco a suo nonno. Una notte, mentre andavamo in città, lo masticammo. Figlio di puttana! Mi ha fatto la bocca a brandelli. Aveva un gusto infernale!»
«Lo avete inghiottito?» chiesi.
«Lo sputammo» rispose Lucio «e gettammo via l’intero dannato sacco.»
Entrambi ritenevano l’incidente esilarante. Eligio, nel frattempo, non aveva detto una parola; stava in disparte, come al solito, e non rise neppure.
«Vorresti provarlo, Eligio?» lo interrogai.
«No, io no. Nemmeno per una motocicletta.»
Lucio e Benigno trovarono l’affermazione molto divertente e scoppiarono a ridere di nuovo.
«Ciò nonostante,» continuò Eligio «devo ammettere che don Juan mi sconcerta.»
«Mio nonno è troppo vecchio per sapere qualcosa» asserì Lucio con grande convinzione.
«Sì, è troppo vecchio» fece eco Benigno.
Pensai che l’opinione dei due giovani su don Juan fosse infantile e infondata, e sentivo che era mio dovere difenderlo; così dissi loro che, a mio giudizio, don Juan era sempre, come lo era stato in passato, un grande stregone, forse persino il più grande di tutti. Ammisi che percepivo in lui qualcosa di davvero straordinario.
Li esortai a tener presente che aveva più di settantanni e tuttavia era più energico e forte di tutti noi messi insieme, e li sfidai a provarlo personalmente cercando di prenderlo di sorpresa.
«È impossibile» ribatté Lucio con orgoglio. «È un brujo.»
Ricordai loro che lo avevano definito troppo vecchio e debole di mente, e che una persona svanita non sa cosa gli accade attorno. Ribadii che più volte la prontezza di don Juan mi aveva stupito.
«Nessuno può prendere un brujo di sorpresa, anche se è vecchio» affermò Benigno con autorità. «Però gli si può tendere un agguato quando dorme. Questo è ciò che accadde a un uomo chiamato Cevicas. La gente era stanca della sua stregoneria malvagia e lo uccise.»
Chiesi loro di raccontarmi tutti i dettagli di quel fatto, ma dissero che era successo o prima della loro nascita o quando erano ancora molto piccoli. Eligio aggiunse che in segreto la gente reputava Cevicas solo uno sciocco, perché nessuno potrebbe nuocere a imo stregone autentico. Cercai di investigare ancora sulle loro opinioni circa gli stregoni, ma non sembravano molto interessati all’argomento, mentre erano impazienti di iniziare a sparare con il fucile calibro 22 che avevo portato.
Restammo in silenzio per un po’ mentre attraversavamo la folta macchia desertica; poi Eligio, che camminava davanti, si voltò e mi disse: «Forse siamo noi i pazzi, forse don Juan ha ragione. Guarda come viviamo».
Lucio e Benigno protestarono, allora cercai di mediare: ero d’accordo con Eligio e confidai loro che io stesso avevo sentito come il mio modo di vivere fosse in qualche modo sbagliato. Benigno sostenne l’infondatezza delle mie lamentele sulla vita, perché avevo denaro e un’auto. Ribattei che avrei potuto facilmente mostrare quanto la loro posizione fosse migliore, perché ciascuno possedeva un pezzo di terra, ma risposero all’unisono che il proprietario della loro terra era la banca federale. Replicai che neppure io possedevo la mia auto, perché apparteneva a una banca in California, e inoltre la mia esistenza era solo diversa dalla loro, ma non migliore. In quel momento eravamo già nel fitto sottobosco.
Non trovammo né cervi né cinghiali selvatici, ma prendemmo tre conigli maschi. Al ritorno ci fermammo a casa di Lucio ed egli annunciò che sua moglie avrebbe fatto lo stufato di coniglio. Benigno si recò al negozio a comprare una tequila e ci portò alcune bottiglie di soda. Quando tornò don Juan era con lui.
«Hai trovato mio nonno al negozio che comprava birra?» chiese Lucio ridendo.
«Non sono stato invitato a questa riunione» chiarì don Juan. «Sono solo passato per chiedere a Carlos se parte per Hermosillo.»
Gli dissi che stavo progettando di partire l’indomani, e mentre parlavamo Benigno distribuì le bottiglie. Eligio diede la sua a don Juan, e, poiché tra gli Yaqui è mortalmente scortese rifiutare, anche per cortesia, don Juan la prese in silenzio. Porsi la mia a Eligio, e fu obbligato a prenderla, così Benigno mi diede a sua volta la sua, ma Lucio, che ovviamente aveva capito l’intero schema delle buone maniere Yaqui, aveva già finito di bere la sua soda. Si voltò verso Benigno, che aveva un’espressione patetica sul volto, e disse ridendo: «Ti hanno fatto fuori la bottiglia».
Don Juan spiegò che non beveva mai soda e mise la sua bottiglia nelle mani di Benigno, poi ci sedemmo in silenzio sotto la ramada.
Eligio sembrava nervoso e giocherellava con la tesa del cappello.
«Ho pensato a cosa hai detto l’altra notte» confessò a don Juan. «Come può il peyote cambiarci la vita? Come?»
Don Juan non rispose. Fissò Eligio per un istante e poi iniziò a cantare in Yaqui. Non era una canzone vera e propria, ma una breve litania. Restammo in silenzio a lungo, poi chiesi a don Juan di tradurmi le parole Yaqui.
«Era solo per gli Yaqui» dichiarò senza complimenti. Mi sentii scoraggiato, perché ero sicuro che avesse detto qualcosa di grande importanza.
«Eligio è un indiano» mi raccontò don Juan alla fine «e in quanto tale non ha niente. Noi indiani non possediamo niente, e tutto quello che vedi qui intorno appartiene agli Yori. Agli Yaqui è rimasta solo la rabbia e ciò che la terra offre loro.»
Nessuno articolò un suono per un bel po’ di tempo, poi don Juan si alzò, salutò e se ne andò. Lo guardammo fino a quando non scomparve dietro una curva della strada. Tutti noi sembravamo nervosi. Lucio ci disse con aria smarrita che suo nonno non si era fermato perché odiava lo stufato di coniglio. Eligio sembrava immerso nei suoi pensieri. Benigno si girò verso di me e affermò a voce alta: «Penso che il Signore punirà te e don Juan per quello che state facendo».
Lucio iniziò a ridere e Benigno si unì a lui.
«Sei un buffone, Benigno» lo riprese Eligio cupamente. «Quello che hai appena detto non vuol dire un accidente.»
—15 settembre 1968
Erano le nove di sabato sera. Don Juan sedeva di fronte a Eligio al centro della ramada a casa di Lucio; mise tra loro il suo sacco con i boccioli di peyote e cantò mentre si dondolava lentamente avanti e indietro. Lucio, Benigno e io eravamo seduti a circa due metri dietro Eligio, con la schiena contro il muro. All’inizio era molto buio. Eravamo rimasti a sedere in casa sotto la lanterna a petrolio aspettando don Juan il quale, quando era arrivato, ci aveva chiamati fuori sotto la ramada e ci aveva detto dove metterci. Dopo un po’ i miei occhi si abituarono all’oscurità e riuscii a vedere tutti nitidamente. Notai che Eligio sembrava terrorizzato: il suo corpo tremava, i denti battevano in modo incontrollabile, si contorceva in sussulti spasmodici della testa e della schiena.
Don Juan gli parlò, esortandolo a non avere paura, ad avere fiducia nel protettore, e a non pensare a nient’altro, quindi prese come per caso un bocciolo di peyote, glielo offrì e gli ordinò di masticarlo molto lentamente. Eligio piagnucolò come un cucciolo e indietreggiò. Il suo respiro era molto accelerato e sembrava il sibilo dei mantici. Tolse il cappello e si asciugò la fronte, poi si coprì il volto con le mani. Pensai che stesse piangendo. Ci fu un istante molto lungo e intenso prima che riacquistasse un po’ di autocontrollo. Si sedette ritto e, pur continuando a coprirsi il volto con una mano, prese il bocciolo di peyote e iniziò a masticarlo.
Provavo un’apprensione tremenda. Fino a quel momento non avevo realizzato che forse ero spaventato quanto Eligio. Avevo la bocca secca come se avessi ingerito il peyote. Eligio masticò il bocciolo per molto tempo. La mia tensione aumentava e cominciai a gemere senza volerlo mentre il mio respiro accelerava.
Don Juan iniziò a cantare a voce più bassa, poi offrì un altro bocciolo a Eligio e dopo che lo ebbe finito gli porse della frutta secca dicendogli di masticarla molto piano.
Eligio si alzò più volte e andò fra i cespugli. A un certo punto chiese dell’acqua e don Juan gli disse di non berla, ma solo di sciacquarsi la bocca.
Eligio masticò altri due boccioli e don Juan gli diede della carne secca. Quando ebbe masticato il suo decimo bocciolo mi sentivo quasi male per l’ansia.
D’un tratto cadde in avanti e picchiò la fronte per terra. Si rotolò sul fianco sinistro sussultando convulsamente.
Guardai l’orologio: erano le undici e venti. Eligio si dimenò, tremò e gemette per più di un’ora mentre stava steso sul pavimento.
Don Juan mantenne la stessa posizione di fronte a lui. Le sue canzoni in onore del peyote erano quasi un mormorio. Benigno, che era seduto alla mia destra, guardava distratto; Lucio, vicino a lui, si era girato su un fianco e russava.
Il corpo di Eligio si raggomitolò in una posizione contorta. Giaceva sul suo fianco destro con la fronte verso di me e le mani fra le gambe. Sobbalzò in modo violento e si girò sulla schiena con le gambe appena flesse. La mano sinistra ondeggiava con un movimento libero ed elegante. La destra ripetè lo stesso gesto, e poi entrambe le braccia si alternarono in una movenza lenta e ondeggiante, simile a quella di un suonatore d’arpa. Il movimento divenne a poco a poco più vigoroso: le braccia vibrarono e andarono su e giù come pistoni; nello stesso tempo le mani ruotarono in avanti fino al polso e le dita si agitarono. Era imo spettacolo meraviglioso, armonioso e ipnotico. Pensai che avesse un ritmo e un controllo muscolare senza pari.
Poi Eligio si sollevò piano, come se si tendesse contro ima forza avvolgente, rabbrividì, si accovacciò e poi si sollevò in posizione eretta. Le braccia, il tronco e la testa tremavano come se fossero state attraversate da una corrente elettrica a intermittenza, come se una forza fuori dalla sua portata lo regolasse o lo guidasse.
Il canto di don Juan si fece più intenso. Lucio e Benigno si svegliarono e per un po’ guardarono la scena con disinteresse poi tornarono a dormire.
Eligio sembrava salire sempre più in alto. Evidentemente si stava arrampicando. Mise le mani ad artiglio e sembrava aggrapparsi a oggetti che andavano oltre la mia visione. Si spinse in su e si fermò per riprendere fiato.
Volevo vedere i suoi occhi e mi avvicinai a lui, ma don Juan mi lanciò uno sguardo feroce, così indietreggiai al mio posto.
Poi Eligio saltò e fu un ultimo balzo formidabile: era riuscito a raggiungere la sua meta. Sbuffava e singhiozzava per lo sforzo, sembrava aggrapparsi a una sporgenza, ma qualcosa stava avendo la meglio su di lui, allora gridò disperato. Perse la presa e iniziò a cadere. Il suo corpo s’inarcò all’in- dietro e fu scosso dalla testa ai piedi da un’onda meravigliosa e armoniosa che lo attraversò forse un centinaio di volte prima di collassare come un sacco inerte.
Dopo un po’ stese le braccia davanti a sé come per proteggere il volto. Le gambe si allungarono indietro mentre giaceva prono, erano inarcate di pochi centimetri da terra, dando l’impressione che il suo corpo scivolasse o volasse a una velocità incredibile. La testa era arcuata il più indietro possibile, le braccia erano serrate sugli occhi, proteggendoli. Potevo sentire il vento che sibilava intorno a lui, ansimai e lanciai senza volerlo un forte grido. Lucio e Benigno si svegliarono e guardarono Eligio con curiosità.
«Se prometti di comprarmi una motocicletta lo masticherò adesso» propose Lucio ad alta voce. Guardai don Juan che fece un gesto imperativo con la testa.
«Figlio di puttana!» borbottò Lucio e tornò a dormire.
Eligio si alzò e iniziò a camminare, fece un paio di passi verso di me e si fermò. Potevo vederlo sorridere con un’espressione beata. Provò a fischiare, non era un suono chiaro, però era armonico: era un’aria di due strofe, che ripeteva di continuo. Dopo un po’ il fischio si fece distintamente udibile, e divenne un’acuta melodia. Eligio mormorò parole incomprensibili che sembravano le strofe dell’aria e le ripeté per ore: era una canzone molto semplice, ripetitiva, monotona, ma bella.
Eligio sembrava guardare qualcosa, mentre cantava. A un certo punto mi venne molto vicino. Vedevo i suoi occhi nella semioscurità, erano vitrei e sbarrati. Sorrideva e ridacchiava. Camminò, si sedette, poi camminò di nuovo, gemendo e singhiozzando.
All’improvviso sembrò che qualcosa lo avesse colpito da dietro. Il suo corpo si inarcò al centro come se fosse spinto da una forza diretta. In un istante Eligio si mise in equilibrio sulla punta dei piedi, formando quasi un cerchio completo, con le mani che toccavano il suolo. Cadde a terra di nuovo, piano, sulla schiena, e si distese in tutta la sua lunghezza, acquisendo una strana rigidità.
Gemette e si lamentò per un po’, poi cominciò a russare. Don Juan lo coprì con alcuni sacchi di tela. Erano le cinque e trentacinque del mattino.
Lucio e Benigno si erano addormentati spalla a spalla, con la schiena contro il muro. Don Juan e io sedemmo in silenzio per molto tempo; sembrava stanco. Ruppi il silenzio e chiesi di Eligio: mi disse che il suo incontro con Mescalito era riuscito in modo straordinario perché, pur essendo la prima volta, Mescalito gli aveva insegnato una canzone, e ciò era davvero eccezionale.
Gli chiesi perché non aveva permesso a Lucio di prendere il peyote in cambio di una motocicletta, e mi rispose che Mescalito lo avrebbe ucciso se si fosse avvicinato a lui sotto tali condizioni. Ammise di aver preparato tutto con cura per convincere il nipote, e mi confidò di aver fatto affidamento sulla mia amicizia con Lucio come parte centrale del suo piano. Raccontò che si era preoccupato sempre per il nipote, e che un tempo avevano vissuto insieme ed erano stati molto legati, ma Lucio si ammalò gravemente quando aveva sette anni e il figlio di don Juan, un cattolico devoto, fece un voto alla Vergine di Guadalupe: Lucio sarebbe entrato a far parte di una compagnia di danzatori sacri se la sua vita fosse stata risparmiata. Il nipote guarì e fu costretto a mantenere la promessa, ma resistette come apprendista solo una settimana, e poi si decise a rompere il voto. Pensava di dover morire per questo, si fece forza e per un giorno intero aspettò che arrivasse la morte. Tutti si presero gioco del ragazzo e l’incidente non fu mai dimenticato.
Don Juan non parlò per molto tempo, sembrava sommerso dai pensieri.
«Avevo preparato tutto per Lucio» confessò «e ho trovato Eligio, invece. Sapevo che sarebbe stato inutile, ma quando amiamo qualcuno dovremmo insistere sul serio, come se fosse possibile rifare gli uomini. Lucio aveva coraggio quando era un ragazzino, e poi l’ha perso strada facendo.»
«Puoi stregarlo, don Juan?»
«Stregarlo? E per che cosa?»
«Così riacquisterebbe il suo coraggio.»
«Non si può stregare per dare il coraggio. Il coraggio è qualcosa di personale. Gli incantesimi servono per rendere le persone innocue, stupide, o per farle ammalare. Non ci sono magie per formare guerrieri. Per essere un guerriero devi essere trasparente come un cristallo, come Eligio. Allora sì che hai un uomo di coraggio!»
Eligio russava beatamente sotto i sacchi di tela. Era quasi giorno, il cielo era di un blu impeccabile e non c’erano nuvole in vista.
«Darei qualsiasi cosa al mondo» rivelai «per sapere cosa è accaduto durante il viaggio di Eligio. Ti dà fastidio se gli chiedo di raccontarmelo?»
«Non chiedergli mai, per nessun motivo, di farlo!»
«Perché no? Io ti racconto le mie esperienze.»
«E diverso. Non è nella tua natura tenere le cose per te. Eligio è un indiano e il suo viaggio è tutto ciò che possiede. Vorrei che fosse stato Lucio.»
«Non c’è nulla che puoi fare, don Juan?»
«No. Purtroppo non c’è modo di generare ossa in una medusa. Era solo la mia follia.»
Il sole spuntò e la sua luce annebbiò i miei occhi stanchi.
«Mi hai ripetuto molte volte, don Juan, che uno stregone non ha idee pazze. Non ho mai pensato che tu potessi averne una.»
Don Juan mi fissò con uno sguardo penetrante. Si alzò, lanciò un’occhiata a Eligio e poi a Lucio. Si sistemò il cappello sulla testa, dandogli colpetti sulla cima.
«È possibile insistere, insistere nella maniera giusta, anche se sappiamo che ciò che stiamo facendo è inutile» concluse sorridendo. «Ma dobbiamo sapere prima di tutto che le nostre azioni sono inutili e tuttavia dobbiamo procedere come se lo ignorassimo. Questa è la follia controllata dello sciamano.»
Il 3 ottobre 1968 ritornai a casa di don Juan, al solo scopo di interrogarlo sugli avvenimenti legati all’iniziazione di Eli- gio. Mi era venuta in mente una serie quasi infinita di interrogativi mentre rileggevo il rapporto di quanto era accaduto allora e cercavo spiegazioni molto precise, così preparai in anticipo una lista di domande, scegliendo con attenzione i termini più appropriati.
Iniziai chiedendogli: «Vidi quella notte, don Juan?».
«Quasi.»
«Vedesti che io stavo vedendo i movimenti di Eligio?»
«Sì. Vidi che Mescalito ti stava permettendo di vedere una parte della lezione di Eligio, altrimenti saresti stato a guardare un uomo seduto, o forse coricato. Durante l’ultimo mitote non hai notato che i partecipanti stavano facendo qualcosa, vero?»
All’ultimo mitote non avevo scorto nessun uomo compiere movimenti fuori dall’ordinario. Raccontai che tutto ciò che avevo annotato nei miei appunti era che alcuni si alzavano e andavano nei cespugli più frequentemente di altri.
«Ma vedesti pressappoco quasi tutta la lezione di Eligio» proseguì don Juan. «Pensaci. Capisci ora quanto è generoso Mescalito con te? Mescalito non è mai stato così gentile con nessuno, che io sappia. Con nessuno. Come puoi voltargli le spalle così? O forse dovrei dire, in cambio di cosa lo fai?»
Sentivo che don Juan mi stava di nuovo mettendo in una posizione difficile. Non ero in grado di rispondere alla sua domanda. Avevo sempre creduto di aver abbandonato l’apprendistato per salvarmi, ma non riuscivo a comprendere da che cosa volessi salvarmi, o per quale motivo. Desideravo cambiare l’andamento della conversazione in fretta, e per questo decisi di accantonare la mia intenzione di proseguire con le domande che mi ero prefissato ed esposi l’interrogativo più importante.
«Mi piacerebbe che tu mi dicessi di più circa la tua follia controllata» lo pregai.
«Cosa vuoi sapere al riguardo?»
«Per favore, don Juan, spiegami; cos’è di preciso la follia controllata?»
Don Juan rise forte e fece un suono schioccante schiaffeggiando la sua coscia con il cavo della mano.
«Questa è la follia controllata!» esclamò e rise colpendo di nuovo la coscia.
«Cosa vuoi dire...?»
«Sono felice che tu, alla fine, mi abbia chiesto della mia follia controllata dopo così tanti anni, e tuttavia non mi sarebbe importato se non me lo avessi chiesto. Ma ho scelto di essere felice, come se fosse importante il fatto che tu me l’abbia chiesto, come se fosse importante il fatto che ci tenga. Questa è la follia controllata!»
Ridemmo molto entrambi e lo abbracciai. Trovavo meravigliosa la sua spiegazione, anche se non la capivo per niente.
Eravamo seduti come al solito davanti alla porta di casa ed era metà mattina. Don Juan aveva di fronte un mucchio di semi e li stava pulendo. Mi ero offerto di aiutarlo, ma mi aveva respinto dicendo che i semi erano un dono per un suo amico del Messico centrale e che non avevo abbastanza potere per toccarli.
«Con chi eserciti la follia controllata, don Juan?» chiesi dopo un lungo silenzio.
Fece una risatina.
«Con tutti!» esclamò sorridendo.
«Allora, quando scegli di metterla in pratica?»
«Ogni singola volta che agisco.»
A quel punto sentii che avevo bisogno di riepilogare e gli chiesi se follia controllata significasse che le sue azioni non erano mai sincere, ma erano solo i gesti di un attore.
«Le mie azioni sono sincere,» disse «ma sono solo i gesti di un attore.»
«Quindi tutto ciò che fai deve essere follia controllata!» esclamai sorpreso.
«Sì, tutto» rispose.
«Ma non può essere vero» protestai «che ogni tua azione sia solo follia controllata.»
«Perché no?» ribatté con espressione misteriosa.
«Ciò equivarrebbe ad affermare la tua indifferenza verso tutto e tutti. Prendi me, per esempio. Intendi dire che non t’interessa se divento o no un uomo di sapere, o se vivo, o muoio, o faccio qualsiasi cosa?»
«Vero! Non mi importa. Sei come Lucio, o chiunque altro nella mia vita, la mia follia controllata.»
Provai una strana sensazione di vuoto. Ovviamente non c’era ragione al mondo per cui don Juan dovesse avermi a cuore, ma, d’altra parte, avevo la quasi certezza che tenesse a me; pensavo che non potesse essere altrimenti, poiché mi aveva sempre prestato la massima attenzione in ogni momento trascorso insieme. Mi venne il sospetto che don Juan affermasse quelle cose solo perché era seccato con me. Dopotutto, avevo abbandonato i suoi insegnamenti.
«Ho l’impressione che non stiamo parlando della stessa cosa» osservai. «Non avrei dovuto usare me stesso come esempio. Intendevo dire che deve esserci qualcosa al mondo a cui tieni in un modo diverso dalla follia controllata. Non credo che sia possibile continuare a vivere se non c’è nulla che per noi conti sul serio.»
«Questo vale per te» ribatté. «Le cose importano a te.
Mi hai chiesto della mia follia controllata e ti ho detto che tutto ciò che faccio per me e per i miei simili è follia, perché niente è importante.»
«Il punto è, don Juan: come puoi continuare a vivere se non c’è nulla di cui t’importi?»
Rise e, dopo un attimo di pausa durante il quale sembrò decidere se rispondere o meno, si alzò e andò sul retro della casa. Lo seguii.
«Aspetta, don Juan, aspetta» lo pregai. «Voglio sapere; devi spiegarmi cosa intendi.»
«Forse non è possibile. Alcune cose nella tua esistenza ti interessano perché sono fondamentali; le tue azioni sono di certo importanti per te, ma per me non c’è più neppure una singola cosa che sia rilevante, né i miei atti né quelli dei miei simili. Continuo a vivere, tuttavia, perché ho la mia volontà, perché l’ho temprata per tutta la vita finché è diventata chiara e integra e ora non m’interessa che nulla conti per me. La mia volontà controlla la follia della mia esistenza.»
Si accovacciò e passò le dita su alcune erbe che aveva messo a seccare al sole su un largo pezzo di tela.
Ero sconcertato. Non avrei mai potuto prevedere dove mi avrebbe condotto la mia domanda. Dopo una lunga pausa mi venne una buona idea. Evidenziai che, a mio giudizio, alcune azioni dei miei simili erano di suprema importanza; misi in evidenza che una guerra nucleare era senza dubbio l’esempio più drammatico e aggiunsi che per me distruggere la vita sulla Terra era un atto di una mostruosità abissale.
«Lo credi perché pensi. Stai pensando alla vita» replicò don Juan con un luccichio negli occhi. «Non stai vedendo.»
«Mi sentirei diverso se riuscissi a vedere?»
«Quando un uomo ha imparato a vedere, si trova solo al mondo, con nient’altro se non la follia» disse don Juan in modo ermetico.
Si fermò per un istante e mi guardò come se volesse valutare l’effetto delle sue parole.
«I tuoi atti, come quelli dei tuoi simili in generale, ti sembrano importanti perché hai imparato a pensare che lo siano.»
Adoperò la parola «imparato» con un’inflessione così particolare che mi obbligò a chiedergli cosa intendesse dire.
Smise di maneggiare le sue piante e mi guardò.
«Impariamo a pensare su tutto,» disse «e poi educhiamo i nostri occhi a guardare nello stesso modo in cui pensiamo le cose che guardiamo. Guardiamo noi stessi pensando già di essere importanti, e perciò ci siamo convinti di sentirci tali! Ma poi, quando un uomo impara a vedere, comprende che non può più pensare alle cose che guarda, e se non lo può fare, tutto diventa irrilevante.»
Don Juan doveva aver notato la mia espressione perplessa e ripetè le frasi tre volte, come per rendermele comprensibili. All’inizio ciò che diceva mi suonò come un discorso disarticolato, ma, riflettendoci, le sue parole cominciarono ad apparirmi come un’affermazione sottile su qualche sfumatura di percezione.
Cercai di pensare a una buona domanda per portarlo a chiarire il suo punto di vista, ma non riuscivo a farmi venire in mente nulla. D’un tratto mi sentivo esausto e faticavo a formulare i miei pensieri in modo chiaro.
Don Juan sembrò notare la mia stanchezza e mi diede una pacca leggera sulla spalla.
«Pulisci queste piante e poi tagliale a strisce e mettile con cura dentro questo barattolo.»
Mi porse un grande barattolo da caffè e se ne andò.
Ritornò a casa dopo alcune ore, nel tardo pomeriggio. Avevo finito di sistemare le sue piante e avevo avuto tempo in abbondanza per scrivere i miei appunti. Volevo fargli subito alarne domande, ma non era dell’umore adatto per rispondermi. Disse che era affamato e doveva, per prima cosa, occuparsi del suo cibo. Accese il fuoco nel fornello di terra e ci mise sopra una pentola con brodo di ossa. Guardò nella borsa delle provviste che avevo portato e prese alcune verdure, le tagliò in piccoli pezzi e le buttò nella pentola. Poi si stese sulla stuoia, calciò via i sandali, e mi disse di sedermi più vicino al fornello, così avrei potuto alimentare il fuoco.
Era quasi buio; dal punto in cui ero seduto potevo vedere il cielo a occidente. I bordi di alcune spesse formazioni nuvolose erano tinti di un colore giallo-marrone intenso, mentre il centro delle nubi era quasi nero.
Stavo per sottolineare quanto fossero belle le nuvole, ma don Juan parlò per primo.
«Orli soffici e cuore denso» commentò indicando le nuvole.
La sua affermazione capitava così a proposito che mi fece sobbalzare.
«Stavo proprio per dirti delle nuvole» dissi.
«Allora ti ho battuto» rispose, e rise con l’abbandono di un bambino.
Gli chiesi se fosse dell’umore adatto per rispondere ad alcune domande.
«Cosa vuoi sapere?» replicò.
«Quello che mi hai detto oggi pomeriggio sulla follia controllata mi ha turbato molto» ammisi. «Non riuscivo fino in fondo a capire cosa intendessi.»
«È naturale. Stai cercando di pensarci, e ciò che ho detto non si adatta ai tuoi pensieri.»
«Sto cercando di pensarci» replicai «perché questo è l’unico modo in cui riesco a capire qualcosa. Per esempio, don Juan, tu intendi dire che una volta che un uomo impara a vedere, tutto nel mondo intero è senza valore?»
«Non ho detto senza valore, ho detto non importante. Tutto è uguale, perciò non importante. Per esempio, per me non c’è modo di dire che i miei atti siano più importanti dei tuoi, o che una cosa sia più necessaria di un’altra, perciò tutte le cose sono uguali ed essendo uguali non sono importanti.»
Gli chiesi se intendesse che ciò che aveva chiamato «vedere» era in effetti un «modo migliore» del mero «guardare alle cose». Rispose che gli occhi degli uomini possono svolgere entrambe le funzioni; l’una non è migliore dell’altra, ma addestrare i propri occhi soltanto a guardare era, a suo parere, una rinuncia inutile e disonorevole.
«Per esempio, dobbiamo guardare con i nostri occhi per ridere,» disse «perché solo quando guardiamo le cose riusciamo a catturare il lato divertente del mondo. Invece, quando gli occhi vedono, tutto è talmente uguale che niente è divertente.»
«Vuoi affermare, don Juan, l’impossibilità per un uomo che vede di ridere?»
Rimase in silenzio per un po’.
«Forse ci sono uomini di sapere che non ridono mai» disse. «Non ne conosco, comunque. Quelli che conosco, vedono e guardano anche, così ridono.»
«Allo stesso modo, un uomo di sapere può piangere?»
«Presumo di sì. Gli occhi guardano, così possiamo ridere, piangere, rallegrarci, essere tristi o felici. A me personalmente non piace essere di umore cupo, così quando assisto a qualcosa che di solito mi renderebbe triste, semplicemente sposto i miei occhi e lo vedo invece di guardarlo. Ma quando mi imbatto in qualcosa di divertente lo guardo e rido.»
«Ma allora, don Juan, la tua risata è reale e non è follia controllata.»
Don Juan mi fissò per un momento.
«Parlo con te perché mi fai ridere. Mi ricordi quei topi del deserto con la coda a spazzola che rimangono imprigionati quando introducono la coda in un buco cercando di far scappare altri topi per rubare loro il cibo. Tu cadi in trappola nelle tue stesse domande. Stai attento! Qualche volta quei topi si strappano la coda per liberarsi.»
Trovai il paragone divertente e risi. Una volta, don Juan mi aveva fatto vedere alcuni piccoli roditori con la coda a spazzola che sembravano scoiattoli grassi; l’immagine di uno di quei topi paffuti che si strappava la coda era triste e nello stesso tempo morbosamente divertente.
«La mia risata, come tutto ciò che faccio, è vera,» disse «ma è anche follia controllata perché è inutile; ridere non cambia nulla, e tuttavia continuo a farlo.»
«Ma per quello che capisco io, don Juan, la tua risata non è inutile. Ti rende felice.»
«No! Sono felice perché scelgo di guardare le cose che mi rendono felice e poi i miei occhi colgono il loro lato divertente e rido. Te l’ho detto infinite volte: si deve sempre scegliere la strada che ha un cuore per essere nelle condizioni migliori, forse così si riesce sempre a ridere.»
Interpretai le sue parole nel senso che il pianto era inferiore al riso, o almeno era un atto che forse ci indeboliva, ma lui negò l’esistenza di una differenza intrinseca e affermò che entrambe le cose non erano rilevanti; ammise però di prediligere il riso, perché rispetto al pianto faceva sentire meglio il suo corpo.
A quel punto suggerii che se si ha una preferenza non c’è uguaglianza: se amava più ridere che piangere, il primo era comunque più importante.
Mantenne con risolutezza la sua posizione, cioè che il fatto che preferisse qualcosa non significava che non ci fosse uguaglianza; io allora gli feci notare come la conseguenza logica della nostra discussione sarebbe potuta arrivare fino all’estremo di sostenere che, se supponessimo tutte le cose uguali, potremmo anche arrivare a scegliere la morte.
«Molti uomini di sapere lo fanno» replicò. «Possono semplicemente scomparire un giorno. La gente può pensare che sia stato teso loro un agguato e che siano stati uccisi a causa del loro agire. Scelgono di morire perché non è importante per loro. D’altro canto, decido di vivere, e di ridere, non perché m’importa, ma perché questa scelta è insita nella mia natura. La ragione per cui dico che scelgo è perché vedo, ma non è che decido di vivere; la mia volontà mi fa continuare a vivere malgrado qualsiasi cosa possa vedere.Non mi capisci ora per via della tua abitudine a pensare come guardi e pensare come pensi.»
Questa affermazione mi disorientò, così gli chiesi di spiegarmi cosa volesse dire.
Ripeté la stessa frase numerose volte, come se prendesse tempo per sistemarla in termini diversi, e poi espresse il suo punto di vista, sostenendo che con il termine «pensare» intendeva l’idea fissa che abbiamo di ogni cosa nel mondo. Concluse dicendo che «vedere» dissipava quell’abitudine, e finché non avessi imparato a «vedere» non avrei potuto capire nel profondo il significato delle sue parole.
«Ma se nulla ha valore, don Juan, perché dovrebbe essere importante che io impari a vedere?»
«Una volta ti feci notare che il nostro destino di uomini è quello di imparare, nel bene o nel male. Ho imparato a vedere e ti dico che nulla davvero importa; adesso è il tuo turno; forse un giorno vedrai e allora saprai se le cose sono importanti o no. Per me nulla lo è, ma forse per te tutto lo sarà. Dovresti ormai aver capito che un uomo di sapere vive agendo, non pensando di agire, e neppure pensando a quello che penserà quando avrà finito di agire. Un uomo di sapere sceglie una strada con il cuore e la segue; e poi guarda e si rallegra e ride; e poi vede e sa. Sa che la sua vita finirà anche troppo presto; sa che egli, come chiunque altro, non sta andando da nessuna parte; sa, poiché vede, che non c’è nulla che sia più importante di tutto il resto. In altre parole, un uomo di sapere non ha né onore né dignità, non ha famiglia né nome né patria, ma solo vita da vivere, e per questo il suo solo legame con gli altri uomini è la sua follia controllata. Perciò un uomo di sapere si sforza, e si affatica, e sbuffa, e se lo si guarda è proprio come un qualunque uomo comune, a eccezione del fatto che la follia della sua vita è sotto controllo. Poiché nulla è più importante di tutto il resto, un uomo di sapere decide le proprie azioni, e le compie come se per lui avessero importanza.
La follia controllata lo spinge a dire che ciò che fa importa, e ad agire come se così fosse, pur sapendo che così non è. Per questo, dopo aver agito, si ritira in pace, e che le sue azioni siano buone o cattive, che siano più o meno efficaci, non è cosa che lo riguardi. Un uomo di sapere può scegliere di restare completamente impassibile e non agire mai, e di comportarsi come se tale impassibilità sia davvero importante per lui; anche in questo sarebbe del tutto fedele a se stesso, perché sarebbe la sua forma di follia controllata.»
A questo punto mi trovai coinvolto nel tentativo molto complicato di spiegare a don Juan che mi interessava conoscere cosa potrebbe spingere un uomo di sapere ad agire in un modo particolare, malgrado la consapevolezza che nulla è rilevante.
Ridacchiò prima di rispondere.
«Tu rifletti sulle tue azioni» disse. «Perciò devi credere che le tue azioni siano importanti come tu pensi che siano, quando in realtà nulla di quello che si fa conta. Nulla! Ma allora se nulla è importante, come tu mi hai chiesto, in che modo posso continuare a vivere? Sarebbe più semplice morire, che è quello che dici e credi, perché tu pensi alla vita nella stessa maniera in cui ora stai pensando a come potrebbe essere vedere. Volevi che te lo descrivessi, per poter incominciare a pensarci, come fai con qualsiasi altra cosa. Nel caso delvedere, comunque, pensare non serve a niente, così non posso dirti a cosa sia simile. Ora tu vuoi che descriva le ragioni per la mia follia controllata e posso solo dire che la follia controllata è molto simile al vedere; è qualcosa che non può essere pensata.»
Sbadigliò. Si coricò supino e stirò le braccia e le gambe. Le sue ossa scricchiolarono.
«Sei stato lontano troppo a lungo» concluse. «Pensi troppo.»
Si alzò e andò nella fitta macchia desertica di fianco alla casa. Alimentai il fuoco per mantenere in ebollizione la pentola. Stavo per accendere una lanterna a cherosene, ma la semioscurità mi rilassava. Il fuoco del fornello forniva abbastanza luce per scrivere e creava un alone rossastro tutto intorno a me. Misi i miei appunti per terra e mi stesi, mi sentivo stanco. Di tutta la conversazione con don Juan, la sola cosa viva nella mia mente era che non gli importava di me, e questo mi turbava nel profondo. Per anni avevo riposto la mia fiducia in lui. Se non avessi avuto una fiducia totale, sarei stato del tutto paralizzato dalla paura di fronte alla prospettiva di apprendere il suo sapere; la premessa su cui avevo basato la mia fiducia era l’idea che ci tenesse a me personalmente; in verità avevo sempre temuto che non fosse così, ma avevo tenuta nascosta la mia paura perché mi fidavo di lui. Ora che mi aveva tolto quel fondamento, non avevo niente su cui appoggiarmi e mi sentivo indifeso.
Un’ansia strana si impadronì di me. Mi sentivo agitato e iniziai a passeggiare nervosamente su e giù davanti al fornello. Don Juan ci stava mettendo troppo tempo. Lo aspettavo con impazienza.
Ritornò un po’ più tardi, si sedette di nuovo davanti al fuoco e tirai fuori le mie paure. Ammisi di essere preoccupato perché mi sentivo incapace di cambiare direzione in piena corrente; gli spiegai che non solo avevo imparato a fidarmi di lui, ma anche a rispettare e a guardare la sua vita come intrinsecamente più razionale, o almeno più funzionale, della mia. Le sue parole mi avevano gettato in un conflitto terribile, perché comportavano un cambiamento dei miei sentimenti. Per illustrare il mio punto di vista, gli raccontai la storia di un anziano signore della mia civiltà, un avvocato benestante e conservatore che condusse la sua esistenza convinto di difendere la verità. All’inizio degli anni Trenta, con l’avvento del New Deal, si trovò coinvolto nel dramma politico di quel periodo. Era sicuro che quel cambiamento fosse deleterio per la nazione e, per devozione al suo stile di vita e alla convinzione di essere nel giusto, si votò a combattere quello che riteneva un male politico. Ma la marea del tempo era troppo forte e lo sopraffece. Lottò per dieci anni nell’arena politica e nell’ambito della sua vita personale; poi la seconda guerra mondiale suggellò la totale sconfitta dei suoi sforzi.
Il suo crollo politico e ideologico sfociò in una profonda amarezza e divenne un autoesiliato per venticinque anni. Quando lo conobbi era un ottantaquattrenne tornato nella sua città natale a trascorrere i suoi ultimi anni in una casa di riposo. Mi sembrava inconcepibile che fosse vissuto così a lungo, considerando il modo in cui aveva sciupato la sua esistenza nell’amarezza e nell’autocommiserazione. In un qualche modo trovava la mia compagnia piacevole ed eravamo soliti chiacchierare a lungo.
L’ultima volta che lo vidi aveva concluso la nostra conversazione così: «Ho avuto il tempo per guardarmi intorno e per esaminare la mia esistenza. Le questioni della mia epoca sono, oggi, solo un racconto, nemmeno interessante. Forse ho buttato via anni della mia vita andando alla ricerca di qualcosa che non è mai esistito. Di recente ho avuto la sensazione di aver creduto in qualcosa di farsesco. Non ne valeva la pena, penso di saperlo. Tuttavia non posso recuperare i quarantanni che ho perso».
Confessai a don Juan che il mio conflitto era sorto dai dubbi nei quali mi avevano gettato le sue parole sulla follia controllata.
«Se davvero nulla ha importanza,» affermai «diventando un uomo di sapere ci si troverebbe, per forza, vuoti come il mio amico e non in una posizione migliore.»
«Non è così» rispose secco don Juan. «Il tuo amico è solo perché morirà senza vedere. Nella sua vita è solo diventato vecchio e ora deve avere più autocommiserazione di quanta ne abbia mai avuta prima. Egli sente di aver gettato via quarantanni perché bramava vittorie e trovò solo sconfitte. Non saprà mai che essere vincenti o sconfitti è la stessa cosa. Così tu hai paura di me perché ho detto che sei uguale a qualsiasi altra cosa. Sei puerile. Il nostro destino di uomini è quello di imparare e si va verso il sapere come si va in guerra; te l’ho ripetuto infinite volte. Si va verso il sapere o in guerra con paura, con rispetto, consapevoli di andare in guerra, e con assoluta fiducia in se stessi. Riponi la fiducia in te stesso, non in me. Ora hai paura della vacuità della vita del tuo amico, ma non c’è alcun vuoto nella vita di un uomo di sapere, ti dico. Tutto è pieno fino all’orlo.»
Don Juan si alzò e distese le braccia come se sentisse delle cose nell’aria.
«Tutto è pieno fino all’orlo,» ripetè «e tutto è uguale. Io non sono come il tuo amico, che è solo invecchiato. Quando ti dico che nulla ha importanza, non lo intendo come lui. Per lui non valeva la pena di lottare perchè fu sconfitto; per me non c’è vittoria, nè sconfitta, nè vuoto. Tutto è pieno fino all’orlo e tutto è uguale, e per me la mia lotta meritava di essere combattuta. Per diventare un uomo di sapere è necessario essere un guerriero, non un bambino piagnucolante. Ci si deve sforzare senza arrendersi, senza lamentarsi, senza tirarsi indietro, finchè si vede, solo per realizzare alla fine che nulla ha importanza.»
Don Juan rimescolò il cibo nella pentola con un cucchiaio di legno, era pronto. Tolse la pentola dal fuoco e la mise su un blocco rettangolare di mattoni che aveva costruito contro il muro e che usava come ripiano o come tavolo. Con il piede spinse due cassette che servivano da comode sedie, specialmente se ci si sedeva con la schiena contro le travi di sostegno del muro. Mi fece segno di sedermi e riempì una scodella di zuppa. Sorrise; i suoi occhi luccicavano come se stesse godendo veramente della mia presenza. Spinse con gentilezza la scodella verso di me. Nel suo gesto c’erano un calore e una premura tali da sembrare una richiesta di ristabilire la mia fiducia in lui. Mi sentivo idiota; tentai di cambiare il mio stato d’animo cercando il mio cucchiaio, ma non riuscivo a trovarlo. La zuppa era troppo calda per essere bevuta direttamente dalla scodella, e mentre si raffreddava chiesi a don Juan se la follia controllata significasse che a un uomo di sapere non poteva più piacere nessun altro.
Smise di mangiare e rise.
«Sei troppo preoccupato di farti piacere gli altri o di piacere a tua volta. A un uomo di sapere piace qualunque cosa, qualunque cosa o persona che decida di farsi piacere, e questo è tutto, ma usa la sua follia controllata per non essere coinvolto in ciò. È l’opposto di ciò che stai facendo tu adesso. Amare le persone o essere amati dalla gente non è tutto quello che si può fare in quanto uomini.»
Mi fissò per un istante con la testa un po’ inclinata da una parte.
«Riflettici su» concluse.
«C’è ancora una cosa che desidero domandarti, don Juan. Hai detto che abbiamo bisogno di guardare con i nostri occhi per ridere, ma io credo che noi ridiamo perché pensiamo. Considera il caso di un uomo cieco, anche lui ride.»
«No. I ciechi non ridono. I loro corpi sussultano un poco con l’andamento di una risata. Non hanno mai guardato il lato divertente del mondo e devono immaginarlo. La loro risata non è fragorosa.»
Non parlammo più. Provavo una sensazione di benessere, di felicità. Mangiammo in silenzio; poi don Juan cominciò a ridere: stavo usando un ramoscello secco per portare le verdure alla bocca.
— 4 ottobre 1968
A un certo punto chiesi a don Juan se fosse disposto a parlare ancora un po’ del «vedere». Per un istante sembrò riflettere, poi sorrise e disse che io ero di nuovo ricaduto nella mia solita routine, perché cercavo di parlare al posto di agire.
«Se vuoi vedere devi permettere al fumo di guidarti» asserì in modo enfatico. «Non te ne parlerò mai più.»
Lo stavo aiutando a pulire alcune erbe secche. Lavorammo a lungo in totale silenzio. Quando sono obbligato a un silenzio prolungato mi sento sempre in apprensione, soprattutto vicino a don Juan. A un certo punto gli posi una domanda con una sorta di slancio impulsivo, quasi belligerante.
«Un uomo di sapere come esercita la follia controllata quando muore una persona che ama?» chiesi.
Don Juan fu preso alla sprovvista e mi guardò in modo strano.
«Prendi tuo nipote Lucio» proseguii. «Se morisse, le tue azioni sarebbero follia controllata?»
«Prendi mio figlio Eulalio, è un esempio migliore» rispose calmo don Juan. «Fu schiacciato dai massi mentre lavorava alla costruzione della Pan-American Highway. Quando morì le mie azioni nei suoi confronti furono follia controllata. Quando giunsi nel luogo dell’esplosione era quasi morto, ma il suo corpo era così forte che continuava a muoversi e scalciare. Mi fermai davanti a lui e ordinai ai ragazzi della squadra di non muoverlo più; mi obbedirono e rimasero in piedi intorno a mio figlio, guardando il suo corpo lacerato. Anch’io stavo là, ma non guardai, spostai gli occhi così che potessi vedere la sua vita personale disintegrarsi ed espandersi oltre i suoi limiti, come una nebbia di cristalli, perché questo è il modo in cui la vita e la morte si mescolano e si espandono. Questo è ciò che feci al momento della morte di mio figlio; è tutto ciò che si possa mai fare, ed è follia controllata. Se l’avessi guardato lo avrei osservato diventare immobile e avrei sentito un urlo dentro di me, perché non avrei mai più guardato la sua bella figura camminare sulla terra. Invece, vidi la sua morte, e non ci fu tristezza, né sentimento. La sua morte era uguale a qualunque altra cosa.»
Don Juan tacque per un momento. Sembrava triste, ma poi sorrise e mi diede dei colpetti sulla testa.
«Così puoi dire che quando sopraggiunge la morte di una persona amata, la mia follia controllata consiste nello spostare gli occhi.»
Pensai alle persone che amavo e un’ondata di autocommiserazione opprimente mi avviluppò.
«Sei fortunato, don Juan. Puoi spostare gli occhi mentre io posso solo guardare.»
Trovò divertente la mia affermazione e rise.
«Fortunato un corno!» ribatté. «È un lavoro duro.»
Ridemmo entrambi. Dopo un lungo silenzio cominciai a metterlo di nuovo alla prova, forse solo per dissipare la mia tristezza.
«Se ti ho capito bene, don Juan,» dissi «le sole azioni nella vita di un uomo di sapere che non siano follia controllata sono quelle compiute con il suo alleato o con Me- scalito. Non è forse vero?»
«È vero» rispose ridacchiando. «Il mio alleato e Mesca- lito non sono sullo stesso piano di noi esseri umani. La mia follia controllata si applica solo a me stesso e alle azioni compiute mentre sono in compagnia dei miei simili.»
«Comunque, è una possibilità logica» continuai «pensare che un uomo di sapere possa anche considerare le sue azioni con il suo alleato o con Mescalito come follia controllata, vero?»
Mi fissò per un istante.
«Stai pensando di nuovo. Un uomo di sapere non pensa, perciò non può incontrare quella possibilità. Prendi me, per esempio. Dico che la mia follia controllata si applica alle azioni che ho compiuto in compagnia dei miei simili e lo affermo perché posso vedere i miei simili. Tuttavia non posso vedere attraverso il mio alleato e ciò me lo rende incomprensibile: così come potrei controllare la mia follia se non vedo attraverso di lui? Con il mio alleato o con Mescalito sono solo un uomo che sa come vedere e scopre di essere confuso da ciò che vede\ un uomo consapevole del fatto che non capirà mai tutto quello che lo circonda.
Prendi il tuo caso, per esempio. Non mi importa se diventi o no un uomo di sapere; tuttavia, importa a Mescalito. È ovvio che gli interessa, altrimenti non avrebbe mai fatto così tanti passi per mostrare la sua preoccupazione per te. Posso notare il suo interesse e agisco di conseguenza, ma le sue ragioni mi sono incomprensibili.»
Proprio mentre stavamo salendo sulla mia auto per iniziare un viaggio nel Messico centrale, il 5 ottobre 1968, don Juan mi fermò.
«Ti ho detto prima» sottolineò con un’espressione seria «che non si dovrebbe mai rivelare il nome di uno stregone né il luogo in cui si trova. Credo che tu abbia capito di non dover mai svelare né il mio nome né il posto dove è il mio corpo. Ora ti chiederò di fare la stessa cosa con un mio amico, un amico che chiamerai Genaro. Andremo a casa sua e trascorreremo un po’ di tempo là.»
Gli assicurai che non avrei mai tradito la sua fiducia.
«Lo so» replicò senza cambiare la sua espressione seria. «Ma temo la tua sbadataggine.»
Protestai e don Juan spiegò che il suo scopo era solo quello di ricordarmi che ogni qual volta si era incuranti in materia di stregoneria, si giocava con una morte imminente e insensata, evitabile con l’attenzione e la consapevolezza.
«Non toccheremo più questo argomento» affermò. «Dopo aver lasciato la mia casa non faremo menzione di Genaro né lo penseremo. Voglio che tu metta i tuoi pensieri in ordine, adesso. Quando lo incontrerai dovrai essere chiaro e non avere dubbi in mente.»
«A quale genere di dubbi ti riferisci, don Juan?»
«A qualunque genere. Quando lo incontrerai dovrai essere cristallino. Ti vedrà.»
I suoi strani ammonimenti mi resero ansioso. Accennai che forse era meglio se non avessi incontrato per niente il suo amico; lo avrei portato in prossimità della casa e lo avrei lasciato là.
«Ciò che ti ho detto era solo una precauzione» concluse. «Hai già incontrato uno stregone, Vicente, e ti ha quasi ucciso. Stai attento questa volta!»
Dopo essere arrivati nel Messico centrale, ci vollero due giorni di cammino dal luogo in cui avevo lasciato l’auto alla casa del suo amico, una casupola appollaiata sul fianco di una montagna. L’amico di don Juan era sulla porta, come se ci stesse aspettando. Lo riconobbi subito, perché avevo già fatto la sua conoscenza, anche se solo di sfuggita, quando avevo portato il mio libro a don Juan. Quella volta non lo avevo osservato, se non in modo superficiale, così avevo avuto l’impressione che fosse vecchio come don Juan; invece ora notai che era di diversi anni più giovane: era forse sulla sessantina, più basso e più magro di don Juan, scuro di carnagione e nerboruto. I suoi capelli fitti, grigiastri e un po’ lunghi gli coprivano le orecchie e la fronte. Il viso era rotondo e severo, e il naso prominente lo faceva assomigliare a un uccello rapace con piccoli occhi scuri.
Parlò prima con don Juan, che annuì con un cenno del capo. Conversarono pochi minuti e non parlarono in spagnolo, così non capii cosa si dicevano. Poi don Genaro si rivolse a me.
«Benvenuto nella mia umile casupola» esordì apologeticamente in spagnolo.
Le sue parole erano una formula di cortesia che avevo sentito altre volte in varie zone rurali del Messico, ma non appena pronunciò quella frase rise con gioia senza nessuna ragione palese, e capii che stava esercitando la sua follia controllata. Non gli importava per niente che la sua casa fosse una baracca. Don Genaro mi piaceva molto.
Nei due giorni successivi andammo sulle montagne a raccogliere piante. Don Juan, don Genaro e io partivamo ogni giorno alle luci dell’alba. I due vecchi andavano insieme in una zona precisa, ma non identificata, delle montagne e mi lasciavano solo in un luogo boscoso, dove provavo una mirabile sensazione: non mi rendevo conto dello scorrere del tempo, né avevo paura di stare da solo; l’esperienza straordinaria di quei giorni fu un’arcana capacità di concentrarmi nel delicato compito di trovare le piante specifiche di cui don Juan mi aveva affidato la raccolta.
Tornavamo a casa nel tardo pomeriggio e, entrambe le volte, ero così stanco che mi addormentai subito.
Il terzo giorno, invece, fu diverso. Lavorammo tutti e tre insieme e don Juan chiese a don Genaro di insegnarmi a scegliere certe piante. Ritornammo intorno a mezzogiorno e i due vecchi restarono seduti per ore davanti alla casa, nel silenzio più assoluto, come se fossero stati in trance, ma non stavano dormendo. Passeggiai intorno a loro un paio di volte; don Juan seguiva i miei movimenti con gli occhi, così come don Genaro.
«Devi parlare con le piante prima di raccoglierle» disse don Juan. Lasciò cadere le parole in modo casuale e ripetè la frase tre volte, come per catturare la mia attenzione. Nessuno aveva detto nulla prima che lui parlasse.
«Per vedere le piante devi parlare loro personalmente» proseguì. «Devi arrivare a conoscerle una ad una; allora le piante ti potranno svelare qualunque cosa t’interessi sapere di loro.»
Era tardo pomeriggio e don Juan stava seduto su una roccia piatta rivolto verso le montagne a occidente; don Genaro era seduto vicino a lui su una stuoia di paglia con il volto verso nord. Il primo giorno in cui eravamo lì don Juan mi aveva detto che quelle erano le loro «posizioni» e che dovevo sedermi per terra in un posto diverso dal loro, e aggiunse che, mentre eravamo seduti in quelle posizioni, dovevo mantenere il viso rivolto a sud-est e guardare verso le piante solo con brevi occhiate.
«Sì, è così che si fa con le piante, non è vero?» osservò don Juan e si voltò verso don Genaro, il quale concordò annuendo.
Gli confidai che non avevo seguito le sue istruzioni perché mi sentivo un po’ stupido a parlare con le piante.
«Non riesci a capire che uno stregone non scherza» mi ammonì severamente. «Quando uno stregone cerca di vedere, tenta di guadagnare potere.»
Don Genaro mi stava fissando mentre prendevo appunti: sembrava sconcertato. Mi sorrise, scosse la testa e sussurrò qualcosa a don Juan, che alzò le spalle. Vedermi scrivere doveva essere molto strano per don Genaro. Suppongo che don Juan fosse abituato a vedermi prendere appunti, e il fatto che scrivessi mentre parlava non era più tanto bizzarro per lui; riusciva a continuare a parlare senza mostrare di notare le mie azioni. Don Genaro, invece, andava avanti a ridere, e dovetti smettere di scrivere per non turbare il clima della conversazione.
Don Juan affermò ancora che gli atti di uno stregone non dovevano essere presi per scherzi perché uno stregone gioca con la morte a ogni curva della strada. Poi proseguì raccontando a don Genaro di come, una notte, avessi guardato le luci della morte che mi seguivano durante un nostro viaggio. La storia risultò quanto mai divertente e don Genaro si rotolò a terra dalle risate.
Don Juan mi chiese scusa e spiegò che il suo amico era solito a esplosioni di ilarità. Guardai don Genaro di sfuggita, credendo che si stesse ancora rotolando per terra, e lo vidi compiere un atto ancora più strampalato: stava in equilibrio sulla testa senza l’aiuto delle braccia o delle mani, con le gambe incrociate come se fosse seduto. Lo spettacolo era così assurdo da farmi sobbalzare. Nello stesso momento in cui realizzai che stava facendo una cosa quasi impossibile dal punto di vista della meccanica del corpo, era già ritornato seduto normalmente. Don Juan, comunque, sembrava capire cosa c’era sotto e celebrò lo spettacolo del suo amico con una risata fragorosa.
Sembrava che don Genaro avesse notato il mio sbigottimento, batté le mani un paio di volte e si rotolò per terra di nuovo; evidentemente voleva che lo guardassi. Ciò che all’inizio sembrava un rotolarsi per terra in realtà era uno stare inclinato in posizione seduta, fino a toccare il suolo con il capo. In apparenza raggiungeva quella posa illogica acquistando slancio, oscillando parecchie volte, fino a che la forza d’inerzia portava il suo corpo in posizione verticale, così che per un istante «stava seduto sulla testa».
Quando le loro risate si placarono, don Juan riprese a parlare e il suo tono era severo. Cambiai posizione per stare più comodo e prestargli tutta la mia attenzione. Non sorrideva per nulla, come faceva di solito, in particolare quando cercavo di prestare attenzione a cosa diceva. Don Genaro continuava a guardarmi come se si aspettasse che ricominciassi a scrivere, ma non presi più appunti. Le parole di don Juan erano un rimprovero per non aver parlato alle piante che avevo raccolto, come mi aveva sempre raccomandato di fare. Sottolineò che le piante che avevo ucciso avrebbero anche potuto ammazzarmi e che era sicuro che, prima o poi, mi avrebbero fatto ammalare; poi aggiunse che se fosse accaduto sarei comunque guarito e avrei creduto di avere avuto solo un po’ d’influenza.
I due vecchi ebbero un altro momento di ilarità, poi don Juan tornò di nuovo serio e affermò che se non pensavo alla mia morte, la mia vita intera sarebbe stata solo un caos personale. Sembrava molto austero.
«Cos’altro può avere un uomo oltre alla sua vita e alla sua morte?» mi chiese.
A quel punto avvertii la necessità pressante di prendere appunti e ricominciai a scrivere. Don Genaro mi fissò e sorrise, poi inclinò un poco indietro il capo e dilatò le narici: aveva un controllo notevole sui muscoli che le muovevano perché le aprì almeno il doppio della loro dimensione normale.
La cosa più comica del suo comportamento da buffone non erano tanto i suoi gesti, quanto le sue reazioni a essi. Dopo aver dilatato le narici si buttò giù, ridendo, e assunse di nuovo la stessa strana posizione capovolta, seduto sulla testa.
Don Juan rise fino a che le lacrime scivolarono giù dalle guance. Mi sentivo un po’ imbarazzato e feci una risata nervosa.
«A Genaro non piace che si scriva» dichiarò don Juan come spiegazione.
Riposi i miei appunti, ma don Genaro mi assicurò che scrivere non era un problema perché in realtà non gli importava, allora raccolsi di nuovo le mie annotazioni e ricominciai a prendere nota. Don Genaro ripetè la stessa sequenza comica e tutti e due ebbero di nuovo le stesse reazioni.
Don Juan mi guardò, ridendo ancora, e disse che il suo amico mi stava imitando perché avevo la tendenza a dilatare le narici quando scrivevo; e aggiunse che don Genaro pensava che cercare di diventare stregone prendendo appunti fosse tanto assurdo quanto sedersi sulla testa, per questo motivo aveva assunto quella posizione ridicola.
«Forse non pensi che sia divertente,» proseguì don Juan «ma solo Genaro riesce a sedersi in questo modo sulla testa, e solo tu puoi pensare di imparare a diventare uno stregone scrivendo.»
Entrambi scoppiarono ancora a ridere e don Genaro ri- peté il suo movimento incredibile.
Mi piaceva: c’era così tanta grazia e sincerità nelle sue azioni.
«Le mie scuse, don Genaro» dissi indicando il mio blocco per appunti.
«Va tutto bene» replicò, e ridacchiò un’altra volta.
Non potei più scrivere. I due sciamani continuarono a parlare per molto tempo di come le piante potessero uccidere realmente e di come gli stregoni usavano quella capacità. Entrambi continuavano a fissarmi mentre parlavano, come se si aspettassero che scrivessi.
«Carlos è come un cavallo a cui non piace essere sellato» disse don Juan. «Devi andarci molto piano con lui. L’hai spaventato e adesso non scriverà.»
Don Genaro dilatò le narici, aggrottò le sopracciglia, e storcendo la bocca esclamò in tono di scusa beffarda: «Avanti, Carlito, scrivi! Scrivi finché non ti cade il pollice».
Don Juan si alzò, allungando le braccia e inarcando la schiena. Malgrado l’età avanzata, il suo corpo sembrava potente e agile. Andò verso i cespugli di fianco alla casa, lasciandomi solo con don Genaro, che mi guardò; io evitai lo sguardo perché mi faceva sentire in imbarazzo.
«Non dirmi che non hai neppure intenzione di guardarmi!» affermò con un’intonazione molto divertita.
Dilatò le narici e le fece vibrare, poi si alzò e ripetè i movimenti di don Juan, inarcando la schiena e distendendo le braccia, ma contorcendo il corpo in una posizione ridicolissima; era un gesto indescrivibile che univa un raffinato senso di pantomima con quello del ridicolo. Mi incantò. Era una caricatura magistrale di don Juan.
Don Juan ritornò in quell’istante, colse il gesto e ovviamente anche il significato. Si sedette ridacchiando.
«Qual è la direzione del vento?» chiese con noncuranza don Genaro.
Don Juan indicò l’ovest con un cenno del capo.
«Farei meglio ad andare dove soffia il vento» dichiarò don Genaro con un’espressione seria. Poi si voltò verso di me e puntò l’indice.
«E tu non fare caso se senti strani rumori.»
«Quando Genaro caga le montagne tremano» aggiunse don Juan.
Balzò nei cespugli e un istante dopo sentii un rumore molto strano, un rombo profondo, soprannaturale. Non sapevo cosa pensare. Guardai don Juan per un indizio, ma era piegato in due dal ridere.
—17 ottobre 1968
Non ricordo cosa spinse don Genaro a parlarmi dell’ordinamento dell’«altro mondo», come lo chiamava lui. Disse che uno sciamano esperto era un’aquila, o, piuttosto, che poteva trasformarsi in un’aquila. D’altro canto, uno stregone malvagio era un tecolote, un gufo. Don Genaro spiegò che uno stregone malvagio era un figlio della notte e per un uomo simile gli animali più utili erano il puma
0 altri felini selvatici, o gli uccelli notturni, in modo particolare il gufo. Aggiunse che i brujos liricos, gli stregoni lirici, intendendo gli sciamani dilettanti, preferivano altri animali, per esempio un corvo. Don Juan rise, era rimasto ad ascoltare in silenzio.
Don Genaro si voltò verso di lui e disse: «È vero, lo sai, Juan». Poi aggiunse che uno stregone esperto poteva prendere con sé il suo discepolo in un viaggio e passare attraverso
1 dieci strati dell’altro mondo. Il maestro, a patto che fosse un’aquila, poteva iniziare dallo strato più basso e poi attraversare ogni mondo successivo fino a raggiungere il vertice, mentre gli stregoni malvagi e i dilettanti potevano, al massimo, attraversare solo tre strati.
Don Genaro fece una descrizione di ciò che significavano quei passi: «Inizi proprio dal fondo e poi il tuo maestro ti prende con lui nel suo volo e presto, bum!, attraversi il primo strato. Poi, un po’ dopo, bum!, attraversi il secondo, e bum!, passi attraverso il terzo...».
Don Genaro mi portò attraverso dieci «bum!» fino all’ultimo strato del mondo. Quando ebbe finito di parlare, don Juan mi guardò e sorrise.
«Parlare non è la predilezione di don Genaro,» rivelò «ma se ti interessa ricevere una lezione, ti insegnerà l’equilibrio delle cose.»
Don Genaro annuì, storse la bocca e socchiuse gli occhi.
La sua mimica mi parve magnifica.
Si alzò e don Juan fece lo stesso.
«Va bene» esclamò don Genaro. «Andiamo, allora. Potremo andare e aspettare Néstor e Pablito. Hanno finito ora. Di giovedì finiscono presto.»
Entrambi salirono sulla mia auto e don Juan si sedette davanti. Non chiesi loro nulla, ma mi limitai ad avviare il motore. Don Juan mi indicò la strada fino a un luogo che spiegò essere la casa di Néstor, don Genaro vi entrò e poco dopo uscì con Néstor e Pablito, due giovani uomini che erano i suoi apprendisti. Salirono tutti sulla mia auto e don Juan mi disse di prendere la strada che conduceva alle montagne occidentali.
Lasciammo la macchina sul ciglio della strada battuta e proseguimmo a piedi lungo la riva di un fiume, largo cinque o sei metri, fino a una cascata visibile anche da dove avevo parcheggiato. Era tardo pomeriggio, e lo scenario era meraviglioso: proprio sopra di noi un’enorme nuvola bluastra e scura sembrava un tetto fluttuante e aveva i contorni ben definiti come un enorme semicerchio. A ovest, sulle alte montagne della Cordigliera centrale, la pioggia pareva scendere sui pendii, come una cortina biancastra caduta sulle verdi sommità. A est si stendeva la valle lunga e profonda, e su di essa c’erano solo nubi sparse e il sole splendeva. E contrasto tra le due zone era magnifico. Ci fermammo ai piedi della cascata, alta forse una cinquantina di metri; il rombo era potente.
Don Genaro si allacciò attorno alla vita una cintura da cui pendevano almeno sette oggetti che sembravano piccole zucche vuote. Si tolse il cappello e lo lasciò penzoloni sulla schiena, tenuto da una cordicella legata intorno al collo. Si mise sul capo una fascia che aveva estratto da una borsa di un fitto tessuto di lana. Anche la fascia era di lana di svariati colori, tra i quali spiccava il giallo vivo. Inserì tre penne nella fascia, sembravano d’aquila. Notai che i punti in cui le aveva inserite non erano simmetrici: una penna era infilata in alto dietro l’orecchio destro, un’altra era a qualche centimetro sopra la fronte e la terza era alla tempia sinistra. Poi si tolse i sandali, li appese o li legò alla vita dei pantaloni, e si allacciò sul poncho la cintura, che sembrava fatta di strisce intrecciate di cuoio. Non riuscii a vedere se la legò o l’allacciò alla fibbia. Infine, si avviò verso la cascata.
Don Juan spostò un masso tondo, lo sistemò in modo che fosse saldo e vi si sedette. Gli altri due giovani fecero lo stesso con altre rocce e si sedettero alla sua sinistra. Don Juan indicò il posto vicino a lui, alla sua destra, e mi disse di portare un masso e sedermi vicino a lui.
«Dobbiamo formare una linea qui» affermò, mostrandomi che loro tre erano seduti in fila.
Nel frattempo don Genaro aveva raggiunto proprio i piedi della cascata e aveva iniziato a salire lungo un sentiero sul lato destro di essa. Da dove eravamo seduti, pareva molto scosceso. C’erano numerosi arbusti che usava come appigli, ma a un certo punto sembrò perdere l’equilibrio e quasi scivolare giù, come se il sentiero fosse sdrucciolevole. Un attimo dopo accadde la stessa cosa e mi balenò in mente il pensiero che forse don Genaro fosse troppo vecchio per arrampicarsi. Lo vidi scivolare e inciampare molte volte prima di raggiungere il punto in cui il sentiero terminava.
Provai una sorta di apprensione quando iniziò a scalare le rocce, e non riuscivo a immaginare cosa stesse per fare.
«Cosa sta facendo?» domandai a don Juan in un bisbiglio.
Don Juan non mi guardò e rispose: «È ovvio, si sta arrampicando».
Don Juan stava osservando don Genaro, il suo sguardo era fisso e aveva le palpebre socchiuse. Stava seduto con le mani tra le gambe, sul bordo del masso.
Mi sporsi un poco per vedere i due giovani uomini. Don Juan fece un gesto imperativo con la mano per farmi ritornare in linea e io mi ritrassi subito. Riuscii a vederli solo di sfuggita, sembravano attenti come lui.
Don Juan fece un altro gesto con la mano indicando la direzione della cascata.
Guardai ancora: don Genaro aveva scalato un bel pezzo della parete rocciosa. Nel momento in cui guardai stava appollaiato su una sporgenza, muovendosi piano per aggirare un enorme macigno. Aveva le braccia aperte, come se stesse abbracciando la roccia. Si mosse appena verso destra e d’un tratto perse l’equilibrio. Ansimai senza volerlo. Per un momento tutto il suo corpo penzolò in aria. Ero certo che sarebbe caduto, ma non fu così. Si era aggrappato con la mano destra a qualcosa e i suoi piedi, molto agilmente, ritornarono di nuovo sulla sporgenza, ma prima di avanzare si voltò verso di noi e guardò: fu solo un’occhiata fugace, ma nel voltare il capo c’era una stilizzazione tale che iniziai a fantasticare. Ricordai che si era girato per guardarci ogni volta che era scivolato. Avevo pensato che don Genaro potesse sentirsi imbarazzato a causa della sua goffaggine e si fosse voltato per controllare se lo stessimo osservando.
Si arrampicò ancora un po’ verso la cima, perdendo un’altra volta l’equilibrio, e restò appeso pericolosamente alla roccia sovrastante: questa volta si sostenne con la mano sinistra, e quando riacquistò l’equilibrio si girò e ci guardò di nuovo, poi scivolò ancora due volte prima di raggiungere la cima. Da dove eravamo seduti, la sommità della cascata sembrava larga sei o sette metri. Per un istante don Genaro rimase in piedi immobile. Volevo chiedere a don Juan cosa stesse per fare lassù, ma don Juan sembrava così assorto che non osai disturbarlo.
All’improvviso don Genaro saltò nell’acqua. Fu un’azione così inaspettata che sentii un vuoto alla bocca dello stomaco. Fu un balzo magnifico e strano. Per un secondo ebbi la netta sensazione di aver visto una serie di immagini sovrapposte del suo corpo che faceva un volo ellittico al centro della corrente.
Quando la mia sorpresa diminuì notai che era atterrato su una roccia sul ciglio della cascata, una roccia a stento visibile da dove eravamo seduti.
Restò appollaiato lì a lungo. Sembrava lottare contro la potenza dell’acqua impetuosa. Due volte restò sospeso sul precipizio e non riuscii a identificare a cosa si afferrasse. Recuperò l’equilibrio e si rannicchiò sulla roccia. Poi balzò un’altra volta, come una tigre. Riuscii a malapena a vedere la roccia successiva sulla quale atterrò; era simile a un piccolo cono sul ciglio della cascata.
Rimase là almeno dieci minuti, era immobile e la sua fissità mi impressionò a tal punto che tremavo. Volevo alzarmi e fare due passi, ma don Juan notò il mio nervosismo e mi invitò stare calmo.
L’immobilità di don Genaro mi gettò in un terrore straordinario e misterioso, e sentivo che se fosse rimasto appollaiato là ancora un po’ non sarei riuscito a controllarmi.
Poi balzò di nuovo, questa volta direttamente fino all’altra sponda della cascata: atterrò sui piedi e sulle mani come un felino e rimase in quella posizione accovacciata per un momento, poi si alzò e guardò attraverso la cascata, dall’altra parte, e poi in basso verso di noi. Restò immobile come un morto a guardarci. Le mani erano serrate ai lati del corpo, come se si tenesse a un parapetto invisibile.
Nella sua postura c’era qualcosa di mirabile; il suo corpo sembrava così agile, così fragile. Pensai che don Genaro, con la fascia e le penne, il poncho scuro e i piedi nudi fosse l’essere umano più bello che avessi mai visto.
Un momento dopo alzò le braccia, sollevò il capo e lanciò il corpo in una sorta di salto mortale laterale a sinistra. Il masso su cui stava era rotondo e quando saltò scomparve dietro di esso.
In quel momento iniziarono a cadere enormi gocce di pioggia. Don Juan si alzò e i due giovani uomini fecero altrettanto. Il loro movimento fu così brusco che mi confuse. L’impresa magistrale di don Genaro mi aveva gettato in uno stato di profonda eccitazione emotiva, lo percepivo come un artista consumato, e desideravo vederlo al più presto per applaudirlo.
Cercai di guardare la parte sinistra della cascata per vedere se stava scendendo, ma non c’era. Insistetti per sapere cosa gli fosse successo, ma don Juan non rispose.
«È meglio se ci affrettiamo ad andarcene» affermò. «È un vero e proprio diluvio. Dobbiamo portare a casa Néstor e Pablito e poi iniziare il nostro viaggio di ritorno.»
«Ma non ho nemmeno salutato don Genaro» mi lamentai.
«Ti ha già salutato lui» replicò aspro don Juan.
Mi scrutò per un istante, e poi addolcì la sua espressione e sorrise.
«Ti ha anche augurato del bene. Si sentiva felice con te.»
«Ma non abbiamo intenzione di aspettarlo?»
«No!» rispose in modo deciso. «Lasciamolo stare, dovunque sia. Forse è un’aquila che vola verso l’altro mondo, o forse è morto lassù. Non ha importanza ora.»
— 23 ottobre 1968
Don Juan lasciò intendere con noncuranza di aver intenzione di fare presto un altro viaggio nel Messico centrale.
«Andrai a fare visita a don Genaro?» domandai.
«Forse» rispose senza guardarmi.
«Sta bene, non è vero, don Juan? Intendo dire, non gli è successo nulla di male lassù, in cima alla cascata?»
«Non gli è successo nulla; è forte.»
Parlammo per un po’ del suo progetto di viaggio e poi rivelai che mi erano piaciuti la compagnia di don Genaro e i suoi scherzi. Lui rise, affermando che don Genaro era veramente come un bambino. Ci fu una lunga pausa nel la quale mi sforzai di trovare un pretesto per interrogarlo sulla sua lezione, allora don Juan mi guardò e commentò in tono malizioso: «Stai morendo dalla voglia di chiedermi della lezione di don Genaro, non è vero?».
Risi imbarazzato, infatti ero rimasto ossessionato da tutto ciò che era successo presso la cascata. Avevo buttato all’aria e ricomposto tutti i dettagli che ero riuscito a ricordare, ed ero giunto alla conclusione di aver assistito a un’incredibile impresa di prodezza fisica. Pensai che don Genaro fosse senza dubbio un impareggiabile maestro di equilibrio; ogni singolo movimento che aveva compiuto era ritualizzato in sommo grado e, inutile a dirsi, doveva aver avuto qualche significato simbolico e inestricabile.
«Sì» confessai. «Ammetto di morire dalla voglia di sapere quale fosse la sua lezione.»
«Permettimi di dirti una cosa» continuò don Juan. «Per te è stata una perdita di tempo: la sua lezione era per qualcuno che potessevedere. Pablito e Néstor hanno ricavato il succo, anche se non vedono molto bene, ma tu, tu sei andato lì per guardare. Raccontai a Genaro che sei uno stranissimo sciocco accecato, e che forse la sua lezione ti avrebbe aperto gli occhi, ma non è stato così. Non importa, comunque. Vedere è molto difficile. Non volevo che dopo parlassi con don Genaro, così siamo dovuti partire. Peccato. Ma sarebbe stato ancora peggio rimanere. Genaro rischiò moltissimo per mostrarti qualcosa di magnifico, peccato che tu non riesca a vedere.»
«Forse, don Juan, se mi dicessi qual era la lezione, potrei scoprire di aver visto veramente.»
Don Juan si piegò in due dal ridere.
«La tua specialità è fare domande» esclamò.
Era chiaro che stava per lasciar cadere di nuovo l’argomento. Eravamo seduti, come al solito, davanti alla sua casa; poi si alzò ed entrò. Lo inseguii e insistetti nel descrivergli che cosa avevo visto, narrai con precisione la successione degli eventi così come la ricordavo. Don Juan continuava a sorridere mentre parlavo, e quando ebbi finito scosse la testa.
«Vedere è molto difficile.»
Lo pregai di spiegare la sua affermazione.
«Vedere non è una questione di chiacchiere» dichiarò ruvido.
Era ovvio che non aveva intenzione di dirmi più nulla, così mi arresi e lasciai la casa per sbrigargli alcune commissioni.
Quando tornai era già buio; mangiammo un boccone e poi uscimmo sotto la ramada. Non eravamo ancora seduti che già don Juan iniziò a parlare della lezione di don Genaro. Non mi diede il tempo di prepararmi: avevo i miei appunti con me, ma era troppo buio per scrivere e non volevo alterare il fluire della conversazione entrando in casa a prendere la lanterna a cherosene.
Disse che don Genaro, essendo un maestro di equilibrio, poteva eseguire movimenti molto complessi e difficoltosi: stare seduto sul capo era uno di questi esercizi, e con esso aveva cercato di mostrarmi che era impossibile «vedere» mentre prendevo appunti. Quella posizione era, al meglio, una trovata stravagante della durata di un solo istante. Secondo don Genaro, scrivere sul «vedere» era la stessa cosa: una mossa precaria, tanto strana e inutile come sedersi sulla testa.
Don Juan mi scrutò nell’oscurità e in tono serio spiegò che nel momento in cui don Genaro mi prendeva in giro sedendosi sul capo, ero proprio sul punto di «vedere». Lui lo notò e ripetè più volte le sue mosse, ma invano, perché avevo subito perso il filo.
Don Juan sottolineò che in seguito don Genaro, mosso dalla sua predilezione personale per me, tentò in modo ancora più drammatico di riportarmi sul punto di «vedere». Dopo una scelta molto ponderata, decise di mostrarmi un’impresa di equilibrio attraversando la cascata che sentiva come la sporgenza su cui stavo, ed era fiducioso che anch’io avrei potuto attraversarla.
Don Juan illustrò quindi l’impresa di don Genaro. Rammentò che mi aveva già spiegato che gli esseri umani, per coloro che «vedevano», erano esseri luminosi composti da qualcosa di simile a fibre di luce, che ruotavano davanti e dietro e mantenevano la sembianza di un uovo; aggiunse che, come anche lui mi aveva fatto notare, la parte più stupefacente delle creature simili a uova era la fascia di lunghe fibre che uscivano dalla zona intorno all’ombelico. Don Juan evidenziò l’estrema importanza di quelle fibre nella vita di un uomo; esse erano il segreto dell’equilibrio di don Genaro e la sua lezione non aveva nulla a che fare con i salti acrobatici attraverso la cascata: la sua impresa di equilibrio consisteva nel modo in cui usava quelle fibre «simili a tentacoli».
Don Juan lasciò cadere l’argomento bruscamente così come l’aveva iniziato, e cominciò a parlare di tutt’altro.
— 24 ottobre 1968
Misi don Juan con le spalle al muro e confessai che intuivo l’irripetibilità della lezione di equilibrio, ma che doveva spiegarmela in tutti i suoi dettagli, perché altrimenti non li avrei mai scoperti da solo. Don Juan confermò la mia convinzione che don Genaro non mi avrebbe mai più dato un’altra lezione.
«Che cos’altro vuoi sapere?» chiese.
«Cosa sono quelle fibre tentacolari, don Juan?»
«Sono i tentacoli che fuoriescono dal corpo di un uomo, visibili a ogni stregone che veda. Gli sciamani agiscono nei confronti della gente in base al modo in cui vedono i tentacoli. Le persone deboli hanno fibre molto corte, quasi invisibili; quelle delle persone forti sono luminose e lunghe. Quelle di Genaro, per esempio, sono così luminose da sembrare una densità. Osservando le fibre puoi dire se una persona è in buona salute, malata, gretta, gentile o perfida, e puoi anche dire se una persona riesce a vedere. Ecco un problema paradossale: quando Genaro ti vide seppe, proprio come il mio amico Vicente, che tu eri in grado di vedere; quando ti vedo, vedo che puoi vedere e tuttavia so che non ci riesci. Che paradosso! Genaro non riusciva a capirlo. Io gli dissi che tu eri un tipo strambo e penso che volesse vedere questo da sé e ti portò alla cascata.»
«Perché pensi che io dia l’impressione di essere in grado di vedere?»
Don Juan non mi rispose e rimase in silenzio a lungo. Non volli chiedergli nient’altro. Alla fine mi parlò e disse che sapeva la ragione, ma non come spiegarla.
«Pensi che qualunque cosa nel mondo sia semplice da comprendere» disse «perché ogni cosa che fai è una routine semplice da capire. Alla cascata, quando tu guardavi Genaro mentre attraversava l’acqua, credevi che fosse un maestro di salti mortali, perché erano i salti mortali tutto quello a cui riuscivi a pensare, ed è quello che sempre crederai abbia fatto, ma Genaro non saltò mai attraverso l’acqua, perché se lo avesse fatto sarebbe morto. Genaro si bilanciò sulle sue fibre luminose e superbe, le allungò abbastanza da poter, diciamo, stenderle attraverso la cascata. Dimostrò il modo giusto per rendere lunghi quei tentacoli, e per muoverli con precisione.
«Pablito vide quasi tutti i movimenti di Genaro. Néstor, d’altro canto, vide solo le mosse più ovvie, perdendo i dettagli minuti, ma tu, tu non vedesti assolutamente nulla.»
«Se forse tu mi avessi detto prima, don Juan, che cosa cercare...»
Mi interruppe e sottolineò che darmi istruzioni avrebbe solo ostacolato don Genaro: sapendo cosa stava per accadere, le mie fibre si sarebbero agitate e avrebbero interferito con quelle di don Genaro.
«Se tu potessi vedere, fin dal primo passo fatto da don Genaro ti sarebbe stato ovvio che non stava scivolando mentre saliva su per il fianco della cascata, ma che stava sciogliendo i suoi tentacoli. Due volte li avvolse intorno ai massi e si tenne aggrappato alla roccia a strapiombo come una mosca. Quando arrivò in cima ed era pronto ad attraversare l’acqua, li focalizzò su un piccolo masso nel mezzo della corrente; dopo averli assicurati là, lasciò che le fibre lo tirassero. Genaro non saltò mai, perciò potè atterrare sulla superficie scivolosa dei piccoli ciottoli proprio al bordo della cascata. Le sue fibre erano sempre avvolte con cura intorno a ogni roccia che usava. Non restò sul primo macigno molto a lungo perchè aveva il resto delle fibre legate a un’altra roccia, più piccola, che si trovava nel punto in cui l’impeto dell’acqua era massimo. I suoi tentacoli lo tirarono di nuovo e lui atterrò su quella roccia. Quella fu la cosa più rilevante che fece. La superficie era troppo piccola perchè un uomo ci si aggrappasse, e l’impeto dell’acqua avrebbe spazzato il suo corpo nel precipizio, se non avesse ancora avuto qualcuna delle sue fibre focalizzate sul primo masso. Restò in questa seconda posizione per molto tempo, perchè doveva richiamare i suoi tentacoli e inviarli dall’altra parte della cascata. Quando li ebbe assicurati dovette liberare le fibre focalizzate sulla prima roccia, e questa fu una cosa molto rischiosa: forse solo Genaro poteva farlo. Perse quasi la sua presa, o forse ci stava solo prendendo in giro, non lo sapremo mai con certezza. Personalmente, credo davvero che avesse quasi perso la presa. Lo so, perchè divenne rigido ed emise un magnifico getto, come un raggio di luce attraverso l’acqua. Sento che solo quel raggio avrebbe potuto tirarlo fuori. Quando arrivò dall’altra parte, si alzò e lasciò che le sue fibre brillassero come un grappolo di luci. Quella fu la sola cosa che fece esclusivamente per te, e se tu fossi stato capace di vedere, lo avresti visto: Genaro restò là in piedi, guardandoti, e allora seppe che non avevi visto.»
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— 2 aprile 1968
Don Juan mi guardò per un momento e non sembrò affatto sorpreso di vedermi, sebbene fossero passati più di due anni dall’ultima volta che gli avevo fatto visita. Mi mise la mano sulla spalla sorridendo dolcemente e disse che sembravo diverso, che stavo diventando grasso e flaccido.
Gli avevo portato una copia del mio libro. Senza alcun preambolo lo estrassi dalla mia valigetta e glielo porsi.
«E un libro su di te, don Juan» affermai.
Lo prese e sfogliò le pagine come se fossero un mazzo di carte. Gli piacquero il verde della sovraccoperta e lo spessore del libro. Tastò la copertina, lo rigirò un paio di volte, e poi me lo restituì. Provai un grande impeto di orgoglio.
«Voglio che lo tenga tu» dissi.
Scosse la testa con una risata silenziosa.
«È meglio di no,» replicò, e poi aggiunse con un sorriso «sai cosa facciamo con la carta in Messico.»
Scoppiai a ridere e pensai che il suo tocco di ironia fosse splendido.
Eravamo seduti su una panchina nel parco di una cittadina della zona montagnosa del Messico centrale. Non avevo nessuna possibilità di metterlo al corrente della mia intenzione di fargli visita, ma ero certo che l’avrei trovato, e così fu. Aspettai solo per poco in quella città prima che scendesse dalle montagne, e lo trovai al mercato, al banco di un suo amico.
Mi disse solo che ero arrivato giusto in tempo per riportarlo a Sonora, e ci sedemmo nel parco in attesa di un suo amico, un indiano Mazatec, con il quale viveva.
Aspettammo circa tre ore. Parlammo di diverse cose irrilevanti, e verso sera, appena prima che il suo amico arrivasse, gli riferii alcuni fatti di cui ero stato testimone pochi giorni addietro.
Durante il viaggio per andare a trovarlo, la mia auto ebbe un guasto nei sobborghi di una città e dovetti restare fermo per tre giorni mentre me la riparavano. C’era un motel dall’altra parte della strada, di fronte all’officina, ma i quartieri periferici mi hanno sempre depresso, così presi alloggio in centro, in un moderno albergo di otto piani.
Il ragazzo dell’hotel mi disse che c’era il ristorante, e quando scesi per mangiare notai alcuni tavoli sul marciapiede. Avevano una disposizione piuttosto carina, all’angolo della strada, sotto bassi archi di mattoni in stile moderno. Fuori faceva fresco e c’erano tavoli liberi, ma preferii accomodarmi all’interno. Entrando avevo notato che un gruppo di giovani lustrascarpe stavano seduti sul ciglio del marciapiede di fronte al ristorante, ed ero certo che mi avrebbero molestato se avessi scelto un tavolino esterno.
Dal punto in cui ero seduto potevo osservarli attraverso la vetrata. Una coppia di giovani uomini si accomodò a un tavolo e i bambini si accalcarono intorno, chiedendo di lustrare loro le scarpe. I due rifiutarono e restai stupito nel vedere che i ragazzini non insistettero, ma ritornarono a sedersi sul ciglio del marciapiede. Dopo un po’ tre uomini si alzarono e se ne andarono; i bambini corsero al loro tavolo e iniziarono a mangiare gli avanzi: in una manciata di secondi i piatti erano puliti. La stessa sorte toccò agli avanzi degli altri tavoli.
Notai che erano molto disciplinati: se rovesciavano dell’acqua l’asciugavano con i loro panni per lustrare le scarpe. Constatai anche la precisione delle loro procedure di ripulitura.
Mangiavano persino i cubetti di ghiaccio rimasti nei bicchieri d’acqua e le fette di limone del tè, compresa la scorza e tutto il resto. Non sprecavano assolutamente nulla.
Durante il mio soggiorno nell’albergo, scoprii che il gestore del ristorante aveva fatto un accordo con i ragazzini: avevano il permesso di gironzolare intorno all’edificio per farsi qualche soldo con gli avventori, e potevano anche mangiare gli avanzi a patto che non molestassero nessuno e non rompessero nulla. Erano undici in tutto, di età compresa tra i cinque e i dodici anni; il più grande, comunque, era tenuto lontano dal resto del gruppo. Lo isolavano apposta, schernendolo con una cantilena nella quale si diceva che aveva già i peli pubici ed era quindi troppo vecchio per stare con loro.
Dopo tre giorni che li osservavo precipitarsi come avvoltoi sugli avanzi più magri mi venne la depressione, e lasciai quella città con la sensazione che non ci fosse speranza per quei bambini, il cui mondo era già stato plasmato dalla loro lotta quotidiana per le briciole.
«Ti dispiace per loro?» esclamò don Juan in tono interrogativo.
«Certo.»
«Perché?»
«Perché mi sta a cuore il benessere dei miei simili. Quelli sono bambini e il loro mondo è brutto e misero.»
«Aspetta! Aspetta! Come puoi sostenere che il loro mondo è brutto e misero?» domandò don Juan, canzonando la mia affermazione. «Pensi di essere in una posizione migliore, non è vero?»
Annuii, mi chiese perché, e dichiarai che il mio mondo, paragonato al loro, era infinitamente più vario e ricco di esperienze e di opportunità per la mia soddisfazione e la mia crescita. Don Juan rise in modo amichevole e sincero, e affermò che parlavo a vanvera, che non avevo alcun modo di sapere nulla della ricchezza e delle opportunità nel mondo di quei bambini.
Pensai che don Juan stesse diventando cocciuto e che, di proposito, scegliesse il punto di vista opposto solo per contrariarmi. Credevo onestamente che quei ragazzini non avessero nessuna possibilità della benché minima crescita intellettuale.
Sostenni la mia opinione ancora per un po’ e allora don Juan mi chiese seccamente: «Non mi hai detto, una volta, che a tuo parere il risultato più grande era quello di diventare un uomo di sapere?».
Lo avevo detto, e ripetei ancora che secondo me diventare un uomo di sapere era una delle più grandi realizzazioni intellettuali.
«Pensi che il tuo mondo molto ricco potrebbe mai aiutarti a diventare un uomo di sapere?» chiese don Juan con leggero sarcasmo.
Non risposi e allora riformulò la stessa domanda in termini diversi, cosa che faccio sempre con lui quando penso che non capisca.
«In altre parole,» disse con un sorriso aperto, consapevole che mi ero accorto del suo stratagemma «la tua libertà e le tue opportunità possono aiutarti a diventare un uomo di sapere?»
«No!» risposi con enfasi.
«Allora come puoi sentirti triste per quei bambini?» domandò serio. «Ciascuno di loro potrebbe diventare un uomo di sapere. Tutti gli uomini di sapere che conosco erano bimbi come quelli che hai visto mangiare avanzi e leccare i tavoli.»
L’argomentazione di don Juan mi procurò una sensazione di disagio. Avevo provato tristezza per quei bambini bisognosi non perché non avevano abbastanza da mangiare, ma perché secondo il mio termine di paragone il loro mondo li aveva già condannati a essere inadeguati intellettualmente. Eppure, secondo il punto di vista di don Juan, ciascuno di loro poteva raggiungere ciò che credevo essere l’epitome della realizzazione intellettuale dell’umanità, l’obiettivo di diventare un uomo di sapere. E motivo per cui provavo pietà per loro era assurdo. Don Juan mi aveva inchiodato in maniera davvero abile.
«Forse hai ragione, ma come si può evitare il desiderio, il desiderio sincero, di aiutare i nostri simili?» gli chiesi.
«Come pensi che si possa aiutarli?»
«Alleggerendo il loro fardello. Il minimo che si possa fare per i nostri simili è cercare di cambiarli. Tu stesso sei coinvolto in questo sforzo. Non è vero?»
«No, non lo sono. Non so né cosa né perché cambiare qualcosa nei miei simili.»
«E cosa dici a proposito di me, don Juan? Non mi insegnavi perché potessi cambiare?»
«No. Non sto cercando di fare ciò. Può accadere che un giorno tu possa diventare un uomo di sapere - non cè modo di prevederlo -, ma ciò non ti cambierà. Un giorno forse potrai vedere gli uomini in un altro modo e allora capirai che non è possibile modificare nulla di loro.»
«Qual è mai quest’altro modo di vedere gli uomini, don Juan?»
«Gli uomini appaiono diversi quando vedi. Il fumino ti aiuterà a vederli come fibre luminose.»
«Fibre luminose?»
«Sì. Fibre, come filamenti sottilissimi simili a ragnatele bianche che li avvolgono dalla testa all’ombelico. Di conseguenza, un uomo appare come un uovo di fibre fluttuanti, e le braccia e le gambe sono raggi di luce che si dipartono in tutte le direzioni.»
«È così che ognuno appare?»
«Sì. Inoltre, ogni uomo è in contatto con il resto del mondo non attraverso le mani, ma tramite un fascio di lunghe fibre che si estendono in tutte le direzioni partendo dal centro dell’addome. Sono queste fibre a collegarlo all’ambiente circostante; esse mantengono il suo equilibrio, gli danno stabilità. Così, come un giorno potrai vedere, ogni uomo è un uovo luminoso, re o mendicante che sia, e non c’è modo di cambiare alcunché; o meglio, che cosa si potrebbe cambiare in quell’uovo luminoso? Che cosa?»
La mia visita a don Juan inaugurò un nuovo ciclo. Non ebbi difficoltà a ritornare di nuovo al mio vecchio schema di comportamento, quando godevo del suo senso del dramma, dell’umorismo e della sua pazienza nei miei confronti. Sentivo che dovevo fargli visita più spesso: non vederlo era una grave perdita per me, e inoltre avevo qualcosa di particolare interesse che volevo discutere con lui.
Dopo aver finito il libro sui suoi insegnamenti cominciai a riesaminare gli appunti presi sul campo che non avevo utilizzato. Avevo scartato una grande quantità di dati, perché mi ero concentrato sugli stati di realtà non ordinaria. Rimaneggiando le mie vecchie note ero giunto alla conclusione che un abile sciamano poteva produrre nel suo apprendista il campo percettivo più specializzato semplicemente«manipolando i suggerimenti sociali». La mia intera argomentazione sulla natura di questi procedimenti manipolatori si basava sull’assunto che fosse necessario un leader per produrre il campo percettivo necessario. Presi come caso esemplare specifico le cerimonie degli stregoni in onore del peyote. Sostenevo che in quelle riunioni gli stregoni raggiungevano un accordo sulla natura della realtà senza nessun aperto scambio di parole o di segni, e la mia conclusione era che i partecipanti usavano un codice molto sofisticato per arrivare a tale accordo. Avevo costruito un sistema complesso per spiegare il codice e i procedimenti, così ritornai a far visita a don Juan per chiedergli la sua opinione e i suoi consigli sul mio lavoro.
— 21 maggio 1968
Non accadde nulla di strano durante il mio viaggio per andare a trovare don Juan. Nel deserto c’erano circa quaranta gradi ed era abbastanza fastidioso. Il caldo si placò nel tardo pomeriggio e quando arrivai a casa sua, verso sera, spirava una brezza fresca. Non ero molto stanco, così ci sedemmo nella sua camera e chiacchierammo. Mi sentivo a mio agio e rilassato, e discorremmo per ore. Non era una conversazione che avrei voluto registrare; non stavo cercando di dire cose particolari o di trarre grande significato: parlammo del tempo, dei raccolti, di suo nipote, degli indiani Yaqui, del governo messicano. Rivelai a don Juan quanto mi piacesse la sensazione meravigliosa di conversare nell’oscurità, e lui disse che la mia affermazione era coerente con la mia natura loquace, vale a dire che era logico che mi piacesse chiacchierare al buio perché parlare era l’unica cosa che potevo fare in quel momento, mentre stavamo seduti in ozio. Ribattei che provavo gioia non solo per il mero atto di parlare e che apprezzavo il tepore confortevole delle tenebre intorno a noi. Mi chiese cosa facevo a casa mia quando era buio; risposi che accendevo sempre la luce o uscivo nelle strade illuminate fino a quando era ora di andare a letto.
«Oh!» esclamò incredulo. «Credevo che tu avessi imparato a usare l’oscurità.»
«A cosa serve?» domandai.
Disse che l’oscurità-e la chiamò «l’oscurità del giorno»- era il momento migliore per «vedere». Mise l’accento sulla parola «vedere» con una singolare modulazione della voce. Volevo sapere cosa intendesse, ma rispose che era troppo tardi per approfondire l’argomento.
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